Democratizzazione o de-democratizzazione: la dimensione transnazionale
Intervista a Étienne Balibar
Con il permesso dell’autore, Tysm traduce l’intervista rilasciata a Marc Verzeroli e Olivier de France e pubblicata originariamente, con il titolo De la victoire du capitalisme à la défaite de la démocratie ?, sul numero 106, 2017 della Revue Intenational et Strategique, nel Dossier Contestations démocratiques, désordre international? Balibar rilancia qui il concetto “dinamico, relazionale e conflittuale della democrazia” più volte presentato in lavori come Cittadinanza (Torino, Bollati Boringhieri, 2012) o il più recente Europe, crise et fin ? (Lormont, Le Bord de l’eau, 2016; tr. it. Crisi e fine dell’Europa ?, Torino, Bollati Boringhieri, 2016). Dopo aver affrontato la questione del populismo e quella del neoliberalismo egemone – che in un’ottica di lungo periodo viene qui presentato anche come fenomeno post-socialista e post-coloniale -, Balibar sostiene che il processo di de-democratizzazione oggi in corso un po’ ovunque potrà essere invertito solo costruendo “collettivamente gli strumenti per modificare la globalizzazione o, se si vuole, per ri-orientarla”. Ad esempio, contro un’Unione europea che “concorre attivamente alla sua stessa decomposizione” – ma anche contro ogni ripiegamento di stampo neo-nazionalista -, si tratta di “lavorare alla sua rifondazione”: a partire dall’agire politico di tutti quei movimenti “che accrescono il livello di esigenza democratica nello spazio europeo”. Sullo sfondo delle parole di Balibar, campeggia la lezione “democratizzante” di Baruch Spinoza e, in particolare, la sua “straordinaria capacità di analizzare i problemi posti dall’idea di una potenza della massa o della moltitudine”. Moltitudine che – come Balibar aveva già messo in luce in Spinoza et la politique (1985) – è “al contempo una forza creativa e un pericolo per se stessa”.
(Traduzione di Alessandro Simoncini).
Com’è possibile per lei misurare oggi il vigore o l’obsolescenza delle democrazie? Quali sono le conseguenze in politica estera?
Sono due domande diverse, ma il fatto che oggi vengano percepite insieme è l’indizio di una difficoltà che non si può più ignorare. Per quanto mi riguarda, ritengo che la nozione di “democrazia” non indichi un regime costituito, caratterizzato senza ambiguità da una distribuzione dei poteri e da una determinata norma costituzionale. “Democrazia” si riferisce a uno “stato sociale” mutevole nel quale le istituzioni, i movimenti sociali, la partecipazione civica tendono a conferire al più grande numero la più grande responsabilità possibile nel governo degli interessi collettivi. Da questo punto di vista, mi iscrivo in una tradizione critica che risale all’Antichità e privilegio una definizione dinamica, relazionale e conflittuale della democrazia. Nessuna “città” è in sé democratica: lo è più o meno in momenti diversi della sua storia e per comparazione con altre, in una proporzione che non è mai fissata in anticipo e non può essere definitiva.
Si può osservare che questo modo di intendere la nozione di “democrazia” può avere effetti di chiarimento retrospettivo e prospettico: la Francia era chiaramente più democratica all’epoca del Fronte Popolare di quanto non lo sia oggi e, in caso di una rigenerazione del politico, potrebbe esserlo domani più di quanto lo sia oggi. Ma questo modo di pensare neutralizza completamente la questione della politica “estera”. Riconosce implicitamente che i fenomeni politici si svolgano prima di tutto all’interno di frontiere ben precise, più o meno sempre identificate con le frontiere nazionali, e che presuppongono l’opposizione tra il nazionale e lo straniero. Stando così le cose, siamo ricondotti anche senza volerlo all’interno di una concezione statalista della democrazia.
Ne conseguono incertezze permanenti sul modo in cui si ritiene che la politica estera incida sullo stato democratico di un paese o di un popolo. Da una parte, abbiamo il vecchio adagio internazionalista, il quale suggerisce che “un popolo che ne opprime un altro non può essere un popolo libero”, un adagio richiamato spesso all’epoca delle mobilitazioni contro le guerre coloniali. Da un’altra parte, abbiamo l’idea che all’interno delle proprie frontiere gli imperialismi più oppressivi sono stati, spesso, delle “democrazie” o sedicenti democrazie – dall’antica Atene fino agli Stati Uniti d’America, passando per la Repubblica francese … Penso che questa dicotomia non sia più sostenibile. Oggi, sempre di più, le frontiere non delimitano una volta per tutte: esse attraversano, in modo più o meno autoritario e più o meno discriminatorio, lo spazio all’interno del quale si pone la questione dell’accesso al governo di sé.
