philosophy and social criticism

Demos ribelle: ricordando Miguel Abensour

Mario Pezzella

Sabato scorso è scomparso il grande filosofo Miguel Abensour. Tra le tante altre cose, aveva diretto fin dal 1974 la formidabile collana “Critique de la politique” presso l’editore Payot. È in quella collana che sono apparse per la prima volta le traduzioni francesi di alcune tra le principali opere della Scuola di Francoforte.

Soprattutto, però, Abensour aveva teorizzato il fertile concetto di “democrazia insorgente” in opposizione alla democrazia rappresentativa, o se si vuole alla nostra democrazia “reale”: una democrazia spettacolare che sempre più, specialmente ai tempi in cui si afferma una ragione neoliberale del mondo ormai in piena crisi di legittimità, tende a svelare il suo volto oligarchico. Per Abensour, “l’insorgenza è la fonte viva della vera democrazia” e “non c’è vera democrazia senza riattivare l’impulso profondo della democrazia contro ogni forma di arche: impulso anarchico, che si rivolge in primo luogo contro la manifestazione classica dell’arché […] vale a dire contro lo Stato”. Così scriveva in uno dei suoi libri principali: La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, dedicato al giovane Marx e pubblicato nel 1997.

Tysm ricorda Abensour con un eccellente articolo in cui Mario Pezzella – traduttore di Abensour e autore di alcune importanti introduzioni alle sue opere (oltre che di molti saggi che risentono profondamente della sua lezione) – recensiva quel libro su Il manifesto del 20 giugno 2008. Lo spirito de La democrazia contro lo Stato vive oggi in tutte le insorgenze che, con debole forza, continuano a sfidare il sistema del capitale globale, alludendo al contempo alla necessità sempre più stringente di istituzioni democratiche capaci di rompere il monopolio statale della decisione politica. Da quelle insorgenze, da quelle pratiche di soggettivazione e di libertà, occorrerà ripartire per ripensare la teoria e la prassi di una vera democrazia. Nel segno di Miguel Abensour.

(a.s.)
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Questo libro di Miguel Abensour è dedicato in gran parte al commento di un testo giovanile di Karl Marx, La critica del diritto statuale hegeliano, commento che non ha nulla di accademico; il testo di Marx viene sottoposto a un’interrogazione che parte del presente, riattualizzato per rispondere a una nostra questione. Si potrebbe dire, parafrasando Benjamin, che quel testo di Marx conosce per noi l’ora della sua leggibilità. Abensour sceglie di interrogare Marx a partire dalla crisi del comunismo del Novecento, dalla deriva del socialismo reale in burocrazia, dalle forme assunte dal totalitarismo nella prima metà del secolo passato. In tale disfacimento di speranze, è possibile chiedersi cosa sia una «vera democrazia»?
La domanda è meno scontata e retorica di quanto sembri. Pochi termini sono stati così banalizzati, pochi hanno perso in tale misura la carica dirompente e radicale che inizialmente possedevano. Attraverso l’inchiesta sul testo di Marx, Abensour mira in realtà a riproporre tale senso radicale e dimenticato. Lo fa mostrando come l’espressione «Stato democratico» sia in realtà una contraddizione terminologica, come la «vera democrazia» tenda verso il governo condiviso dei «molti»; lo Stato, invece, nel suo stesso principio, tende a sottoporre i molti al dominio di un Uno, forma unificante e organizzatrice.

La signoria e la servitù

La democrazia opera dunque contro le unificazioni formali ed astratte proposte dallo Stato, e che sempre suppongono un rapporto gerarchico di signoria e servitù: e sostiene invece forme di governo politico, in cui venga lasciato spazio al riconoscimento paritario dell’altro. Un riferimento importante, per tale linea di pensiero, è la riflessione di Hannah Arendt e la sua analisi della tradizione consiliarista e comunale; meno obbligato, e per certi versi sorprendente, è quello al pensiero del filosofo francese Emmanuel Lévinas, come se l’«etica dell’alterità», delineata da quest’ultimo, potesse trovare il suo effettivo inveramento solo nell’ambito politico.


Da questo punto di vista procede la lettura di Marx. Il testo marxiano del ’43 è in certa misura contraddittorio, esposto a due tendenze divergenti: da un lato la rivendicazione della democrazia come rifiuto dell’Uno statuale e affermazione della pluralità, della decisione condivisa dei molti; d’altra parte tale pluralità rischia di essere identificata con un demos, un popolo nella sua volontà sorgiva e originaria, che fungerebbe da nuovo principio unificante della diversità.

La vera democrazia è l’affermazione delle «molte» singolarità che convengono insieme per decidere di volta in volta il loro essere in comune, o il loro disciogliersi in una forma unificante e finale, in cui ogni conflitto è risolto, ogni lacerazione placata in una superiore conciliazione? Intorno a questa tensione e a queste possibilità, entrambe presenti nel testo di Marx, ruota l’analisi di Abensour (e la risposta a tale domanda rinvia indirettamente agli esiti e alle tragedie delle rivoluzioni del Novecento.

La governance del mercato

Che altro è il «momento machiavelliano», di cui tanto si parla in questo libro, se non l’essenza stessa della democrazia e della decisione politica? Il momento machiavelliano non è -o non è solo- un periodo storico, ma una possibilità permanente dell’agire politico, una sua forma a priori, un suo imperativo regolativo. Occorre portare alla luce il conflitto latente nella realtà sociale, sottratto alla visibilità da rappresentazioni smortamente conciliative e ipocritamente «buoniste»; occorre aprire e dar consistenza al conflitto tra i «grandi» ed il popolo; occorre che le soluzioni in cui di volta in volta si risolve questo conflitto non siano gerarchicamente imposte dallo Stato, o rimesse al puro arbitrio dei rapporti di forza.
Oggi si direbbe: le soluzioni non possono essere rimesse a un puro atto di governance o ad automatismi ciechi come quelli del mercato.

