Dal cinema alla culla
di Giulia Zoppi
Introduzione. Il cinema come medium per comprendere il mondo e le questioni di vita
(…) In fondo, l’immagine non ha forse, per statuto, tutti i caratteri dell’ideologico? Il soggetto storico, come lo spettatore di cinema che sto immaginando, aderisce (si incolla) anch’egli al discorso ideologico: ne prova la coalescenza, la sicurezza analogica, la pregnanza, la naturalezza, la “verità”: è un’illusione (la nostra illusione, perché chi vi sfugge?); l’Ideologico sarebbe in fondo l’Immaginario di un periodo, il Cinema di una società; come il film che sa attirare gli spettatori, anch’essa ha i suoi fotogrammi: gli stereotipi con cui articola il suo discorso; lo stereotipo non è anch’esso un’immagine fissa, una citazione cui il nostro linguaggio aderisce? Non abbiamo nei confronti del luogo comune un rapporto duale: narcisistico e materno?
(…) Ciò di cui mi servo per prendere le distanze dall’immagine, ecco, in fin dei conti, ciò che mi affascina: sono ipnotizzato da una distanza; e tale distanza non è critica (intellettuale); è, per così dire, una distanza amorosa: esisterebbe, anche al cinema (e considerando la parola nel suo profilo etimologico), un godimento possibile della discrezione?1
Nel citare Roland Barthes si intende qui rimarcare il ruolo di termometro del reale (e di produttore di immaginario) che il cinema svolge nella nostra società; ruolo in cui esso ha il compito di fornire una delle possibili chiavi di lettura con cui arrivare alla comprensione di questioni dirimenti per la vita pubblica e quella privata. L’intento che questo breve articolo prova a raggiungere è però rivolto, sic et sempliciter, all’analisi di alcune opere cinematografiche osservate in un contesto che esula dal proprio valore stricto sensu, ma attiene a quel campo di studi che conosciamo sotto il nome di bioetica.
Non si desidera quindi procedere nella direzione che vede la bioetica rivolgersi verso il linguaggio del cinema per un mero scopo divulgativo (operazione utile e di sicura efficacia ma che non sarei in grado di compiere), ma al contrario, si vuole tentare di avvicinarsi ad alcuni film che pongono quesiti bioetici, per cercare di capire se e quanto essi hanno focalizzato le problematiche a cui si sono ispirati. In poche parole, quello che si cercherà di comprendere è: la piccola selezione di cinema italiano (a questo mi riferirò per una banale ragione di sintesi), riesce a porre degli interrogativi utili alla formulazione di possibili risposte? In che modo e con quali risultati? Si cercherà pertanto di andare a verificare se la grammatica che appartiene al linguaggio delle immagini, ha la forza di prescindere dalle proprie regole, per farsi universale e, in ultima istanza, utile all’interpretazione della sfida complessa ed articolata a cui vuole tendere.
Partiamo dal presupposto, come suggerisce Barthes, che il cinema è soprattutto la rivelazione della distanza che ci separa dalle angustie del quotidiano, una fuga fantastica verso desideri di riscatto dalla noia della vita: solo così il reale si schiude all’improvviso, si allarga sorprendentemente a possibilità ignote o mai attese. Come rileva in questa occasione lo scrittore Italo Calvino, spettatore appassionato ed intellettuale curioso:
…(il cinema) risponde a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprire intorno delle dimensioni incommensu-rabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabiliscono una loro rete (astratta) di rapporti.2
E ancora:
Non c’è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La sala buia scompare, lo schermo è una lente di ingrandimento posato sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi. 3
Concludiamo con Calvino che immortala con una sintesi precisa, la condizione dello spettatore durante la fruizione di un film, per rimarcare il forte potere di diffusione che è proprio del cinema come medium:
Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle (mangia pop corn, n.d.r.), ti disturba, entra, esce, magari legge i sottotitoli ad alta voce; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo. Il fatto caratteristico del cinema nella nostra società è il dover tener conto di questo pubblico incommensurabilmente più vasto ed eterogeneo di quello della letteratura: un pubblico di milioni in cui le benemerite migliaia di lettori di libri esistenti in Italia annegano come gocce d’acqua in mare. 4
Sottolineato l’aspetto universalistico del cinema (che sta perdendo terreno, ahimé, in favore delle serie tv, più capaci in questi ultimi anni a catturare la contemporaneità), è opportuno insistere sulle ragioni per cui la Settima Arte abbia sulla vita delle persone, ancora un ruolo così pregnante.
Noi siamo le storie in cui crediamo. D’altro lato noi continuamente confrontiamo le vicende del film con quelle del plot della nostra vita concreta, con le paure e le speranze accese dall’esperienza del patire, del ricevere cura, del guarire. Quando ci viene domandato, in forma grossolana e precoce, se siamo favorevoli o contrari a un tema di attualità (aborto, eutanasia, clonazione ecc.) dovremmo con cautela rispondere: “raccontami la storia e ti dirò quello che penso”. E’ la storia, infatti, è il teatro del vivere, che dà sostanza al tipo di atteggiamento, che approviamo o condanniamo in base ai nostri principi. Tra principi e storie, tra regole e casi, tra sillogismi e simboli, tra teorie e narrazioni c’è la medesima sinergia, lo stesso scambio di verità, che dall’alba della filosofia greca vige tra logos e mito, tra concetto e immagine, tra genere saggistico e genere drammatico.
(…) Le storie sono il banco di prova per misurare la pertinenza, attualità, elasticità, universalità, ricchezza, potere esplicativo, insomma le proprietà che ogni teoria seria rivendica.
(…) La teoria chiarisce ma non dissolve la complessità della vita, fa utilmente luce su un conflitto particolare, ma non sostituisce (imponendo un sillogismo deduttivo) la saggezza decisionale e l’abilità interpretative richieste – sin dall’Etica Nicomachea– in attività quali la medicina, la navigazione o appunto l’etica in situazione. 5
Afferma Aristotele nella Poetica (a cura di M. Pittau, La Scuola, Brescia, 1962 cap. IX, 1451 b 5, p.54):
Il verosimile è più filosofico della cronaca (…).