Di conseguenza si può cercare di rovesciare la prospettiva. Come minimo bisognerebbe considerare il più o il meno di libertà e di uguaglianza che un potere di Stato accorda a chi attraversa le sue frontiere, o il ruolo che gioca una nazione nel progresso delle libertà o nella riduzione delle disuguaglianze globali. Tutti fattori che non vengono concepiti, in questo modo, come caratteristiche contingenti ed esterne, ma come criteri del livello di democrazia verso cui tende una data società. Era chiaro all’epoca delle guerre coloniali, lo è ancora di più oggi.
All’interno del mondo occidentale lei individua un’oscillazione tra “de-democratizzazione” e “democratizzazione della democrazia”. In quale forma si manifesta?
Non vedo perché si dovrebbe circoscrivere l’analisi al “mondo occidentale”, i cui confini sono del resto difficili da trovare al di fuori delle strutture istituzionali ereditate dalla guerra fredda: Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ecc.
Il problema è generale, innanzitutto per una ragione di principio: se si adotta la concezione dinamica che ho appena richiamato, l’oscillazione è la regola. I meccanismi stabilizzatori – in particolare quelli costituzionali – traducono dei rapporti di forza, materializzano delle conquiste sul piano dei diritti fondamentali, ma hanno essi stessi bisogno di essere preservati e applicati nella loro lettera e nel loro spirito. Si arriva quindi all’idea che lo stato della democrazia è essenzialmente fragile, come il politico stesso. E questo è vero in Europa come lo in è India, in Cina, In Africa o in America del Nord e del Sud. Io radicalizzo quest’idea e dico che, nei momenti di trasformazione storica o nei periodi di crisi – oggi viviamo entrambi simultaneamente -, lo status quo democratico non esiste. La scelta è tra la regressione o il progresso dei diritti e dei poteri collettivi.
Evidentemente, la terminologia comprende aspetti convenzionali. Oggi si parla molto oggi di “postdemocrazia”, dopo Colin Crouch e altri. Io preferisco il termine “de-democratizzazione” coniato da Charles Tilly. Infatti voglio tenere in considerazione, contemporaneamente, l’ascesa dei meccanismi autoritari e sicuritari, la perdita di legittimità e di rappresentatività delle istituzioni parlamentari, e il dislocamento dei centri di potere reale al di fuori della sfera del controllo e dell’iniziativa dei cittadini. Ovviamente non si deve attribuire una situazione del genere esclusivamente a questo o a quel livello dell’istituzione politica in virtù di postulati ideologici, perché ciò porta a idealizzare altri livelli o epoche più o meno passate.
Quanto a “democratizzazione della democrazia”, è una formula che ha fonti molteplici e quindi tanti usi possibili. In Inghilterra se ne erano serviti i teorici della “terza via” di Tony Blair. Ma io la intendo in un senso molto diverso, perché non credo affatto alla possibilità di far progredire le libertà o i diritti individuali (per esempio in materia di forme di vita), e a fortiori la cittadinanza attiva (cioè la partecipazione al dibattito politico), mentre aumentano le disuguaglianze di ogni genere (comprese quelle culturali) e mentre viene smantellata la cittadinanza sociale. È qui che esplodono le contraddizioni del neoliberalismo.
Per vederci più chiaro bisogna ragionare su esempi concreti. Anche se la costruzione europea non ha cessato di proclamare valori democratici ideali – pur edificando poteri che sono praticamente senza controllo, senza partecipazione e protetti dal conflitto sociale -, essa ha condotto a una de-democratizzazione drammatica che ha a sua volta un impatto sulle stesse nazioni. Fin dall’inizio mi è sembrato che la costruzione europea sarebbe stata legittimata agli occhi dei popoli europei solo se essa si fosse tradotta in un progresso democratico generalizzato. Abbiamo constatato il contrario, a causa della convergenza di potenti interessi e circostanze storiche davvero difficili. Quindi l’imperativo di una democratizzazione della democrazia, che implica al contempo nuovi diritti e nuove istanze di partecipazione, si è fatto paradossalmente più urgente e più improbabile.
