philosophy and social criticism

Deleuze/Guattari: una vita in due?

 Marco Dotti

Sotto molti, forse troppi aspetti l’amicizia, il lavoro e la collaborazione fra Gilles Deleuze e Félix Guattari presentano ancora oggi dei nodi irrisolti, tanto sul piano critico e filosofico, quanto su quello più strettamente biografico.

Come è stato possibile che, ben oltre differenze di sensibilità, di formazione, di vita e di stile tanto evidenti fra i due autori, una costruzione intellettuale comune si sia sviluppata ed espressa, dal 1969 al 1991, in libri di forte impatto culturale (e, almeno nel primo caso, anche sociale) come l’Anti-Edipo, Kafka. Per una letteratura minore, Millepiani o, più problematicamente, in Che cosa è la filosofia?

Sono domande di non poco conto, non solo per gli studiosi deleuziani che spesso, per la verità, tendono a eluderle, distogliendo lo sguardo da Guattari, figura che ancora genera imbarazzo, in particolare negli ambienti universitari italiani. In un certo senso, oltre alle questioni strettamente tecniche o filosofiche, ciò che appare ancora difficile è riuscire ad accettare l’esatto ruolo e il preciso contributo di Félix Guattari nella redazione dei quattro libri scritti in collaborazione con Deleuze, il che equivale a non comprendere la strategia e la conseguente logica di disorientamento messe in opera proprio dalla loro scrittura a due e dal loro rapporto di reciproca e costante stimolazione intellettuale.

Sia Deleuze, sia Félix Guattari, più volte interrogati in proposito, rispondevano che, con tutta probabilità, il lavoro a quattro mani aveva dato vita non a una sorta di «altra firma» (ironicamente, alcuni giornali avevano parlato di un “Guattareuze”), ma a un processo di scrittura «per flussi», Proprio quella di «flusso», osservava Deleuze, si sarebbe rivelata una nozione necessaria e capace, grazie alla sua assenza di qualificazione, di «superare le dualità» del gioco e della scrittura entre-deux.

by Mark Pernice

«desiderare consiste in questo: fare dei tagli, lasciare scorrere certi flussi»

«Potrebbe trattarsi di un flusso di idee, di parole, di denaro» o, in definitiva, di un desiderio – «desiderare consiste in questo: fare dei tagli, lasciare scorrere certi flussi» -, concetto chiave del loro ventennale progetto su «capitalismo e schizofrenia».

Fabbricare concetti, leggiamo in Che cosa è la filosofia?, il loro ultimo lavoro risalente al 1991, è precisamente il compito della filosofia.

Rispondendo a una domanda di Maurice Nadeau, l’ex surrealista direttore della Quinzaine littéraire, Guattari aveva precisato che la collaborazione con Gilles Deleuze non era affatto «il risultato di un semplice incontro fra individui». Si trattava, caso mai, pur preservando ognuno le proprie soggettività e le proprie prerogative di ricerca, di «mettere in comune non tanto un sapere quanto un cumulo di incertezze e un certo smarrimento di fronte alla piega che avevano assunto gli eventi, dopo il maggio Sessantotto».

Da parte sua, Deleuze riprendeva l’immagine dell’Anti-Edipo come di un «libro-flusso», ammettendo però che «quanto alla tecnica di scrittura, non ha posto particolari problemi». Precisamente a questa tecnica di scrittura e al contesto in cui è stata progressivamente (e faticosamente si apprende dal loro epistolario) elaborata accenna François Dosse, in un lavoro documentario di interesse apparso in Francia, per i tipi della Découverte.

Gilles Deleuze et Félix Guattari di Fran@ois Dosse

Gilles Deleuze& Félix Guattari [edizione inglese]

Al titolo del libro, Gilles Deleuze et Félix Guattari, Dosse ha pensato bene di aggiungere un sottotitolo che, coniugato al singolare, suona già come una proposta di metodo: Une biographie croisée, biografia incrociata. Una biografia tout court, ovviamente, molto preziosa soprattutto nelle parti dedicate alla formazione culturale di Guattari, ai suoi rapporti con l’Autonomia italiana o con il gruppo americano di Semiotext<e>, e a quelli, non sempre amichevoli, fra Deleuze e Foucault; parti che Dosse intreccia fra loro, ma senza perdere mai di vista il suo obiettivo primario: indagare sulla nascita della loro «scrittura in comune» e sullo sviluppo della loro tecnica. Proprio ricostruendo con precisione le circostanze e il contesto dell’incontro fra Deleuze e Guattari, Dosse riesce a fornire delle informazioni molto interessanti su questa tecnica, «rivelata soltanto a metà» dai due autori nei numerosi dibattiti che seguirono alla pubblicazione del loro primo libro, nel 1972.