Con il filosofo greco ci rendiamo conto dell’importanza che assume il cinema nel darci spunti di riflessione, appigli su cui proiettare il nostro vissuto, mettendolo continuamente in discussione:
D’altro canto quanto un testo estetico (quindi anche un film, n.d.r.) sembra riprodurre o copiare la vita, costruisce invece una nuova realtà, capace di “presentare ancora” l’oggetto di partenza (dal latino rapraesentare) , mostrando la verità, che esso costudiva e che solo un occhio addestrato e un contesto sensibile sono in grado di cogliere e rimettere in movimento. 6
Da una stima approssimativa ma non lontana dalla realtà, possiamo affermare con una certa sicurezza che i film che si sono occupati di sviluppare storie con temi bioetici, appartengono perlopiù alla produzione hollywoodiana e quindi industriale, dove di regola sono impiegati budget mediamente importanti. La ragione è semplice. L’industria cinematografica americana, sin dalla nascita degli Studios (a partire dal 1930), ha mirato a proporre e a commercializzare un tipo di cinema chiaramente popolare. Lo ha fatto attraverso autori raffinati, come con autori di “bottega” (registi, tecnici e scrittori a libro paga permanente, salvo flop al botteghino), tenendo sempre presente, come principio base, il mercato, ovvero la domanda del pubblico.
Sappiamo altresì che i temi bioetici riguardano interrogativi che coinvolgono la vita quotidiana delle persone: ecco che il cinema se ne è presto appropriato, seguendo, attraverso gli anni, il variare della società e l’avanzamento della ricerca biomedica.
Ad oggi il mercato che riguarda le tematiche di inizio e fine vita, si è talmente allargato da aver contribuito alla nascita di sottogeneri. I cosiddetti cancer movies ne sono un esempio lampante: solo negli ultimi anni si sono contati decine di film dedicati all’argomento, prodotti principalmente a Hollywood.
Naturalmente non sempre il risultato è stato all’altezza delle aspettative dello spettatore/ cinefilo. Spesso i film lo hanno scontentato; resta comunque inoppugnabile il fatto che, la varietà di temi e di storie che hanno sfiorato argomenti di bioetica, siano stati svariati nel corso dei decenni, tanto da poter essere considerati per gli studiosi della materia, preziosi elementi su cui testare i possibili cambiamenti sociali, economici e culturali delle nostre società.
Come sostiene il critico André Bazin (considerato, a ragione, uno dei teorici del cinema intellettualmente più interessanti, sensibili e profondi di sempre, grazie al quale si sviluppò, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, un serio dibattito sul cinema che sfociò nella nascita della “disciplina filmologica”) la buona riuscita di una pellicola si misura con la sua capacità di rapportarsi con il milieu sociale, storico, politico e morale, con cui impatta sulla società (cfr. André Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Paris 1999, Editions du Cerf).
La sua lezione, è quella che mi darà la linea sulla quale riflettere a proposito dei film che ho selezionato per questo breve articolo.
In medias res, come suggerisce Orazio nell’Ars Poetica
Veniamo alla breve descrizione di alcune pellicole che sono state selezionate in base ad un criterio cronologico, contenutistico e tematico, tenendo fermo l’oggetto di studio, ovvero il desiderio di maternità, le tecniche di riproduzione e il coinvolgimento che queste pratiche hanno sulla vita sociale, intima (privata) e politica dei soggetti coinvolti.
Lo chiameremo Andrea
Regia di Vittorio De Sica; Origine: Italia; anno 1972; Durata: 104 min.; Genere: commedia; Soggetto: Cesare Zavattini; Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Cesare Zavattini; Produzione: Marina Cicogna per Verona Produzione; Fotografia: Ennio Guarnieri; Montagio: Adriana Novelli; Musiche: Manuel De Sica; Scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni; Interpreti e Personaggi: Nino Manfredi è Paolo, Mariangela Melato è Maria, Isa Miranda è una collega di Maria e di Paolo come Esmeralda Ruspoli, Giulio Baraghini è Spadacci.
Sinossi:
Paolo e Maria sono due maestri elementari che si amano ma non riescono ad avere il figlio tanto desiderato. Fatti i dovuti accertamenti clinici, apprendono che la causa è attribuibile alla infertilità di Maria, superabile con alcuni accorgimenti sullo stile di vita. Prese tutte le precauzioni, tra le quali una tenda ad ossigeno per ovviare all’inquinamento dell’aria provocato da un cementificio vicino casa, Maria resterà finalmente incinta, ma sarà solo una gravidanza isterica…
Opera minore di Vittorio De Sica, autore prolifico e tra i più importanti della storia del cinema italiano e non solo, il film appare ad uno sguardo contemporaneo, ancora molto fresco, divertente e realistico, per quanto inserito in un contesto storico superato per molti aspetti. Il film si apre mostrandoci le aule di una piccola scuola elementare alle porte di una grande città, funestata da un problema di inquinamento atmosferico che coinvolge alunni e maestri, causato dalla sovraproduzione di polvere bianca proveniente da un cementificio situato nelle vicinanze. Paolo e Maria svolgono lì la loro professione di maestri elementari e sono una coppia. Appare subito evidente la diversità dei due caratteri, l’uno è bonario e tranquillo, l’altra è dinamica e sopra le righe. Il loro ménage sembra scorrere felicemente fino al momento in cui Maria, sollecitata dalle aspettative dei colleghi (evidentemente il contesto storico richiedeva ancora con una certa insistenza che una donna poco più che trentenne dovesse diventare madre, dopo il matrimonio), comincia a soffrire la mancanza di un figlio per sentirsi completamente realizzata come donna e come moglie.
Sulle prime Maria cerca di minimizzare il senso di frustrazione, ma il problema inizia a farsi pressante quando intorno a lei appaiono miracolosamente, solo donne incinta.
Risulta peculiare la sostanziale differenza dei due caratteri, come già accennato. Paolo ha una dolcezza materna, paziente e rilassata, Maria al contrario, seppur alla ricerca spasmodica di una gravidanza, è concentrata solo su se stessa, ha modalità e atteggiamenti che definiremmo “maschili” per determinazione e poca propensione all’ascolto, e non vede ragioni oltre la sua (la divisione è grossolana, ma si poggia semplicemente sulla necessità di definire due caratteri cinematografici). E così, nelle numerose occasioni in cui i due si appartano per consumare un rapporto sessuale rapido e spesso scomodo (con annessa misurazione della temperatura basale di Maria), ella è in preda ad un’ossessione che finisce per spoetizzare il contesto, lasciando a Paolo il ruolo di esecutore freddo e accondiscendente.
Quando oramai è certo che la tanto agognata gravidanza non vuole arrivare, Maria decide di sottoporre il marito ad una serie di accertamenti clinici, perché è sicura che il problema di infertilità sia il suo.
La scelta ricade su una clinica svizzera, in cui, pare, si facciano miracoli.
Quando i due giungono a destinazione, si imbattono in un medico che non parla italiano ma solo tedesco. Il luminare li osserva con sguardo severo ed accigliato, quindi ordina loro di spogliarsi per una visita accurata. Poiché Maria è certa che il “malato” sia Paolo, lo getta letteralmente tra le braccia del clinico, nella speranza che trovi una soluzione per la sua infertilità.