Da questo punto di vista, la nozione di “populismo” le sembra efficace per rendere conto delle crisi che colpiscono i sistemi democratici attuali?
È una nozione efficace a condizione di chiarirla fin da subito. Bisogna tener conto dei suoi usi, che non sono gli stessi in ogni contesto e in tutte le lingue, e poi bisogna dissipare una confusione ben poco innocente. Mi colpisce che i discorsi dominanti sulla stampa e nei lavori politologici si accaniscano a stabilire un’equivalenza tra i sedicenti populismi di sinistra e quelli di destra, assumendo a criterio la critica del “sistema” (o se si vuole lo status quo economico e politico), assimilata all’estremismo. Come se non esistesse anche un “populismo del centro”: ne abbiamo avuto un esempio chiaro quando i governi europei hanno brandito l’argomento degli interessi del contribuente per rifiutare la ristrutturazione del debito greco, che avrebbe giovato a tutti imponendo qualche sacrificio alle banche.
Soprattutto sono colpito dalla confusione che si fa tra “populismo”, “nazionalismo” o anche “neofascismo”. Penso che li si debba distinguere in linea di principio, salvo poi mostrare come avvengono le loro contaminazioni tra loro, soprattutto attraverso la nozione di “sovranità del popolo” e le mitologie che la avvolgono.
Con tutte queste riserve – sono evidentemente considerevoli -, direi che con il termine “populismo” si stigmatizza o si squalifica ogni movimento che denuncia la riduzione delle masse a una condizione di cittadinanza passiva, poi la continua ascesa delle diseguaglianze e infine la connessione tra questi due fenomeni. Ora, si tratta di una realtà e non di un effetto di propaganda: per il futuro della democrazia è più vitale tenere in considerazione questa realtà che denunciare il termine con cui la si nomina più o meno inadeguatamente.
Lei ha sviluppato, in risposta, la nozione di “contro-populismo”. Come la caratterizzerebbe?
Sì, ho tentato questa operazione semantica ma prendo atto che non ha avuto abbastanza risonanza. Tutti credono di intendere che si tratta di essere “contro il populismo”, dunque di fatto antipopulisti, la cosa più condivisa oggi al mondo. Ci sono anche lingue, come il greco, in cui non si può fare la differenza (1).
Per quanto mi riguarda, ho utilizzato “contro-populismo” nel senso in cui Michel Foucault parlava di una “contro-condotta” o di una “contro-storia”, che rovescia il senso di una questione o volge gli strumenti di una critica contro quelli che la professano. Quindi volevo dire che bisogna rilanciare e rilegittimare l’intervento del “popolo”, delle “masse”, dei “cittadini” nei loro propri affari, contro un sistema oligarchico, corrotto, ma anche sempre più inefficace e paralizzato dalle sue stesse contraddizioni. Un sistema che spinge le nostre società verso la massima svalutazione dell’azione politica e prepara la strada ad avventure autoritarie.
Seguendo le tre vie principali che la democratizzazione può prendere, ciò presuppone: più partecipazione e autogestione, più controllo dei rappresentati sui loro rappresentanti, più conflitti sociali aperti e, eventualmente, organizzati. Non nascondo che queste idee comportino dei rischi. Tuttavia li considero minori rispetto al fatto di sprofondare in una crisi senza altra prospettiva di soluzione se non la restaurazione dell’identità nazionale perduta, che non è probabilmente mai esistita e il cui lato oscuro ci si guarda bene dall’evocare. A queste difficoltà ne avevo aggiunta un’altra, ipotizzando che il “contro-populismo” fosse un altro modo di nominare un “populismo transazionale”, che dà corpo all’idea del demos – della potenza democratica – al di là delle frontiere. Come vedete, cerco formule che lo rendono intelligibile e incontro una serie di ostacoli, ma non rinuncio all’idea.
Nella situazione attuale vede emergere quello che si potrebbe chiamare un movimento geopolitico reazionario?
Bisogna accordarsi su ciò che si intende con “movimento”. Si tratta di una tendenza spontanea o di un’offensiva concertata? Penso che se ci siano delle forze neoconservatrici o anche neofasciste in espansione un po’ ovunque nel mondo di oggi – con o senza legami genealogici con quelle del passato, ma spesso questi legami esistono. Queste forze riscuotono successi sempre più inquietanti – poiché si incoraggiano a vicenda -, ma non costituiscono davvero un movimento politico unificato. La loro base ideologica principale è infatti la xenofobia, che è sia un fattore di divisione che di convergenza.