L’idea di Abensour è che debbano esistere istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro, e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. A questo generale decentramento e delocalizzazione della decisione corrisponderebbero le istituzioni consiliari descritte dalla Arendt e di cui Marx ha dato un’anticipazione nei suoi scritti sulla Comune.

Assenza di expertise

È possibile dire qualcosa dello spirito generale che animerebbe queste istituzioni e dell’orientamento, dell’unità di misura secondo cui potrebbero regolarsi. Arendt trova soccorso in un pensatore, che non ha mai scritto una vera e propria «filosofia politica», eppure ha elaborato una notevole teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera apparentemente più impolitica, La critica del giudizio. Il senso comune, in quest’opera, è «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, l’espressione del voler «essere-in-comune» degli uomini; essi esprimono in tal modo il desiderio di persuadersi reciprocamente e giungere a giudizi universali e condivisi, a un «gusto» collettivamente apprezzato.
Questa universalità è tuttavia il frutto di un’attività intersoggettiva continua, e non il risultato di principi primi inalterabili e prefissati. Kant riserva questo tipo di senso comune al giudizio estetico: ma non è possibile – si chiede Arendt – estenderne il significato all’agire della comunità politica, all’essere «cittadini» di una repubblica comune? D’altra parte, questa persuasione per comunicazione non ha nulla di idilliaco, non è garantita da nessuna expertise e si scontra duramente con i poteri gerarchici effettivamente esistenti. Se il dialogo è al principio della democrazia, esso apre il suo spazio all’interno del conflitto col potere, e la democrazia viene perciò definita da Abensour come costitutivamente e inevitabilmente «insorgente».

Questo concetto rimanda a quello di «democrazia selvaggia» del filosofo Claude Lefort, anch’esso in certo misura derivante da una rilettura di Machiavelli: il dialogo coesiste continuamente col conflitto, perché sempre coesistono in ogni società i «grandi» e il popolo, animati da desideri discordi: quello dei grandi di mantenere e consolidare il proprio potere gerarchico, quello del popolo di partecipare alle decisioni, e dunque di essere libero. Secondo Lefort e Abensour non esiste stato finale della storia, né mai una trasparenza sociale assoluta, in cui tale conflitto e l’antagonismo che esso propone possa aver completamente fine. Sempre, nelle circostanze date, ogni volta diverse e ridefinibili, l’azione politica deve riprendere da capo il suo compito e «insorgere» contro l’irrigidimento dei rapporti servo-padrone che tende a riproporsi; sicchè questa prospettiva, più che a un’idea organica della rivoluzione come fine della storia, è più vicina a quella di una insorgenza permanente, che riproponga, in ogni situazione o «sito» del tempo, l’essere-in-comune contro l’essere-in-Uno.

Nelle cesure della storia

Riprendendo un altro autore assai caro ad Abensour, il Reiner Schürmann interprete di Heidegger, l’azione politica è sempre «situata»: il «sito» dice Schürmann è il luogo dove gli umani possono «con-venire» insieme, rovesciando i rapporti concreti di potere; l’azione politica si radica inestricabilmente e irrimediabilmente alla specificità del sito in cui interviene, è in senso stretto «situazionista». Abensour e Schürmann ritengono l’azione politica «anarchica» in senso letterale e filosofico, perché rifiuta il ricorso a un «Principio primo» di esplicazione dell’agire, a un’arche, da cui deriverebbero per adesione, emanazione o disvelamento, le caratteristiche del giusto agire. «Senza principio», anarchica, l’azione politica segue però rigorosamente la sua unità di misura, e il suo imperativo regolativo: il riconoscimento dell’altro e la decisione discussa in comune con l’altro, di contro all’autorità che come un destino o un opaco immotivabile essere lo stringe alla sua necessità.
L’apertura anarchica della «democrazia insorgente» si rivela al meglio nelle «cesure» della storia, o in quella «dialettica in sospeso», in bilico, di cui anche Walter Benjamin parlava nei suoi ultimi scritti, quando una vecchia forma di potere è in via di sgretolamento e ancora una nuova non ha avuto la forza di imporsi e sostituirla. Allora balena nella mente degli uomini l’idea che forse una vita senza potere sarebbe pure possibile, o almeno che la loro energia costituente potrebbe distruggere le solidificazioni del diritto costituito. S’è già detto come le insorgenze consiliari del Novecento abbiano prefigurato un’istituzione politica non centralizzata nell’unità dello stato e fondata piuttosto sulla pluralità riconosciuta dei «molti». In certo senso, si tratta di un’esperienza politica capace di ritornare costantemente al suo momento costituente, di revocare l’univocità e la permanenza delle forme costituite, con la consapevolezza che questo atto di apertura va riproposto in ogni situazione specifica e non conosce arresto o fine della storia: non è garantito da alcuna fine e da alcun principio.
L’«insorgenza» definisce quei momenti di cesura della storia, in cui – nell’intervallo tra il crollo di un vecchio regime e il costituirsi di nuove istituzioni – si è tentata la via di una simile comunità politica. È in questo eccesso e in questo scarto, che Marx vedeva il significato irripetibile della Comune di Parigi. C’è sempre l’eventualità che la deliberazione comune si irrigidisca in struttura astratta, che l’altro ricada nel medesimo, che i molti vengano ricondotti all’Uno. La democrazia insorgente non è una forma data una volta per tutte, ma l’opera continua di trasformazione dell’essere nell’esistente e nel possibile.

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