philosophy and social criticism

Dove si nasconde la salute

Marco Dotti

Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute?, edizione italiana a cura di Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi, Raffaello Cortina editore, Milano 1994.

«Le corps», scriveva Jean-Paul Sartre, tra le pagine de L’Etre et le néant, «est le negligé le passé sous silence». Questo silenzio del corpo, sembra in qualche modo coincidere con ciò che definiamo “salute”. La salute come silenzio degli organi, dunque.

La salute, in questa prospettiva, sarebbe qualcosa che si sottrae. Implicando per il soggetto, osserva Hans-Georg Gadamer, la possibilità «di essere dimentichi di sé». Quel senso di generale e talvolta superficiale benessere che attribuiamo all’idea di “salute”, può però essere interrotto se il silenzio del corpo viene, letteralmente, “spezzato” dal dolore e dal timore per le conseguenze che il dolore può arrecare.

L’esperienza del dolore, prosegue Gadamer, può strappare il corpo dall’esperienza del mondo. Ne offrono una testimonianza le parole di Rainer Maria Rilke che, ammalato di leucemia, scriveva:

 

O vita, vita

Poter uscire!

 

La malattia, , nota Gadamer, «ci rende consapevoli del nostro corpo fino all’inopportunità». Nei suoi ultimi versi, il poeta delle Elegie duinesi ha descritto la condizione paradossale, “inopportuna”, di una consapevolezza del proprio corpo che va di pari passo con estraneazione da sé e dal mondo causata dalla malattia e dal dolore.

È proprio al crocevia di questa esperienza paradossale che, per Gadamer, si pongono alcune questioni cruciali.

Una su tutte si lega alla corporeità [in tedesco: Leiblichkeit]: come e perché la corporeità si nega a ogni tentativo di tematizzazione? Come mai il corpo, elemento quanto mai tangibile, per sua intima caratteristica si sottrae al pensiero?

«Mi chiedo davvero se esista la possibilità di concepire il corpo in quanto tale e di trattarlo per quello che è», insiste Gadamer. Ancora: che posto occupa il nostro corpo nel mondo? Che posto occupiamo noi, nell’universo? Questioni che, attraverso l’esperienza del corpo e, in particolare del corpo malato, aprono alla dimensione del religioso.

Anche senza voler ricorrere all’idea di anima, Gadamer rimarca il senso di questi interrogativi: come si concilia la nostra corporeità con il nostro essere pensanti? Come possiamo evitare che la cosiddetta ragione strumentale e il riduzionismo che l’accompagna, specie nelle tecniche mediche, contrasti con la complessità e totalità del nostro “essere nel mondo”?

Nel Fedro, Platone descrive la guarigione del corpo come indistricabile da quella dell’anima. Affiché l’arte medica sia tale è necessario un sapere che vada oltre la mera techné, abbracciando integralmente l’essere. E un’espressione, hóle ousía, richiama questa totalità dell’essere. Ma questa espressione, nota ancora Gadamer, significa anche “esser sano”.   Ma è solo da una condizione di disturbo di questa totalità (la malattia), che diventiamo consapevoli della totalità stessa.

“Che cosa significa la malattia per la medicina?” è la domanda che si pone, oggi, il sapere medico strumentale. “Che significato ha la malattia per il malato?” era, al contrario, la questione che interessava Victor von Weizsäcker.

La malattia pone delle questioni radicali al malato. Pone, come detto, la questione radicale del corpo. «Il rapporto fra medico e paziente, condizionato dalla paradossale impossibilità di oggettivare il corpo», scrive Gadamer, «andrebbe esteso ad ogni esperienza della nostra limitatezza».

Il dolore riporta all’interiorità l’esteriorità della nostra esperienza delle cose. E, così facendo, la vivifica. Purché il lato esistenziale-soggettivo del dolore permanga.

In questo senso, sembra affine alla riflessione gadameriana quella di Karl Jaspers che, nelle pagine dedicate alla “Chiarificazione dell’esistenza”, nel secondo volume della sua Filosofia, delinea due atteggiamenti che l’essere umano può assumere dinanzi allo “scandalo” della sofferenza. Il primo atteggiamento, tipico della medicina moderna, è quello di combatterla. Il secondo, è quello di eluderla. Esiste però, puntualizza Gadamer, un terzo atteggiamento. È quello del risveglio dell’esistenza attraverso il dolore.

Scrive Salvatore Natoli che «la radicalità dell’esperienza del dolore e da ascrivere propriamente a questo: essa dispone in una diversa circolarità l’esperienza e la conoscenza, in modo da fare irrompere una diversa visione e perciò un modo del tutto diverso di considerare il mondo e di comprendere l’accadere».

Ogni conoscenza è dunque esperienza, «ma l’esperienza del dolore inaugura una tipologia di conoscenza del tutto irriducibile alle altre modalità di percezione del mondo. Sotto il segno del dolore mondo appare trasformato nella sua interezza».[1]

Rompendo il ritmo abituale del quotidiano, il dolore e la sua percezione attraverso il corpo, quando non si fanno distruttive, diventano esperienze di patimento e rivelazione.

Nel mese di gennaio del 1922, Rainer Maria Rilke ricevette una lettera da parte di Gertrud Ouckama Knoop, vedova del poeta Gerhard. Nella lettera, vi erano annotazioni che impressionarono Rilke: Gertrud descriveva la morte della giovane figlia, avvenuta a causa di leucemia. Fu questo l’antecedente fattuale che spinse Rilke a comporre i suoi Sonetti a Orfeo.

«In quelle pagine», annota Rilke a proposito della lettera di Gertrud Ouckama Knoop, «sono descritte una sofferenza e una morte infinitamente crudeli». La stessa sofferenza e il medesimo destino, quattro anni dopo, toccarono in sorte a Rilke. Nei Sonetti a Orfeo, dedicati alla memoria della giovane Wera, Rilke scrive:

 

Solo nel doppio regno [Doppelbereich]

Le voci si fanno

eterne e dolci

 

L’esperienza del dolore apre a una nuova alleanza con le cose, rende visibile l’invisibile, rappresentabile l’altrimenti irrappresentabile, trasfigurando il dolore e la morte. Anche il dolore, trasfigurato, tace:

 

E tutto tacque

Eppure in quel tacere

S’avanzò nuovo inizio

Cenno e mutamento.

 

È in questa compresenza di corpo e spirito, di vita e morte, che si manifesta ciò che nella nona Elegia, Rilke chiamerà «il paese senza dolore».

Uno spazio dove intimità e mondo coincidono. Un oikos dove «anche il dolore che piange, si schiude puro alla forma / e serve da cosa, o si estingue facendosi cosa».

Per il Rilke della IX Elegia è precisamente qui che si dischiude il mistero delle forme fragili, dell’uomo:

 

E noi, che pensiamo alla felicità

come ascesi, avremmo l’emozione

che quasi sgomenta

di una cosa che felice, cade.

 

 

Note

[1]S. Natoli, L’esperienza del dolore. Forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986, p. 8.

[cite]

 

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