Ciò che ha fatto la forza del fascismo degli anni ’30, anche al di là dell’Europa, è il fatto che aveva un nemico reale: il comunismo. Non c’è nulla di simile oggi. Anche il tentativo di utilizzare il terrorismo e di costruire l’Islam come un nemico fantasmatico degli Stati non è generalizzabile, per definizione.
In compenso ciò che fa la forza di questi movimenti e dà loro la possibilità di arrivare al potere, ciò di cui non sottostimo affatto i pericoli, è lo stato di decadenza della stessa democrazia “liberale”. Questa regredisce nei fatti e nelle rappresentazioni, simultaneamente a causa della sua riduzione ad oligarchia e del carattere irreale della governance tecnocratica applicata ai processi economici, militari, ecologici, demografici contemporanei.
Questo riflusso non sarebbe quindi altro che la conseguenza del neoliberalismo come è stato applicato dagli anni ’70 ad oggi? In questo senso, il “trionfo del capitalismo” avrebbe finito per svuotare del suo significato l’azione politica, e quindi la democrazia?
Certo, solo che bisogna contestualizzare quanto dice all’interno di una storia lunga e diversificata dei rapporti che il capitalismo intrattiene con la democrazia, o piuttosto con i movimenti di democratizzazione e de-democratizzazione del politico, nel senso lato del termine (lo Stato, la società civile).
Un fattore favorevole alla democratizzazione dello Stato e anche, tendenzialmente, del capitalismo fu la simultaneità delle rivoluzioni “civico-borghesi” e della rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo, così come lo fu la corrispondenza – sottolineata da Karl Marx – tra le forme della circolazione delle merci e le figure dell’individualismo giuridico. Se si prende il “capitalismo storico” tra il XVII e il XX secolo (per dirla con Immanuel Wallerstein), si può dire che non c’è stato un rapporto di forza favorevole all’ampliamento della democrazia elettiva e all’introduzione dei diritti sociali, se non nei paesi del “centro” e in un determinato momento storico. Ciò è dipeso dalla crescente forza del movimento operaio e di altri movimenti sociali, come il femminismo, senza dimenticare il contraccolpo delle guerre mondiali. Ovunque altrove regnava il nudo dominio dei ricchi, dei conquistatori e dei notabili. Le rivoluzioni comuniste e le indipendenze post-coloniali avrebbero potuto modificare questo dato se non fossero state divorate dalle loro stesse contraddizioni, mentre il movimento operaio si istituzionalizzava e si routinizzava.
In questa prospettiva di lungo periodo il neoliberalismo appare tanto come un post-socialismo e un post-colonialismo, quanto come un’espressione di quelle nuove configurazioni del capitalismo che sono la finanza, la mondializzazione, la mercificazione della vita quotidiana e perfino dell’intimità. Da questo punto di vista, non sono del tutto sicuro che le caratteristiche del “neoliberalismo” di cui parlate – in particolare la deregolamentazione del lavoro e la generalizzazione dell’indebitamento pubblico e privato – costituiscano una tendenza irresistibile.
Da una parte, questa governance è troppo strettamente connessa alle nuove condizioni di redditività dei capitali per dipendere semplicemente da decisioni congiunturali arbitrarie. D’altra parte, essa non cessa di minare le basi della sua stessa legittimità sociale, come dimostrano le analisi di Karl Polanyi o quelle di Robert Castel sull’ “individualismo negativo” che subentra alla “società salariale” e al contratto sociale dell’età keynesiana. La situazione è quindi caratterizzata da un’estrema instabilità e da una violenza potenziale. E da questo punto di vista la democrazia appare al contempo come un bersaglio e come una capacità di resistere.
Se anche sulle cause della crisi del 2007-2008 sembra esserci ormai un accordo di massima, la sinistra non è mai realmente riuscita a trarne un vantaggio elettorale o a proporre un modello alternativo. Perché?
Se lo sapessi, ve lo direi … Sono nella stessa situazione di tutti gli intellettuali, militanti, cittadini della sinistra più o meno radicale che, nei nostri paesi, constatano i danni e cercano di immaginare le alternative, o di individuare i segni di emergenza. È per questo che adotto una posizione decisamente aporetica, nel senso filosofico di questo termine – che per gli antichi greci voleva dire “problema senza soluzione immediata”.
