Esenin, teppista dei soviet
Daniela di Sora
Giovanni Arpino, Sergej A. Esenin. L’estremo cantore dell’antica Russia di fronte alla rivoluzione, Marsilio, Venezia 1997.
“Leggere i russi è un’esperienza che molti fanno nell’adolescenza, più o meno al tempo delle sigarette e dei primi, sani desideri di scappare di casa e andare a fare il mozzo. Di questi desideri i “russi” sono i più tenaci, e se poche sono le possibilità che ci si dedichi a correre lungo i moli in cerca di un brigantino, assai minori sono quelle di liberarsi di un Dostoevskij una volta che vi è entrato nel sangue. Ma non è solo lui; non esistono disintossicanti per Gogol’, ed è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore che la prima lettura della Sonata a Kreutzer di Tolstoj o della Steppa di Cechov…”. Così afferma con ragione evidente Giorgio Manganelli in un articolo scritto circa venti anni fa, e continua sottolineando la periodicità degli attacchi di “leggere i russi” da cui viene colto chi abbia provato questa “travolgente, irrinunciabile esperienza”. Alla sua lista, che prosegue con diversi altri nomi, manca però quello di Sergej Aleksandrovic Esenin, che aggiungo. Esenin si può amare con differente intensità nel corso della propria vita, se si è avuto il previlegio di incontrarlo. Ci si può sentire più vicini alla sua poesia contadina degli esordi, a quella religioso-blasfema del periodo rivoluzionario, ai poemi del “teppista” o a quelli disperati della fine, ma leggerlo fa certamente parte delle “esperienze travolgenti”: la purezza cristallina del verso, la magia delle immagini e la suggestività della composizione costituiscono forse il nucleo di quel “principio mozartiano” che per Pasternak è l’essenza stessa di Esenin.
Qualcosa di simile deve essere accaduto anche a Giovanni Arpino. Anche per lo scrittore italiano l’incontro con il poeta russo, nell’immediato dopoguerra, deve essere stato “irrinunciabile”. Nato a Pola nel 1927, Arpino si era iscritto all’Università di Torino nel ’47 e in quello stesso anno, ricorda la moglie, ha sostenuto il primo esame di letteratura russa cui segue, l’anno successivo, il secondo. Naturalmente lo studente conosce il russo come tutti gli studenti che abbiano fatto un esame biennale di una lingua, cioè poco e male. Ma la magia è scattata, la decisione di farne la propria tesi anche. E il libro che la Marsilio felicemente pubblica, è il risultato di quel lontano incontro fra sensibilità affini e consonanti. Quello che stupisce però non è solo la passione evidente, la ricostruzione fondamentalmente esatta dell’epoca o le molte intuizioni: lavoro di un non specialista che anche uno specialista legge volentieri, e vi trova spunti, osservazioni, riflessioni mai banali. Ancora di più colpisce il periodare già maturo, ampio, la capacità di ricostruire atmosfere e di trasmettere sensazioni del giovane Arpino. La lingua ricca ma calibrata, il gusto della parola. E soprattutto la capacità di costruire i “personaggi”. Esenin, Isadora Duncan, tutti gli altri che partecipano delle pagine e dell’epoca sono vivi e veri, la capacità dell’autore di ricostruirne non solo le azioni ma i moti dell’anima, la psicologia, è sorprendente. “Isadora è una donna ‘magnifica’, una delle donne celebrate da D’Annunzio… Flaubert la decomporrebbe in un catalogo di misere avventure quotidiane, che le parole scritte a lettere maiuscole (Arte, Ideale, ecc.) punteggerebbero implacabilmente, soli e smarriti fantasmi d’una vita che attraverso il melodrammatico termina nel grottesco. Una Emma Bovary allontanatasi dalla provincia che vuol essere Saffo… Leggere la sua ‘vita’ è assistere a una malinconica sfilata di apparizioni che hanno i volti e i contorni sbiaditi, incerti, a volte ridicoli, a volte penosamente tragici dei vecchi album di fotografie. La medesima aria di fiori finti, di tappezzerie sbiadite, di cieli artificiali… La vera ‘inquietudine’ le è ignota: le si può concedere una instabilità tutta epidermica e momentanea più del nervo che del sentimento. La stessa sua avventura di Russia non esce appunto dai confini dell’avventura, una fuga da perdonare benignamente a una donna irrequieta…”. Un ritratto impietoso e straordinariamente calzante, pochi tratti per renderci plausibile questa donna che sposa, più che quarantenne, il giovane poeta senza che nessuno dei due parli la lingua dell’altro. Indirettamente, attraverso la teatralità del loro rapporto, una pennellata in più al carattere di Esenin. Perché naturalmente è lui il centro del libro. E non solo il poeta ma l’uomo, il carattere, il personaggio, appunto.