Storico e professore all’IUFM, l’istituto universitario di Créteil, Dosse conosce le insidie nascoste dietro ogni tentativo di ricostruzione biografica, infatti, oltre ad avere pubblicato una imponente storia dello strutturalismo e avere lavorato alle biografie di Paul Ricoeur e Michel de Certeau, è autore di un libro molto interessante, Le pari biographie. Ecrire une vie, apparso nel 2005, dedicato precisamente ai problemi aperti dallo scrivere, o riscrivere, la vita degli altri. A tal proposito, nel 1968, osserva Dosse, Gilles Deleuze e Félix Guattari si muovono «in galassie differenti» e nulla lascia presagire un loro incontro. Anche in questo caso, Dosse è molto preciso non solo nella ricostruzione delle rispettive biografie, ma soprattutto nell’individuare, restituendone con le sue descrizioni perfettamente l’umore e il contesto, quella che è la situazione determinante che ha reso possibile l’incontro: il maggio Sessantotto, «un momento di tale intensità che ha reso possibile gli incontri più improbabili», un momento di «rottura instauratrice».

Abituato al rigore degli studi accademici, sul finire degli anni Sessanta, Gilles Deleuze aveva già pubblicato gran parte dei suoi studi più importanti, da quello su Hume, Empirismo e soggettività, del 1953, fino a Differenza e ripetizione e Logica del senso che risalgono, rispettivamente, al ’68 e al ’69. Guattari, invece, appariva al culmine di uno smarrimento, tormentato dalla incapacità di scrivere, e di tenere banco alle tante idee che gli si affollavano nella testa.

Nel corso di un «itinerario a metà fra psicoanalisi e politica», che lo aveva visto lentamente spostare il suo campo di interesse dalla medicina alla psicoanalisi lacaniana, guidato in gran parte da Jean Oury, lo psichiatra col quale collaborerà presso la clinica de La Borde, nel 1965 Guattari aveva creato la Fédération des groupes d’étude et recherche institutionnelles, ma ciò che gli mancava, si legge in una lettera indirizzata a Deleuze, era la capacità di uscire da una certa impasse di scrittura. Nel maggio del ’69, Deleuze gli avrebbe risposto di sentire profondamente che «siamo amici, anche prima di conoscerci. Ma mi permetta di insistere su un punto: lei crea e maneggia un certo numero di concetti complessi molto nuovi e importanti».

Ciò che sembrava necessario a Deleuze, osserva Dosse, era un affinamento di quegli stessi concetti su un piano teorico. L’incontro con Deleuze servì a Félix Guattari per proseguire il suo lavoro di «contestazione del lacanismo su due punti: la triangolazione edipica e il carattere riduzionista della sua tesi sul significante», e lo aiutò a sbloccarsi. Tutto il resto, prosegue Guattari, «è venuto da sé», compreso il libro Psicoanalisi e trasversalità, apparso nel 1972, con una premessa proprio di Deleuze. Al tempo stesso, l’incontro con Guattari permise a Deleuze di entrare in contatto con una serie di concetti e di idee a lui non propriamente familiari». Più che attraverso il dialogo, Deleuze e Guattari iniziarono a lavorare scambiandosi i testi e dando vita a una sorta di elaborazione e continuo inseguimento epistolare.

Guattari, che amava lavorare in gruppo e la cui mente, osserva Dosse, «sembrava funzionare solo in gruppo», si sottopose a una sorta di isolamento volontario, scrivendo e riscrivendo per ore e ore le pagine di quello che, in seguito, sarebbe diventato l’Anti-Edipo, indubbiamente la pietra miliare del loro lavoro a venire. Furono anni di «euforia creativa» che solo la pubblicazione di Millepiani, nel 1980, esaurì quasi del tutto.

Nel 1992, poco dopo la scomparsa di Guattari, Deleuze rievocherà la loro esperienza parlando di quell’amicizia che «fu, fino alla fine, una fonte di scoperte e di gioia per me». «Ciò che è disarmante nel ricordo di un amico morto», scriveva Deleuze, «sono i gesti e gli sguardi che ancora ci colgono, che ancora ci arrivano quando è morto». In fondo,  dirà poche settimane prima di gettarsi dalla finestra, nel 1995,«è come se mi avessero tagliato un braccio».

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 23, issue no. 33, february 2016
issn: 2037-0857
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