Ciò detto, penso che si avanzi solo enunciando le difficoltà, le contraddizioni reali. Ne vedo almeno due principali. La prima è che una sinistra capace di “trarre vantaggio” dalla crisi, come dite voi, dovrebbe essere una “sinistra mondiale” – o come dicono gli anglofoni, una Global Left. Si tratterebbe di una sinistra “altermondializzatrice”, che non propone ripiegamenti nazionali, ma una trasformazione o una biforcazione nella mondializzazione; e che raduna forze, convinzioni, passioni che procedono in questa direzione. In questo senso ci sono alcuni fattori obiettivamente unificanti a lungo termine, come l’emergenza climatica, anche se non da tutti viene percepita allo stesso modo. Tuttavia, è abbastanza chiaro che, per adesso, questa Global Left esiste solo nell’immaginazione, o meglio che essa è gravata da terribili conflitti di interesse amplificati localmente. Le questioni del multilateralismo, del protezionismo (o del “neomercantilismo”, come dice Pierre-Noël Giraud) e dell’organizzazione dell’immigrazione sono per questo da considerare una priorità, altrimenti tutta una parte della “sinistra” se ne andrà a destra.
La seconda difficoltà è che la sinistra è divisa sulla questione dello Stato. Certo, la vecchia divisione tra sinistra statalista o pianificatrice, da una parte, e sinistra libertaria o auto-gestionaria dall’altra, è parte integrante di tutta la sua storia. Il paradosso della situazione attuale è che, in un certo senso, lo statalismo è fallito – sia nelle forme della dittatura del proletariato che in quelle della co-gestione dello Stato sociale -, ma evidentemente l’anarchismo “puro” non ha futuro. Certo, rigenera la passione democratica in particolare nella gioventù, come si è visto durante Nuit debout, ed è una grande cosa, ma al prezzo di trascurare la questione del potere. Ora, senza potere politico non si impone nessuna regolazione al capitalismo, gli si può solo causare qualche problema di governance … Ne concludo che abbiamo bisogno di una nuova dottrina dello Stato e del suo uso. E ciò fa parte della questione della democrazia.
Tuttavia, il livello adeguato per l’esercizio della democrazia è ancora lo spazio nazionale?
Porrei la questione al contrario: lo spazio nazionale è un livello di esercizio della democrazia? Evidentemente sì, ma non è il solo perché ci sono altri livelli istituzionali del potere e di cristallizzazione degli interessi che richiedono una partecipazione e una capacità di decisione collettiva. Alcuni sono infra-nazionali, o se si vuole “locali”, sebbene forse non ci si debba limitare a riferimenti strettamente territoriali. È diventato evidente che non c’è democrazia reale senza una vera devoluzione di poteri a un elevato livello di prossimità, dei “comuni” in senso lato. È l’oggetto di una rivendicazione e di una lotta sostenuta da iniziative autonome, perché gli Stati centralizzati tendono a “satellizzare” le amministrazioni locali, servendosi soprattutto dell’arma del bilancio. Altri livelli istituzionali del potere sono sovranazionali, direi anche federali, a patto di comprendere che la questione dei modelli federali è largamente aperta. In fondo si tratta del problema di sapere come si crea uno spazio pubblico e di conseguenza un “popolo di cittadini” che lo occupi, al di là delle barriere statali, culturali, linguistiche e corporative che impediscono al demos di affrontare le potenze economiche ad armi pari.
So molto bene che a un ragionamento simile si pone l’obiezione di moltiplicare i luoghi del politico: è l’idea tipicamente nazionalista della “sovranità” indivisibile. O, ancora, l’idea che la volontà generale e la sovranità del popolo non possono manifestarsi al di fuori dei quadri nazionali ereditati dal passato. Ciò significa confondere la sovranità del popolo con la sovranità statale, che pretende di continuare a incarnarla da sola, anche se del resto gli Stati, perfino quelli più “potenti”, sono sempre meno sovrani. Uno Stato le cui finanze pubbliche sono alla mercé dei mercati finanziari, che determinano i tassi di interesse in funzione delle politiche economiche e sociali praticate, non è realmente sovrano. Per questo, nella raccolta di saggi Europe, crise et fin ?, ho posto la questione della sovranità condivisa come condizione di un ritorno di potenza collettiva.
Evocando l’Unione europea, “senza troppo ottimismo”, lei scommette su fatto “che esista un’alternativa democratica europea alla crisi della costruzione europea”(2). È ancora possibile un sussulto politico? I movimenti di indignazione e le altre iniziative dei cittadini possono rappresentate questa forza di “democratizzazione della democrazia”?