Non è impresa facile: alla fine degli anni ’40 Sergej Esenin è stato rimosso. Il poeta che nel dicembre del 1925, quando si tolse la vita all’hotel Angleterre di Leningrado, era uno dei più popolari della Russia, al cui funerale accorsero centinaia di migliaia di persone, che conobbe schiere di rifacitori pseudoteppisti e bettolieri, per cui dilagò persino il fenomeno delle “vedove di Esenin”, donne disperate che si toglievano la vita sulla sua tomba, il poeta che dopo la morte ebbe sulla Pravda un articolo di Trockij, questo poeta straordinariamente amato e imitato dunque, a partire dagli anni ’30 comincia a sparire, a scivolare via dalle pagine dei critici, dalle antologie. Un’edizione delle sue opere in quattro volumi appare nel 1926-27; bisogna poi aspettare Kruscev e la metà degli anni cinquanta per vederle ripubblicate. In Italia ne accennano brevemente Croce e Leone Ginzburg, Ungaretti traduce un poema, Requiem, ma dal francese, se ne occupano più a fondo Lo Gatto e Poggioli. Arpino supplisce alla mancanza di dati e di informazioni, di cui si lamenta (“purtroppo noi non conosciamo le vicende dei giorni cittadini del poeta”) con l’osservazione, lo studio dei moti dell’anima e della realtà del tempo. Ma anche accostandosi direttamente e caparbiamente alle opere, che traduce dal russo con l’aiuto di altri. La signora Caterina Arpino, cui devo questi ricordi, accenna persino ad alcune poesie del marito su motivi eseniniani, scritte in quegli anni. Peccato solo che di questo non ci sia cenno nel volume, si avverte l’esigenza di qualche notizia ulteriore sul rapporto Arpino-Esenin. In ogni caso, Arpino è mosso da “un impulso d’anima”, come dice Vittorio Strada nella prefazione. E il risultato è questa bella biografia poetica, dove tutto è filtrato attraverso la sensibilità di un altro scrittore, che ci offre il “suo” Esenin, ma così umano, così vero.
Ci si accosta a lui per gradi, secondo un procedimento classico, quasi cinematografico: l’epoca, l’atmosfera generale, la Russia dei primi decenni del secolo; poi viene Kostantinovo, il villaggio, con “campi di grano, bestie al pascolo, le preghiere della sera nell’angolo delle icone”, con le strade in terra battuta, l’infanzia di Sergej, il nonno, l’incontro e la scoperta della poesia. Pagine belle e distese come il paesaggio, quasi che i ricordi di uno si siano fatti materia per la nostalgia dell’altro. Parole straordinariamente evocatrici di immagini, dense di colori e quasi di musica. Poi però lo scenario cambia, alla campagna subentra la città e via via il ritmo si fa più stringente, più incalzante.
Gli ultimi capitoli del libro, quelli dedicati agli ultimi anni della vita del poeta, sono contrassegnati da date: il 1922, il 1923, il 1924-25. Anni cupi e difficili, non solo per il poeta ma per la Russia. Fino a quella sera di fine dicembre 1925.
La morte apre una nuova e modernissima riflessione sulla poesia di Esenin, a cui Giovanni Arpino tutto riconduce. “Parlando della sua morte si è voluto erroneamente intenderla come un atto di ribellione. Lo stesso Croce ha voluto vedere in quel gesto la protesta dell’uomo contro un ambiente, una mentalità, una norma. Visione erronea, perché il poeta non soggiace a un ambiente, a una situazione, bensì alla crisi definitiva della sua stessa poesia… Dalle prime raccolte di poesie si intravede la morte di Esenin ma prima ancora che egli stesso la intuisse, ne facesse un termine di fatica e di perfezione. Quando Esenin muore, è la sua stessa poesia a celebrare i motivi, a sottolinearne le ragioni, che sono tutte e solo poetiche… Smarrita, per la sua poesia, ogni uscita, ogni possibilità di rinascere o almeno di riscattarsi in un clima più forte, più puro, la caduta si delinea inevitabile”.
Anche Majakovskij aveva affermato, nella celebre poesia in morte di Sergej Esenin: “Si dice/ che a mettervi accanto/ qualcuno di ‘Na postù/ sareste diventato/ assai più bravo/ nel contenuto:/ voi/ avreste scritto/ al giorno/ centinaia di versi/ stucchevoli/ e lungagginosi./ Ma, a parer mio,/ se si fosse avverata/ una tale incongruenza/ vi sareste soppresso/ ancor prima”.
[da La talpa libri, 6 novembre 1997]