Purtroppo la visita ha un esito inaspettato, Paolo, secondo la diagnosi, non solo è fertile, ma anche un uomo sessualmente possente, un “toro”, secondo l’opinione risoluta del medico.
A Maria non resta che accettare il verdetto e a malincuore, farsi visitare per scoprire dolorosamente che il problema è suo e non del coniuge.
Tornati a casa, la coppia si adopera per eseguire alla lettera i consigli del sessuologo. Non solo i due dovranno avere ancora frequenti rapporti sessuali, ma anche procurarsi una tenda ad ossigeno da porre sopra il letto, così da evitare il passaggio delle polveri sottili causate dal cementificio e forse motivo del malessere di entrambi.
Occorre dire, per evitare di far sembrare il film totalmente astratto rispetto al contesto storico in cui è inserito, che esso si può ritenere a pieno titolo una commedia “all’italiana” (cfr. J. A. Gili, Arrivano i nostri, I volti della commedia italiana, Bologna, 1980 e M. D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, 1975) e come tale, teso a descrivere fatti di costume, spingendo molto sul carattere comico e satirico delle situazioni e dei personaggi.
Per quanto il film sia uscito nel 1972, in piena rivoluzione femminista, ovvero solo due anni dopo la legge che sancì il diritto di divorziare dal coniuge, poco o nulla degli echi contestatari e progressisti del periodo, sembrano farsi spazio nella trama, tuttavia, anche se le situazioni virano verso la commedia tout court, è scorretto definire il film interamente disimpegnato. Potremmo più correttamente ascriverlo invece, alla categoria di “affresco piccolo borghese”, in cui la violenza delle piazze e la richiesta di una società meno maschilista ed ingessata che si agitava in quegli anni, restano fuori dalla porta, per poterci restituire un quadro sociale dove non si cerca di dimostrare alcuna tesi, ma si tenta solo di intrattenere il pubblico con una storia tragicomica.
A dimostrazione di quanto sia veritiero questo assunto c’è l’episodio in cui vediamo Maria (a cui non è ancora noto di essere colpita da una piccola malformazione congenita all’utero), filrtare con il collega, l’insegnante di ginnastica Spadacci (tutto muscoli e niente cervello), allo scopo di far ingelosire Paolo, partner sin troppo gentile e morbido per le sue continue richieste di attenzione, sortendo un risultato esilarante (e ben poco soddisfacente per lei).
Per quanto i caratteri dei personaggi siano disegnati con un’attenzione mirata a farne delle piccole caricature (il team di sceneggiatori del film è uno dei più autorevoli che il nostro cinema abbia mai espresso in materia di commedia), la delicatezza di Paolo, contrapposta alla risolutezza di Maria, hanno il sapore di una provocazione contro il nascente movimento femminista che all’epoca, e per la prima volta in Italia, rivendicava una distinzione molto marcata dei generi, attraverso la liberazione femminile dalla cultura maschilista dominante (per riprendere uno slogan molto in voga in quegli anni), ma in senso contrario al film (in cui la rabbia di Maria non è ascrivibile ad una richiesta di libertà dal giogo maschile, ma al contrario al desiderio di maternità, e sappiamo come il movimento femminista si sia molto diviso sulla questione).
Quando anche la tenda ad ossigeno non sembra essere stata utile allo scopo, Maria entra in una fase depressiva molto forte e decide di lasciare Paolo.
Una mattina però, durante la lezione, la donna sviene e questo le fa credere di essere rimasta finalmente in stato interessante. Tornata a casa dal marito, lo incita subito ad apportare le modifiche necessarie per accogliere il nascituro nella camera a lui destinata, decretando, seduta stante, che il piccolo si chiamerà Andrea e la decisione è insindacabile.
Allertato il consiglio docenti (da tempo solidale con il dramma dei due sposi) della sopraggiunta maternità di Maria, la coppia comincia a ricevere regali e bigliettini da parte di tutti, anche se la gioia durerà pochissimo: nottetempo l’arrivo di un’inaspettata mestruazione, annuncia a Maria di avere (secondo il parere del ginecologo), i sintomi di una gravidanza isterica, indotta da un desiderio smodato di maternità.
Il mondo di Maria crolla inesorabilmente sulle sue spalle energiche, ma, dopo aver sfogato rabbia e delusione, si convince che se la natura non potrà aiutarla, lo farà lo Stato e così insieme a Paolo decide di recarsi in un orfanatrofio.
Inteneriti dalla vista di tanti bambini in attesa di adozione però, la coppia comincia a battibeccare perché la scelta del bambino li divide. Sulle prime si indirizzano su un bimbo di colore, poi lo scartano perché avrebbe una vita difficile proprio in quanto nero, portando alla nostra attenzione un problema non ancora pressante per l’epoca, quello dell’integrazione, che oggi invece sentiamo molto cogente.
Oramai chiaro che non adotteranno nessuno (li vogliono tutti, perciò meglio rinunciare), si congedano dalla direttrice dell’orfanotrofio, vinti dall’incertezza.
Si diceva che il film soffre di una visione della realtà deformata dai luoghi comuni, pur non essendo pienamente fuori contesto rispetto ai tempi.
I due sposi infatti sono una coppia del tutto tradizionale: entrambi lavorano e se anche De Sica insiste nel proporci Paolo molto più adatto al ruolo di maestro di quanto lo sia Maria (le sequenze dove Maria è in classe, sono decisamente meno rispetto a quelle in cui lo è Paolo), è evidente che il ruolo di Maria non sia tra le mura delle scuola ma a casa, dove tutto e tutti girano intorno alla sua ossessionata ricerca di un figlio.
Tuttavia, anche se poco o nulla fa sì che questa pellicola risulti al passo con la cronaca del periodo (pensiamo che la società fosse ancora molto restìa ad assorbire novità o istanze libertarie, trattandosi di una storia datata 1972, agli albori delle contestazioni), su un aspetto il film è decisamente avanti sui tempi: nella denuncia chiara e risoluta contro la crescente invasione della pubblicità nella televisione in B/N che sta cominciando a corrompere irrimediabilmente l’immaginario infantile, tanto da indurre la scolaresca ad intonare in classe, i ritornelli delle reclamés al posto delle canzoncine che Paolo insegna loro durante le ore di musica. Il tutto descritto come un pessimo, quanto inesorabile, segno dei tempi.