Devo dire che oggi il mio ottimismo non arriva più a pensare che l’Unione europea in quanto tale costituisca “l’alternativa democratica europea” di cui avevo parlato in questo testo. È il problema dei prossimi anni.
I nodi della dipendenza amministrativa, giuridica, commerciale tra gli Stati europei – e di conseguenza tra le nazioni stesse – sono estremamente difficili da sciogliere, come senza dubbio sperimenteremo in occasione dei negoziati sul “Brexit”. Ai miei occhi questo non è un fattore di sussulto politico, è una forza di inerzia. Peggio, è l’espressione del fatto che le classi dirigenti europee – termine con cui si deve intendere un conglomerato di finanzieri che si credono invulnerabili e infallibili, e di notabili nazionali che si considerano come proprietari dei loro elettorati – hanno istituito una “divisione del lavoro” che permette al contempo di esternalizzare i centri decisionali rispetto alla rappresentanza democratica e di mantenere la presa intatta sul livello intergovernamentale.
Il fatto che tutta questa meccanica “blocchi” la situazione nella crisi – e così, a poco a poco, perda la sua legittimità – rischia più di generare ostacoli o scenari catastrofici che di portare a una riforma. A questo proposito, temo il peggio dalla nuova idea in voga nella classe politica francese e in certi economisti e politologi del centro-sinistra e del centro-destra: la costituzione di una “piccola Europa” integrata, all’interno della zona euro, che compensa l’incremento di centralizzazione attraverso l’istituzione di un “micro-Parlamento” nel medesimo perimetro.
Un’Europa che si accontenta di seguire le tendenze della mondializzazione finanziaria o perfino le amplifica – e addirittura le ufficializza, inscrivendo la deregolamentazione nella sua “costituzione” con l’etichetta di “concorrenza libera e non falsata” – finisce inevitabilmente per aggravare i conflitti di interesse e le disuguaglianze tra i paesi membri. Lo si può vedere da venticinque anni: l’Unione europea concorre attivamente alla sua stessa decomposizione.
Al contrario né il futuro dell’Europa, né quello degli Stati membri – né di conseguenza quello delle sue popolazioni – tra le quali conto anche i residenti stranieri permanenti, le cui attività e i cui interessi sono intimamente legati ai nostri – non possono consistere nel fatto di negare la grande trasformazione rappresentata dalla globalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei problemi ambientali e di sicurezza, ecc.
Credo che quanto emerge dall’esame dei fatti sia che il collasso dell’UE non porterebbe, o non porterà, a nulla di buono, in particolare per la democrazia degli Stati membri.
Per questo non abbiamo altra scelta che lavorare alla sua rifondazione. Da questo punto di vista tutti i movimenti che accrescono il livello di esigenza democratica nello spazio europeo rappresentano un passo avanti. Bisognerebbe che includessero una prospettiva per l’Europa al centro delle loro preoccupazioni, non in modo marginale.
Bisogna darsi collettivamente gli strumenti per modificare la globalizzazione o, se si vuole, per ri-orientarla. E ciò ha a sua volta qualche chance di verificarsi solo se un’Europa democratizzata, capace di lavorare alla riduzione delle disuguaglianze e dei suoi antagonismi interni, ne esprime la volontà fortemente maggioritaria e la fa sentire al mondo intero, ricercando in questo interlocutori ed alleati. Questo sembra un circolo vizioso, perché le condizioni che si devono mettere insieme somigliano all’obiettivo stesso. Ma questo circolo è quello presente in ogni inizio, in ogni trasformazione. In fondo si tratta della storia stessa, quando si riesce a farla e non solo a subirla. L’Europa è di fronte a questa scelta.
Si consolida l’impressione che le nostre società abbiano sempre meno presa sul loro destino collettivo. È possibile che esse abbiano esternalizzato la loro capacità di porre fini razionali a un sistema di cui l’uomo non è che uno strumento?
Mi sembra che nella vostra domanda ci sia un equivoco, relativo al fatto che il termine “razionale” viene impiegato con molteplici significati. Per come la perfeziona un certo schema delle “anticipazioni razionali” che governano i modelli dell’efficienza dei mercati (quell’efficienza così brillantemente illustrata nella crisi recente), la razionalità capitalista – detta a volte strumentale – è stata esportata almeno in apparenza nel mondo intero, ma è una razionalità largamente immaginaria. Essa contiene tanto autosuggestione quanto efficacia pragmatica. Da qui l’impressione di cui parlate, ma non vedo perché questo sarebbe un privilegio dell’Occidente.
