philosophy and social criticism

Dall iraniana Vafi un viaggio di crescita al femminile

Giulia Zoppi

Fariba Vafi, Come un uccello in volo, traduzione di Hale Nazemi e Bianca Maria Filippini, Ponte33, Firenze 2010.

Esce finalmente anche in Italia Come un uccello in volo, il romanzo più famoso di Fariba Vafi, considerata una delle voci femminili più significative e vibranti dell’Iran post rivoluzionario. Vincitore di premi letterari importanti quali il Goldshiri e Yalda, Come un uccello in volo è probabilmente il miglior atto di denuncia che una scrittrice possa consegnare al mondo a proposito della condizione di subalternità che la donna continua a patire, quale che sia la latitudine geografica in cui ella si trovi a vivere, a lavorare o a crescere i propri figli.

Non a caso nella quarta di copertina di questa edizione ben curata ed elegante (si vada il bellissimo disegno dell’artista iraniano Iman Raad sulla copertina) si sottolinea quanto l’opera della Vafi si presenti fuori dai clichés della donna mediorientale. D’altra parte, è anche vero che, per quanto l’Iran sia un paese illiberale e antidemocratico, ormai da tempo in esso è in atto, seppure tra mille difficoltà, l’avanzare di un grande movimento culturale, intellettuale e artistico retto e alimentato dallle donne, come dimostra l’opera della regista Samira Makhmalbaf e delle molte artiste che hanno sfondato in Occidente: ognuna portavoce delle contraddizioni e della bellezza di questa affascinante area geografica.

Fariba Vafi non è dunque una scrittrice da Mille e una notte, quanto una donna che sebbene amasse scrivere sin da giovanissima, ha sempre lavorato: prima come operaia, poi come guardia carceraria (per qualche mese) per approdare finalmente alla scrittura, ottenendo in tempo record riconoscimenti prestigiosi e grande fama, sia in Iran che fuori, grazie a uno stile asciutto, essenziale ma di grande ed efficace impatto evocativo. Come un uccello in volo si presenta subito come il diario di una liberazione lenta e progressiva ad opera di una donna sottomessa dalla povertà delle sue origini: madre controvoglia di due bambini, moglie lucida e consapevole di Amir, uomo debole e propenso alla fuga, sorella di due donne che cercano l’identità fuori dall’Iran, figlia in conflitto permanente con una madre dal piglio autoritario ed enigmatico, orfana di un padre amatissimo e compreso solo alle soglie della morte, quando ormai è troppo tardi per rimediare.

Il romanzo inizia con l’implacabile descrizione del quartiere popolare in cui la nostra protagonista vive con la famiglia, una specie di formicaio inquinato e rumoroso che potrebbe sembrare un quartiere cinese, dove le grida delle persone sono una nenia che accompagna lo scorrere del giorno e dove gli odori si sovrappongono uno sull’altro come se Tehran fosse Nuova Dehli. Eliminato ogni elemento geografico, il racconto della Vafi è quindi uno straordinario viaggio nella consapevolezza femminile di uno status che, lungi dall’essere sconosciuto, deve essere accettato e quindi rimosso come un ostacolo alla conoscenza di sé e al superamento di una condizione che la nostra eroina conosce sin dalla nascita, a causa delle sue umili origini, ma che appare anche un lungo e meditato resoconto di una persona in cerca delle proprie forze e del proprio posto nel mondo.

Seppur accettando con pacata rassegnazione la situazione casalinga in cui il ruolo maschile viene posto in controluce, a causa dell’inconsistenza caratteriale del marito Amir, la protagonista della storia, osserva e medita, trova e scava nei ricordi, assapora l’amarezza di un ruolo secondario affidatole sin dall’infanzia e annota, giudica, riflette, continuando a vivere. Ritrovatasi sola con i figli, perché Amir fugge a lavorare in montagna, dopo aver sperimentato una solitudine diversa da quella di sempre, la donna cambia casa e anche pelle: non servirà il ritorno del marito a riportarla di nuovo dentro l’antro della sua abituale angoscia, perché sulle sue spalle cominciano a spuntare le ali di un uccello pronto a librarsi in un volo di liberazione.

[da il manifesto,31 luglio 2010]

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