Il finale va di pari passo al tono della pellicola, sapientemente comica e divertente, specie grazie alle straordinarie prove di Mariangela Melato, una Maria frenetica, sagace, pungente ed energica e di Nino Manfredi, un Paolo trasognato, mite, dolce e paziente, tanto come marito che come maestro elementare e, non ultimo, ad una sceneggiatura effervescente, in cui i rari momenti di calma, sono dedicati agli alunni della scuola intenti a fare i compiti.
Dopo aver concluso con un nulla di fatto la questione adozione, Maria, mai rassegnata alla solitudine, decide di giocarsi l’ultima carta e di recarsi da una fattucchiera che le venderà a caro prezzo, una pozione magica che a suo dire, darà al marito una straordinaria potenza sessuale, purché sciolta nel caffè e consumata dal coniuge in un solo sorso (a condizione che dopo la pozione i due si corichino al buio, sotto un manto di stelle, in un campo e in prossimità di una ferrovia).
Seppure la donna si sia organizzata affinché il suo piano vada a buon fine, qualcosa si oppone al disegno e il caffè drogato finirà nello stomaco del marito di un’amica, che insieme ad altre coppie, si sono trovati a casa dei due insegnanti per puro caso.
Quando l’uomo avrà inghiottito la pozione, sarà subito chiaro a Maria la natura dell’incidente che avrà le sembianze di una boutade dai tempi comici irresistibili, dopo il quale però Paolo, ignaro di tutto ma consapevole della gravità della situazione, scapperà di casa in cerca di pace e tranquillità. Stremato da tanta confusione.
A Maria non resta che uscire di casa alla ricerca disperata del marito, per scusarsi dell’accaduto, conscia di aver oramai esagerato.
Raggiunto il compagno e in lacrime, ella gli dichiara tutto il suo amore e la decisione di voler rinunciare alla gravidanza, per colpa della quale il loro matrimonio sta naufragando. La cinepresa riprende la coppia avvinghiata su un prato, alla luce delle stelle, mentre un fischio annuncia l’arrivo di un treno…chissà che questa non sia la volta buona!
Conclusioni
Ci siamo già soffermati sugli aspetti unidirezionali con i quali il film affronta la tematica del desiderio di maternità di Maria (non si chiarisce la ragione per cui insista nel volere un figlio, la si dipinge, non senza una qualche ragione, petulante e poco ragionevole) e sui caratteri opposti dei due personaggi (opposti tra di loro ma opposti anche rispetto al cliché). E’ evidente che il punto di vista predominante sia quello maschile, perché uomini sono gli sceneggiatori e il regista.
Anche se Maria non ci risulta antipatica (al contrario la Melato dona al personaggio una vitalità esplosiva e conturbante) nonostante il rumore che ella produce lungo tutto il film, è il punto di vista di Paolo quello su cui ricade la nostra maggior empatia e non può essere un caso, visto che gli autori non solo sono tutti uomini (devono essersi impegnati molto nel disegnare un personaggio maschile così amabile e raro, nell’ambìto di una commedia) ma sono scrittori abilissimi nel dosare perfettamente tempi e modi della commedia e giocano a sovvertire il cosiddetto “senso comune” con una maestria impareggiabile. Paolo infatti è così bravo ad accettare tutto con rassegnata bonomia e con infinita pazienza (per quanto ogni suo sforzo sia continuamente messo a dura prova) da sembrare quasi un martire.
Altro aspetto su cui è bene dire due parole è quello relativo alla fiducia nella ricerca medica: nel film non solo non c’è traccia di alcun ricorso alle pratiche di inseminazione (l’inseminazione in vitro era già una pratica avviata), ma il sessuologo svizzero e il suo assistente, sono personaggi fastidiosi, distanti e insopportabili.
Niente che faccia pensare che possano ambìre alla nostra simpatia.
Accantonata la medicina a cui si riconosce poca autorità, evidentemente (o poco appeal), si ricorre alla magia come un’espediente possibile, praticabile, facendo correre la pellicola indietro di qualche decennio, quando ancora le credenze avevano la meglio sulla scienza (ma saremmo troppo ottimisti nel credere che il problema sia facilmente superato con lo scorrere del tempo, basti vedere quanti casi di pseudo scienza sono ancora all’ordine del giorno!).
Infine, ciò che sembra chiaro a tutti è che la questione maternità venga liquidata come una bizzarria tutta femminile a cui Paolo si piega per puro quieto vivere e che in fondo, il solo metodo per mettere al mondo un figlio, sia quello di affidarsi semplicemente alla passione, al caso e al puro desiderio di unirsi, senza fretta, senza affanni, romanticamente…
Ad ogni modo è importante sottolineare che la commedia all’italiana non ha mai cercato di indottrinare nessuno, non ha mai lasciato che l’ideologia se ne appropriasse (non bisogna dimenticarsi che essa nasce come la “costola leggera” del Neorealismo), tentando, casomai, di raccontate l’Italia da vicino, con lo scopo di registrarne umori e debolezze, dopo che il boom economico degli anni ’60, ne avesse stravolto repentinamente i connotati, con un’azione di maquillage (ove sotto il trucco respira ancora un Paese rurale e arretrato).
Resta indubbio comunque, che nonostante siano trascorsi 47 anni dall’uscita di quest’opera, niente della sua carica comica e satirica é andata perduta. Non osiamo immaginare cosa potrebbe essere rimasto di un film di questo tipo se non fosse stato girato da Vittorio De Sica (o da uno dei grandi Maestri della commedia come Dino Risi, Monicelli…), regista premio Oscar e attore tra i più profondi, sensibili (e scanzonati) del nostro cinema. Per non dire delle straordinarie prove di Melato e Manfredi, impegnati in una coppia irresistibile, affascinante e perfetta nei tempi comici, come poche altre. Quando uscì il film non fu annoverato tra i migliori di De Sica, ma visto con gli occhi di oggi, appare decisamente e mediamente molto al di sopra delle attuali commedie nostrane.
Tutti i santi giorni
Regia di Paolo Virzì; Origine: Italia; Anno: 2012; Durata: 102’; genere: commedia; Soggetto: Simone Lenzi (tratto dal romanzo La generazione); Sceneggiatura: Francesco Bruni, Paolo Virzì, Simone Lenzi; Prodotto da: Motorino amaranto e Rai Cinema; Fotografia: Vladan Radovic; Montaggio: Cecilia Zanuso; Musiche: Thony; Scenografia: Alessandra Mura; Costumi: Maria Cristina La Parola; Personaggi e interpreti: Guido è Luca Marinelli, Antonia è Thony.