Il compito comune è la rifondazione dell’idea di razionalità, o l’invenzione di una nuova razionalità. Io mi rifaccio volentieri a Spinoza, perché propone degli strumenti di pensiero che sono abbastanza differenti da quelli a cui ci ha abituato una critica umanista e romantica delle forme di alienazione legata al trionfo della razionalità strumentale. Non solo Spinoza non si è opposto all’idea di trattare l’uomo come un “mezzo”, ma propone in fondo un’etica e una politica fondate sull’idea che ognuno deve sapere fare uso degli altri, o servirsene, in modo da massimizzare una certa utilità comune. Spinoza è quindi un utilitarista, ma di un genere del tutto particolare, radicalmente universalista: del genere di chi suppone, cioè, che in un certo senso ogni uomo può essere utile a ogni altro uomo. Dunque, Spinoza si contrappone in modo assoluto all’idea che ci sarebbero uomini utili e altri inutili, ossia “usa e getta” (jetables) – come ha scritto Bertrand Ogilvie. Credo molto all’importanza di coniugare la questione del destino collettivo con una problematica dell’uso e degli usi: uso della vita, delle risorse, dei beni, degli uomini e della loro diversità.
Certi commentatori convocano la nozione di “interregnum” presa in prestito da Gramsci per cercare di afferrare le caratteristiche contraddittorie del momento presente nelle relazioni internazionali. Che cosa ne pensa?
Interregnum è un termine di cui Gramsci si è servito nei Quaderni del carcere per caratterizzare la “sospensione” del processo di superamento del capitalismo che lui stesso, insieme ad altri, aveva creduto fosse stato inaugurato dalla guerra e dalla rivoluzione russa. Si tratta di un periodo di incertezza politica, di fluttuazioni economiche potenzialmente brutali – perché i fattori di crisi che hanno agito nel 2007-2008 sono presenti più che mai – e, all’occorrenza, di violenze. Guardiamo l’America di Trump: un paese super-armato in termini di capacità di intervento esterno – intervento di cui si vedono oggi i limiti -, e di porti d’armi interni alla popolazione: qualcosa che si traduce in una violenza endemica, ma che potrebbe avere effetti più gravi se la frattura della società americana si accentuasse.
Come poco fa, quando mi avete posto la questione della democrazia, sono tentato di dire che dobbiamo superare le distinzioni astratte tra situazione interna e relazioni internazionali. Ciò è ancora più vero quando si parla della potenza egemone americana. Per definizione, il suo equilibrio interno sul piano sociale e politico è in effetti direttamente dipendente dalla sua capacità di conservare, e magari di accrescere senza posa, i vantaggi legati al dominio – per esempio il finanziamento del proprio debito attraverso il possesso della “moneta-mondo” o la nazionalità americana delle principali multinazionali.
Quello che a prima vista sorprende in Trump, è il fatto che si sia fatto eleggere promettendo simultaneamente cose opposte, tanto in materia di politica interna quanto in materia di politica internazionale: la chiusura delle frontiere e la restaurazione della potenza americana, la riabilitazione della condizione operaia e la deregulation finanziaria a tutto spiano. Ciò che colpisce fin dalle prime fasi della nuova amministrazione è il carattere caotico delle sue iniziative su entrambi i terreni. Questo non significa che Trump non perseguirà un programma aggressivo, particolarmente devastante in materia ambientale e mortifero per le minoranze. Ma significa che l’America è effettivamente entrata nell’interregnum, l’uscita dal quale non può essere un ritorno indietro e non sarà forse per nulla pacifica.
Ma insieme agli Stati Uniti è anche il mondo ad essere in discussione. Ora ci sono altre potenze. È deplorevole che, a causa della sua crisi interna, l’Europa in quanto tale non abbia alcuna capacità di azione di fronte a Trump. E tuttavia lui stesso ha sembrato temere che possa essere così, altrimenti non avrebbe fatto le stesse dichiarazioni durante il suo incontro con Madame May (3).
In definitiva, l’età dell’informazione non rende impossibile la politica?