Sinossi
Guido e Antonia sono una coppia di giovani: toscano lui, siciliana lei. Si sono conosciuti in un pub di Roma dove lei si esibiva come cantante e adesso vivono insieme in periferia. Lui nonostante sia un fine antichista, lavora come portiere in un hotel, lei, pur desiderando continuare a cantare e comporre, si mantiene come hostess in un autonoleggio. Sono alla ricerca di un figlio e ogni tentativo per averlo, li metterà in contatto con se stessi e con le proprie fragilità.
A 40 anni di distanza dalla commedia di De Sica, in un contesto storico completamente diverso, in cui i presupposti sociali e culturali presenti in nuce nella commedia precedentemente descritta sono oramai interamente assimilati, se non superati, ci troviamo al cospetto di una giovane coppia dei nostri giorni, composta da due personaggi agli antipodi per carattere e appartenenza di ceto.
Guido è un timido studioso di lettere antiche che, nonostante il talento per lo studio, ha rinunciato alla carriera universitaria per mantenersi come portiere di notte, allo scopo di realizzare il sogno di diventare padre con la donna che ama. L’accento smaccatamente toscano e l’ inclinazione ad usare il latino nell’intercalare, lo rendono un personaggio peculiare, diverso, ma la sua goffaggine non fa che renderlo simpatico e tenero. La sua vita dedita allo studio sarebbe rimasta tale probabilmente, se una sera non si fosse imbattuto in Antonia, affascinante cantante di origine siciliana, dalla vita sregolata e senza fissa dimora. L’incontro fatale, ha fatto sì che dalla prima notte insieme non si siano mai più lasciati, tanto che oramai i due convivono da 6 anni in un piccolo appartamento nella periferia romana.
Antonia ha un passato che vuole dimenticare. Scappata di casa adolescente, è giunta a Roma in cerca di successo e nella Capitale ha vissuto di espedienti, prima di unirsi al giovane compagno, alla ricerca di una stabilità mai conosciuta prima.
Paolo Virzì, regista livornese oramai conosciuto e apprezzato da pubblico e critica, dopo gli esordi con Ovosodo, commedia acerba ma originale e sincera, è alla sua quarta prova con il genere e, da buon allievo di Piero De Bernardi (co-sceneggiatore di Lo chiameremo Andrea), ne ha assimilato le migliori caratteristiche, per quanto nelle sue pellicole la commedia sia spesso amara, venata da un realismo pessimista e quindi mai smaccatamente leggera.
Sin dalle prime sequenze veniamo a conoscenza che i due stanno provando ad avere un bambino. Le scene di nudo, esplicite e mai volgari, ne sono il segnale più evidente, anche se niente tra loro fa pensare ad una stanca routine, ma al contrario al sano divertimento di due giovani amanti senza freni inibitori.
I loro vicini di casa, una famiglia disfunzionale, composta da una coppia di eterni litiganti, hanno già due bambini e ne aspettano un terzo, ma dalle urla che trafiggono le mura quasi ogni giorno (e notte), sembrano oramai sull’orlo di una crisi irreversibile.
Antonia, che ha lasciato la famiglia in Sicilia, oppressa da aspettative conformistiche che aborre (la desideravano moglie, madre e casalinga), vuole adesso dare un figlio a Guido, per dimostrare a se stessa di non essere una donna fallita, consegnandoci però un ritratto di sé, che stride fortemente con la sua tanto agognata ricerca di autonomia e libertà.
I due si amano e vivono la loro routine con allegra spensieratezza, fino al momento in cui, il pensiero della maternità diventa pressante, tanto da scalfirne la serenità.
Nonostante cerchino il modo di unirsi nei momenti più impensati, contribuendo a donare alla storia quel mood di umana incoscienza da risultare spontaneo e vitale, i tentativi falliscono, incrementando in Antonia un moto di frustrazione a causa della quale, decide di licenziarsi dall’azienda in cui lavora, di nascosto dal compagno.
Come se non bastasse, il vicino di casa, venuto a conoscenza della terza gravidanza della moglie, dopo una scenata volgare e violenta se ne va, lasciando la famiglia in grave difficoltà economica.
Durante una breve parentesi maremmana, dove Guido raggiunge il casolare di famiglia insieme alla compagna, ci avviciniamo ulteriormente alla vita del giovane studioso, scoprendo l’origine altoborghese, colta e cosmopolita dei suoi, in cui il fratello maggiore è nientemeno che uno dei consiglieri economici del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
Guido al cospetto di tanto successo prova imbarazzo: non tanto per le umili origini di Antonia (molto benvoluta per il carattere schietto e inusuale), quanto per il suo posto di portiere di notte, decisamente fuori luogo rispetto al coté familiare che gli avrebbe consentito di continuare a studiare, se solo avesse desiderato.
Rientrati a Roma, sempre più uniti, decidono insieme di ricorrere alle tecniche di PMA (procreazione medicalmente assistita) in un centro specializzato (prima di Antonia, sarà Guido a prestarsi ad esami clinici come lo spermiogramma).
Per quanto Guido sia intimidito dal presentarsi alle addette ai lavori del centro che lo dovranno indirizzare sul come e dove lasciare il liquido seminale che verrà utilizzato per la Fivet (fecondazione spontanea in provetta, che richiede seme di buona qualità)7, le immagini riservate al suo tentativo di riempire la provetta di seme, sono uno spiraglio di leggerezza che giovano al superamento della pesante situazione.
Questa volta il personale medico e paramedico che assiste Antonia però, non ha l’aria disumana e rigida del sessuologo svizzero, al contrario, l’ambiente e i medici della clinica sono caldi, accoglienti. Antonia, nonostante si stia sottoponendo a stimolazione ovarica durante i cicli di Fivet, appare serena e determinata, e tutto fa pensare che il suo carattere saturnino possa reggere il peso di un periodo che si annuncia difficile.
Una mattina Guido viene svegliato dall’improvviso palesarsi dei genitori di Antonia che chiedono al giovane di poterla vedere. Confidando sul buonumore della compagna, egli stabilisce un appuntamento per farli incontrare.
Purtroppo però l’idea non si rivela felice, Antonia reagisce male e l’incontro con i suoi ha un esito fallimentare, rimarcando il sentimento di abbandono che la ragazza ha introiettato durante la crescita in Sicilia e che non sembra in grado di superare.
Mentre Guido sta assumendo un farmaco per rendere il suo liquido seminale più “efficiente” (lo spermiogramma ha comunque rilevato buone possibilità di successo per la fecondazione), la compagna si attiene alla dieta che biologi e ginecologi le hanno consigliato, senza lamentarsi.
All’improvviso però, un episodio turba la relativa tranquillità della coppia. La primogenita della vicina di casa, con la quale Antonia ha un rapporto di simpatia e tenerezza, le viene affidata per qualche ora.
Antonia, che nutre un sentimento nomadico mai sopito, la porta al mare, dove si fermeranno molto oltre il previsto.
Inevitabilmente quando le due fanno rientro a casa, a sera inoltrata, trovano la mamma della bimba in preda ad una crisi di nervi e Guido profondamente mortificato per non esser capace di proteggere Antonia dai violenti rimproveri della donna.
Ancora una volta, siamo messi di fronte alla profonda differenza di carattere dei due personaggi principali. Guido sembra aver accettato di buon grado la rinuncia alla carriera universitaria, nonostante avrebbe potuto godere dell’aiuto economico dalla famiglia e conduce una vita serena e senza strappi. Ha ottimi rapporti coi colleghi dell’hotel, accetta senza problemi i repentini cambiamenti umorali di Antonia che si diverte spesso a raccontargli le tante avventure amorose che ha incontrato nella sua vita di artista; Antonia, dal canto suo, pare concentrarsi solo sulla realizzazione del suo desiderio di maternità, a cui ha affidato tutta la sua vita (e il senso di se stessa).
Inutile dire che i cicli di fivet non avranno il risultato sperato. Per Antonia non ci sarà nessuna gravidanza, così decretano severamente i fogli ritirati dalla clinica e la notizia, unita alla fatica fisica e psicologica delle terapie subìte, nonché alle aspettative a cui ella si era abbandonata, la ferisce profondamente, tanto da indurla a commettere un colpo di testa che la porterà a lasciare, nottetempo, il suo compagno, per andare a convivere con l’ex fidanzato rocker, con cui aveva diviso notti brave e concerti indies prima di conoscere Guido.
Guido, che ha un carattere posato e riflessivo accetta la realtà, nonostante la delusione cocente di aver in un colpo solo rinunciato alla fidanzata e alla paternità, lo abbiano colpito profondamente.
Un giorno, approfittando di un’espediente utile per rivedere la sua ex, il ragazzo si reca a trovarla, rendendosi conto che la precarietà in cui ella vive con il musicista, è qualcosa che non le appartiene più.
La dolcezza con la quale Guido le si rivolge, dietro i suoi occhiali tondi da miope e il suo humour gentile e impacciato, hanno la capacità di convincerla in pochi minuti che, nonostante i dolori e le ferite, è lui l’uomo che ama e con cui desidera passare la vita.
Prima dello scorrere dei titoli di coda e come in una favola, vediamo le immagini sgranate, accompagnate dal canto suadente di Antonia, delle loro nozze a cui partecipano tutti, genitori e amici, sorridendo di felicità.
Conclusioni
A differenza del film che precede, questo lavoro non ha la forza di imporsi alla nostra attenzione per meriti particolari, anche se complessivamente ha la capacità di disegnare con delicatezza due personaggi realistici e positivi, all’interno di una cornice storica ben precisa.
Non abbiamo un cast stellare come la coppia Melato/Manfredi, ma più modestamente un ottimo attore, Luca Marinelli (romano che parla toscano solo a tratti) e Thony, compositrice e cantante di talento (qui prestata al cinema con buoni risultati), ma nemmeno un gruppo di sceneggiatori eccellenti come quelli della commedia di De Sica, per quanto Virzì abbia dimostrato di possedere la stoffa giusta sia per affrontare la commedia, che per tratteggiare efficacemente il dramma.
Il film è tratto da un romanzo, La generazione, che costruisce la sua trama sulla storia d’amore di due giovani alle prese con un presente assai problematico, minato dalla mancanza di lavoro e immerso in un clima di continua precarietà esistenziale.
Siamo nella periferia romana e la crisi economica del 2008 che ha colpito il mondo occidentale, ha lasciato segni indelebili, nonostante siano passati 4 anni.
In un contesto economico sofferente, appare già miracoloso che sia Guido che Antonia abbiano un lavoro, per quanto non particolarmente qualificato (ma Guido parla un ottimo tedesco e questo gli giova), come lo è il fatto che, nonostante le difficoltà quotidiane, i due formino una coppia stabile, viste le profonde differenze caratteriali che li dividono.
Ad Antonia spetta il ruolo della ragazza creativa e ribelle, a Guido del giovane sensibile, dotato intellettualmente e di buon carattere.
Anche in questo film il vulnus della storia è legato al desiderio di maternità e anche qui, Guido si comporta come Paolo nel seguire la compagna in un difficile percorso, assumendone il desiderio senza opporsi e senza lamentarsi e accettando una subalternità che a ben vedere, risulta un atto di amore sincero.
Nonostante la pellicola sia catalogata come commedia, essa, in verità, assomiglia molto di più ad un dramma contemporaneo perché i momenti di leggerezza e ilarità sono piuttosto rari e quando ci sono, appaiono attraversati da numerose ombre.
Finita per sempre l’epoca della stabilità lavorativa e data ormai per scontata la natura liquida (se non gassosa) della società in cui viviamo, l’atmosfera che permea il film, è oscurata dall’imminente possibilità di una crisi che seppur impalpabile, sembra reale.
Crisi del lavoro (che lei snobba, licenziandosi) e crisi della coppia (dei vicini di casa, borgatari senza cultura e senza soldi, ma anche loro, quando lei scappa di casa, abbandonandolo), che però hanno la caratteristica di non venir vissute come eventi catastrofici, proprio in virtù della mobilità (e velocità) con la quale la nostra attuale società affronta cambiamenti e passaggi in un moto perpetuo.
Quanto al ricorso alla medicina, questa volta Virzì osa di più, accompagnandoci dentro il centro di procreazione assistita, dandoci modo di conoscerne almeno un po’, personale e ambienti, anche se le scene al suo interno sono poche e niente del dramma di Antonia viene mai scandagliato da vicino (ma, come ci insegna la commedia, è più importante fornire un quadro sociale di insieme che analizzare i personaggi!).
Sta al pubblico intuire che, probabilmente, la ricerca di un figlio per Antonia potrebbe essere un tentativo di riscatto vs la famiglia di origine e che in lei, forse, alberga un senso di forte disagio e di fallimento, dovuto al suo mancato successo di artista.
In ogni caso occorre aggiungere che siamo al cospetto di un film ben girato dove i buoni sentimenti hanno la meglio e dove l’amore vince su tutto.