Non esistono società senza informazione, né democrazia senza un apprendistato collettivo dell’utilizzo dei mezzi di informazione, apprendistato che passa eventualmente attraverso conflitti e linee di frattura. Quando la stampa ha cominciato ad avere un ruolo determinante nella formazione di quella che sarebbe diventata l’“opinione pubblica”, una tradizione filosofica legata all’antico modello della presenza fisica dei cittadini per statuto sulla pubblica piazza ha visto in essa un rafforzamento dei meccanismi della delega di potere, e di conseguenza un pericolo per la democrazia.
Senza dubbio oggi c’è uno scarto tra la scala spazio-temporale alla quale funziona Internet, da una parte, e la costruzione istituzionale della rappresentanza, dei meccanismi elettorali, della protezione dei luoghi decisionali, ecc., dall’altra. A mio avviso, c’è soprattutto il monopolio dell’organizzazione dei social media da parte degli imperi commerciali e finanziari. E tuttavia ci si accorge che, in presenza di condizioni differenti, questi stessi social media servono a rigenerare capacità di azione politica: fondamentalmente, un’aspirazione all’insurrezione contro l’ordine esistente o contro gli stessi monopoli della comunicazione. Come è avvenuto, in modo molto sorprendente, durante certe recenti campagne elettorali negli Stati Uniti. L’uso delle tecniche dell’informazione di oggi, come di quelle di ieri, è quindi la posta in gioco di una lotta o, meglio, di una gara di velocità tra l’appropriazione e l’immaginazione.
Per finire, quale pensatore vi sembra più attrezzato per analizzare gli sviluppi delle democrazia attuali? Le evoluzioni politiche odierne confermano le vostre analisi su Spinoza?
Sono tentato di rispondervi: il pensatore a venire. Lui saprebbe ripensare da una parte la tradizione della responsabilità civica, del servizio pubblico, della protezione dei diritti individuali e più in generale del “diritto di avere diritti” – per dirla con Hannah Arendt – nel modo in cui riemerge periodicamente nella storia dell’Occidente. Dall’altra parte, lui saprebbe anche combinare tutto ciò con una radicale universalizzazione dei linguaggi e delle culture, quindi con una “provincializzazione dell’Europa” – per dirla con Dipesh Chakrabarty. Molti filosofi nel mondo, marchiati o no con il sigillo di filosofo, compiono oggi le loro ricerche in questa direzione e alcuni si riferiscono a Spinoza, come anche a me è capitato di fare. Quando prima parlavo della democrazia come di un movimento o come di uno “sforzo” per ricominciare senza fine (conatus in latino), piuttosto che come un regime o un tipo di costituzione, pensavo precisamente a lui. Nel mio libro su Spinoza et la politique (4), avevo cercato di mostrare che, nel suo Trattato politico, Spinoza esplora in realtà delle vie di democratizzazione, o delle procedure che massimizzano le capacità democratiche all’interno di regimi che hanno costituzioni diverse, o che definiscono diversamente la sovranità.
Antonio Negri dice che Spinoza è l’inventore di un’“antimodernità”, ma il termine è equivoco come lo è “contro-populismo” (il termine di cui parlavamo poco fa): diciamo allora che Spinoza ha pensato una modernità alternativa, o un’alternativa nella modernità. Ci sono aspetti molto arcaici nel pensiero di Spinoza, per esempio il suo ideale dell’autarchia del saggio. Ma dopo Hobbes, e in reazione alla sua concezione centralizzata dello Stato che rappresenta il popolo e ad esso si sostituisce, c’è in lui anche una straordinaria capacità di analizzare i problemi posti dall’idea di una potenza della massa o della moltitudine. Ecco che ciò ci potrebbe riportare alla discussione sul populismo: secondo Spinoza la moltitudine è al contempo una forza creativa e un pericolo per se stessa.
Note
- Cfr. il dossier della rivista Actuel Marx, 54, 2013/2, “Populisme/Contre-populisme”.
- É. Balibar, Europe, crise et fin ?, Lormont, Le Bord de l’eau, coll. Diagnostics, 2016.
- Durante l’incontro con Theresa May del 26 gennaio 2017, Trump ha sostenuto: “Una libera e indipendente Gran Bretagna è una benedizione per il mondo. […] La Brexit sarà fantastica per il vostro Paese […] Avrete la vostra identità e le persone che vorrete nel vostro Paese, potrete fare accordi commerciali liberamente senza che nessuno vi guardi” (ndr).
- É. Balibar, Spinoza et la politique (1985), Paris, Presses universitaires de France, coll. Philosophie, 2011.
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