Questo film infatti, ha il merito di farci credere che il rispetto reciproco e l’accettazione di sé, siano elementi fondamentali per accedere alle dure prove che la medicina procreativa richiede, proprio per i numerosi fallimenti a cui va incontro e le possibili ricadute psicologiche che può provocare sulla donna e sulla coppia. Va infine sottolineato come, sia nel film di De Sica che in questo, seppur inseriti in una società e un’epoca molto diverse, nei personaggi di Paolo e di Guido ravvediamo profilarsi i caratteri di due uomini capaci di inserirsi nella questione “maternità”, mantenendo un atteggiamento pacato e rispettoso, ad evidenziare, come è giusto, la centralità della donna nei confronti della questione. Ad oggi, nonostante la ricerca biomedica sia progredita, la maternità resta ancora una questione prettamente femminile dove l’uomo ha un ruolo secondario, tutto sommato (le cose si complicano in merito alla procreazione eterologa, dove non c’è solo il partner, ma anche il donatore). L’esperienza materna è intimamente legata alla soggettività femminile. E’ la donna che ad un certo punto della vita decide di diventare madre, a lei resta (ancora) il compito di sopportare i 9 mesi di gestazione ed è sempre lei ad occuparsi dei primi mesi di vita del nascituro. Cionondimeno, è bene sottolinearlo, apprezziamo il fatto che nonostante il fallimento procreativo dei nostri personaggi, entrambe le coppie siano rimaste insieme e soprattutto che, superata la comprensibile sofferenza iniziale per le aspettative deluse, abbiano reagito con forza e coraggio, girando pagina con rinnovato slancio. A tal proposito, ci sentiamo di segnalare, tra gli altri, il volume collettaneo M’ama non m’ama, madri, matrigne oppure no (a cura di A. Bruni, S. Chemotti, A. Cilento, ed. Il Poligrafo, Padova, 2008), dove scrittrici e studiose hanno contribuito, attraverso una serie di racconti, a delineare il materno secondo declinazioni diverse, astraendolo dal puro evento biologico, per restituirlo alla nostra attenzione e con pari dignità, come evento culturale e antropologico, inserito in una società complessa e mobile come quella in cui viviamo.
Vita nova
Regia di Danilo Monte, Laura D’Amore; Origine: Italia, Durata: 80’; Genere: Documentario. Anno: 2016.
Interpreti e Personaggi: Danilo Monte, Laura D’Amore.
Sinossi
Laura e Danilo sono una coppia, una coppia artistica e nella vita privata. Non riuscendo ad avere un figlio decidono di intraprendere la strada della fecondazione assistita. Nei mesi che precedono il primo tentativo di PMA (Procreazione Medicale Assistita) sono spaesati e si rendono conto non solo della complessità dell’esperienza che stanno per affrontare, ma anche della componente emotiva che mette in discussione tutta la loro vita, come singoli e come coppia. Decidono allora di filmarsi per lasciare una traccia di quello che stanno vivendo, per elaborare e in futuro poter condividere con altre persone, attraverso un film, questa esperienza.
Passato al Festival dei Popoli, antica e prestigiosa vetrina fiorentina del cinema documentario lo scorso anno, questo lavoro ha girato l’Italia, trovando un felice approdo in una serata di proiezione organizzata da CinEtica, associazione lecchese che da tempo organizza, con eventi a latere alla sua attività medica e di ricerca sulle cure palliative, cineforum dedicati a film che toccano problematiche bioetiche.
L’evento, pubblicizzato sul sito del film (in quanto opera autoprodotta e a basso costo e quindi fortemente bisognosa di autopromuoversi) viene descritto con un profluvio di aggettivi superlativi che lasciano perplessi, ma che attengono esclusivamente ad una strategia di marketing, ovvero ad un tentativo ingenuo e spudorato di pubblicità.
Abbattendo qualsiasi forma di pudore e dando per scontato che la cronaca minuziosa di ogni passaggio inerente la scelta di avere un figlio, attraverso l’esperienza della PMA, possa risultare interessante (niente ci viene risparmiato: l’indecisione iniziale sulla terapia medica da seguire, le ansia e la paura legata al possibile insuccesso dell’inseminazione omologa, problemi fisici e psicologici conseguenti, malesseri, litigi, pianti e delusioni annesse) ci troviamo di fronte ad un’operazione che poco o nulla ha che fare con il cinema e molto con un delirio narcisistico/ossessivo, travestito da documentario.
Abbiamo premesso che per ragioni di onestà intellettuale, non avremmo discusso la questione da un punto di vista medico, non ne saremmo in grado, ma al contrario, che avremmo fornito un modesto contributo all’interpretazione di alcune pellicole (o meglio, opere cinematografiche, visto che in questo caso stiamo parlando di un lavoro girato in digitale), orientate a far luce su un piccolo spaccato della società italiana, in merito alla maternità, nel corso di alcuni decenni.
Ebbene, quest’ultima produzione, che chiude una riflessione sull’argomento, pone interrogativi non solo estetici ma anche etici, nella misura in cui, affronta un lavoro che si pone al di fuori del canone classico proprio del cinema (narrazione/ montaggio e/o sguardo/mitopoiesi), superandone i limiti espressivi e confezionando un’operazione di marketing che strizza l’occhio al reality show e si connota come un unicum che ci obbliga al ruolo di voyeurs (e non già di spettatori).
Per commentare quest’operazione, facciamo nostre le parole del cineasta ginevrino, già collaboratore della redazione della prestigiosa rivista di critica cinematografica francese Les Cahiers du Cinéma (di cui André Bazin figura tra i fondatori), Jean-Luc Godard, che distingue il cinema dalla televisione attraverso una sintesi che condividiamo interamente: “ il cinema è arte, la televisione demagogia”, sottintendendo che un’opera cinematografica per quanto popolare, è pur sempre opera di ingegni che sottopongono un’idea, un progetto ad un piano narrativo (in cui il montaggio è un’operazione dirimente ed ideologica, in senso “barthesiano”) e che si pongono nella prospettiva di ideare, creare delle suggestioni, delle provocazioni intellettuali che confluiscono in un film, attraverso dispositivi che creano distanza, filtri …mentre la tv (e quindi il reality show, dove la telecamera è sempre accesa), con il flusso indiscriminato di immagini, nel suo fluire perpetuo, genera solo il nulla, quell’indistinto susseguirsi di rumore e ombre, che nel vuoto di significato, non ammaliano ma ipnotizzano (da qui l’uso del termine demagogia).
Il cinema è un’arte bifronte: da un lato è un medium che gode di grande libertà creativa (infiniti sono i modi con cui esso ci intrattiene e, come ben sostiene R. Barthes in queste pagine, ci incolla davanti allo schermo, cambiandoci, arricchendo il nostro mondo interiore e il nostro immaginario mentale), dall’altro è un’industria che produce merce e che, in quanto tale, segue rigide ricerche di mercato e le asseconda, confezionando opere/prodotto (e nessuno lo fa meglio degli americani).
Nondimeno, porre la telecamera, come in questo caso, sulla quotidianità di una coppia, filmando secondo dopo secondo ogni respiro, azione, atto, gesto, pretendendo la nostra curiosità per ogni singola mossa (sia essa dentro un salotto, come nella sala operatoria durante la fivet), non è arte e nemmeno industria, perché:
Senza limiti visivi non si dà più, o quasi, immaginario mentale; senza un certo accecamento non c’è più apparenza sostenibile…auspicare “l’eguaglianza degli spettatori davanti all’immagine, come fanno i pubblicitari, seguiti a breve distanza dai fautori della democrazia catodica significa “denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono vivamente” (Kafka, Lettera a Milena, 1922)8
Come annota Leopardi nello Zibaldone:
(…) e allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando, in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse, da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario.9
Dato che tutti i sensi sono limitati (compresa la vista, che giunge peraltro più lontano degli altri, fino a raggiungere remotissime stelle), l’immaginazione completa i loro vuoti. Se i sensi, specie quelli della vista e dell’udito, fossero in grado di giungere dovunque, l’immaginario non potrebbe esistere e sostituire la realtà. 10
Commenta Leopardi: “Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente), che non vede, non ode, non sente se non oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti, ricevono la sensazione”11
Ci congediamo da questa operazione pseudo cinematografica, informandovi che la protagonista di “Vita Nova”, Laura D’amore (nel ruolo di se stessa e co-autrice del documentario), dopo essersi sottoposta alle terapie biomediche che ha dettagliatamente filmato con l’ausilio del compagno, non è riuscita a realizzare il suo progetto materno durante le riprese del film, nel 2016, ma che invece è rimasta in stato interessante l’anno successivo, quando era in tour promozionale con il partner (annunciandolo pubblicamente prima della proiezione del film, davanti alla platea del Festival dei Popoli).
Le biotecnologie come antidestino
Prendendo a prestito da Remo Bodei il titolo di questo paragrafo, chiudiamo questo articolo, consci della sua parzialità e dei suoi numerosi limiti (“ …per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite – dovremmo dunque poter pensare quel che pensare non si può-” L. Wittegenstein, Tractatus logico-Philosophicus, Einaudi, Torino, 1998, p.23) .
La vastità dei temi coinvolti in questioni bioetiche e il numero crescente di film ad esso ispirati, meriterebbero altri tempi e spazi, ma non è detto che questa occasione non possa diventare un punto da cui partire.
Lascio alla riflessione di Bodei, il compito di concludere questo mio scritto, trovando nella sue parole, il senso del pensiero che ho cercato di cogliere:
Negli ultimi decenni le biotecnologie hanno superato limiti che si pensavano invalicabili e intrinseci alla natura umana. Hanno confutato radicate convinzioni e abolito abitudini e idee ritenute finora basate su irremovibili evidenze o sull’insondabile volontà divina. Nessuno, ad esempio, aveva finora dubitato del fatto che gli esseri umani potessero venire al mondo in un modo diverso dal rapporto sessuale, con un corpo e una mente esposti ad infermità e deformazioni congenite o che soffrissero, godessero e morissero assieme a tutti i loro organi. Oggi si elidono le linee di separazione non solo tra animali e uomini, (…), ma addirittura tra il vivente e non vivente(l’esempio più ovvio è il pacemaker).
(…). Avendo cura di distinguere la libertà di ricerca scientifica dalle applicazioni tecnologiche dei suoi risultati – perché non tutto ciò che è possibile è lecito-,lo straordinario mutamento di prospettiva introdotto da entrambe invita ad essere pronti alle loro inattese ripercussioni sulla presunta immutabilità della “natura umana”.
(…) Mentre nella prima metà del Novecento e nell’ambìto del marxismo utopico, si progettava la creazione dell’”uomo nuovo”, ora l’uomo nuovo si sta finalmente cominciando a fabbricare, ma grazie all’”antropotecnica”.
(…) Per effetto di simili innovazioni mutano i nostri sentimenti e vacilla la percezione della nostra identità. Ad esempio, grazie alla fecondazione assistita, a donatori di sperma o di ovocito e a madri surrogate, si spezzano i precedenti rapporti di paternità e maternità. Chi nasce per mezzo di queste tecniche trova moltiplicati all’interno della famiglia. In alcuni casi può contare su ben tre madri: la madre biologica, quella surrogata e quella legale.
Vengono quindi rimodulati i rapporti di forza e di parentela, che sono stati per millenni alla base della famiglia tradizionale.
Non siamo, inevitabilmente, ancora in grado di assorbire lo choc di questi straordinari mutamenti. Non abbiamo potuto valutare a sufficienza, il significato della metamorfosi in corso dallo stadio dell’umano a quello di post-umano.
Le paure e i dubbi prevalgono sulla ponderazione dei pro e dei contro, trasformando la soluzione dei problemi bioetici, in ripetuti referendum…Non siamo in sostanza, ancora abituati ad esercitare questa nuova e rischiosa libertà.12
Note
1 Roland Barthes, Il brusio della lingua, Saggi Critici, Einaudi, Torino 1988, pp. 359
2 Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Federico Fellini, Fare film, Torino, Einaudi, 2010, cit., pag 18. Per una discussione sul tema della distanza e dei significati con cui si può leggere la riflessione di Calvino cfr. Michela Canosa, “La distanza”, in Lorenzo Pellizzari (a cura di) L’avventura dello spettatore, Calvino e il cinema, Bergamo, Lubrina editore, 1990.
3 Ibidem, p. XVIII
4 Italo Calvino, Saggi. 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, vol. II, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1995, p. 1885.
5 P.M. Cattorini, CinEtica, la bioetica al cinema, Maggioli Editore, Rimini, 2017, pp. 17, 18.
6 S. Chiodo, Mimesi, rappresentazione, finzione in P. D’Angelo (a cura di) Introduzione all’estetica analitica, Roma-Bari Laterza, 2008, pp. 105-139.
7 Angela Balzano, Carlo Flamigni, Sessualità e riproduzione, due generazioni in dialogo su diritti, corpi e medicina, AnankeLab edizioni, Torino, 2015, p. 93.
8 Paul Virilio, L’art du moteur, 1993, Editions Galilée, Paris, p. 89.
9 G. Leopardi, Lo zibaldone di pensieri, [con il numero di pagina autografo leopardiano e la data di stesura del testo citato], p. 170, 12 e 13 luglio 1820, in R. Bodei, Limiti, Il Mulino, Bologna, 2016 p. 18.
10 Remo Bodei, Limiti, Il Mulino, Bologna, 2016 p. 19.
11 Ibidem, p. 20.12 Ibidem, pp. 22-24