Esiste un modo fascista di produrre la realtà?
Marco Dotti
Jonathan Littell, Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista, traduzione di Margherita Botto, Einaudi, Torino 2009.
Si può prendere un fascista alla lettera? Se ne possono attraversare testi, lettere, libri, scritti e persino parole d’occasione come fossero tracce abbandonate su un territorio avverso e cercare così di penetrare nell’informe e mai ben ben definita struttura della mentalità fascista? Jonathan Littel ci prova, con un libretto scritto nel 2002 a margine delle ricerche per un altro lavoro nel frattempo pubblicato, Le benevole. Nonostante il clamoroso successo riscosso oltralpe, con tanto di Goncourt e Grand Prix du Roman de l’Académie Française, in Italia e altrove (negli Stati Uniti, soprattutto), le Benevole non hanno incontrato gli stessi consensi di pubblico, né alimentato il medesimo dibattito se non proprio storico-critico, quanto meno giornalistico. Anche per questa ragione, nel paese che ama e probabilmente si merita Giampaolo Pansa, e dopo l’improbabile tentativo di marketing librario di replicare altrove un successo in tutto e per tutto «francese», Il secco e l’umido [Le sec et l’humide] è uscito da Einaudi quasi senza fare rumore.
Meglio così, verrebbe da aggiungere, perché a dispetto delle spesso noiosissime novecento e passa pagine delle Bienveillantes, il Secco e l’umido è un libro a tratti intenso, con tutti i pregi e i difetti dei lavori di Littel, ma anche con un indubbio vantaggio. Qui l’autore franco-americano non fa letteratura, né si confronta con miti letterari e umani della destra estrema, né cede al richiamo di quella che Tarmo Kunnas definiva «tentazione fascista», misto di autolesionismo e odio di sé che così spesso prelude a repentini passaggi di simpatie e di campo politico. A dispetto della chiave individuata da Kunnas, infatti, non è con un impaurito delatore alla Brasillach, con un Céline decrepito intento a disumanizzare gli uomini e a umanizzare i propri cani, o con un Drieu che nasconde la polvere della propria contorta omosessualità dietro la maschera dello spregio di sé che Jonathan Littel fa i conti.
Il «fascista», più diavolo tentatore che poveraccio tentato, risponde al nome di Léon Degrelle. Ma, come tutti i fascisti, al di là del luogo comune che li vuole silenziosi e statici, anche Degrelle scriveva. E scriveva molto. «Qui non ci occuperaremo della politica di Degrelle», avverte Littel, «ma del suo linguaggio». Salvo che a quel linguaggio, in Degrelle, corrisponde esattamente un piano perverso di «realtà». Littel si muove servendosi di un doppia guida. Da un lato, le ricerche condotte dal sociologo Klaus Theveleit, l’autore di Männerphantasien (solo la prima parte è stata tradotta in italiano, nel 1997, dal Saggiatore, col titolo Fantasie virili) che firma anche una postfazione al volume. Dall’altro, le osservazioni che, nell’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari riservano a Hitler e alla dinamica del desiderio. Se si accetta l’esistenza di una «maniera fascista di produrre la realtà», osservava a suo tempo Theveleit (la pubblicazione dei due tomi di Männerphantasien risale al 1977-78), sulla scia di Wilhelm Reich, allora non ci si può accontentare di ridurre tutto a un fenomeno di «forma dello stato e neanché semplicemente di forma economica». Il fascista, scrivevano da par loro Deleuze e Guattari, è qualcuno di «mai completamente nato» e questo mai completamente nato è responsabile di un crimine senza fine, che appunto denominiamo fascismo. Non si ha a che fare, in termini generali, con dei meri psicopatici, ma con soggetti socialmente integrati, capaci di agire, scrivere, parlare, e talvolta di prendere anche il potere. Littel si serve di questi schemi e, in particolare, dell’idea che il tipo-fascista possieda un «io-corazza», una sorta di «armatura muscolare» o «io esteriorizzato» capace di tratterenere un’interiorità inaccessibile. Una corazza mai perfettamente ermetica e mai perfettamente stabile. È perciò che il fascista esteriorizza ciò che lo minaccia al proprio interno – pulsioni, paure, desideri –, assegna a ogni pericolo le forme del «liquido e del femminile» e struttura la propria visione del mondo attraverso una serie di opposizioni fondamentali, su tutte quella tra il secco e l’umido che dà il titolo al lavoro.
Nato a Bouillon, nel Belgio vallone, il 15 giugno 1906, morto in una sorta di autoesilio a Malaga, il 31 marzo di quindici anni fa non senza aver tentanto di riorganizzarsi su basi neonaziste (il Progetto Odessa), Léon Joseph Marie Ignace Degrelle era stato ispiratore e «guida» del movimento rexista, fondato nel ’35 sul modello organizzativo dell’Azione cattolica, ma ispirato soprattutto all’integralismo religioso e al corporativismo mussoliniano. Più che un teorico, però, Degrelle era un giornalista e – così voleva far credere – un uomo d’azione. Quando alle elezioni del ’36 il movimento Rex ottenne l’11,8 % dei voti, riuscendo a mandare in parlamento una ventina di deputati e dodici senatori, Degrelle diventò di colpo il dirigente politico più giovane dell’intera Europa. Megalomane e mitomane, discendente da una famiglia fuggita dalla Francia al tempo della cacciata dei gesuiti, di lingua francese ma ossessionato dalla simbologia fiamminga, Degrelle prese parte all’invasione dell’Unione Sovietica, passando dal ruolo di mitragliere semplice e a quello di comandante di corpo d’armata nella legione vallona inquadrata nella Wehrmacht prima e tra le SS poi. È proprio sulle sue memorie concernenti la spedizione oltre il confine Ucraino del 1941 che Littel concentra la propria attenzione.
Nella Campagne de Russie, libro scritto nel 1945, l’opposizione fondamentale fra il secco e l’umido è portata alle estreme conseguenze, laddove si parla continuamente del pericolo che si presenta nella forma del «fango». I corpi, per lui, sono «secchi», mentre i cadaveri sono «umidi». Ma umidi, per estensione, sono anche i bolscevichi, gli avversagli, gli altri, che spesso vengono descritti attraverso l’immagine di grandi e grosse prostitute. Per strutturarsi, osserva ancora Littell, il fascista deve infatti al contempo strutturare il mondo, assegnargli un ordine rigido. In genere lo fa uccidendo, ma lo fa anche attraverso un linguaggio in qualche modo performativo, che indica nel «femminile» il suo avversario principale. Le metafore, che pure abbondano in testi del genere, non sono pertanto mai solamente metafore. Anche quelli che a posteriori possono sembrare – e in gran parte lo sono – cliché abusatissimi mantengono una loro efficacia operativa e funzionale: forniscono una mappa del mondo, ma soprattutto inducono degli effetti di realtà. Quando parla, legge o scrive Degrelle «vede», «tocca», «sente» fisicamente le cose di cui sta parlando, leggendo o scrivendo.
Ecco allora che quandoi tedeschi superano la frontiera sovietica (un refuso a pagina 34, cambia un 22 giugno 1941, in «22 giugno 1944»), entrano in una terra incognita che definiranno con il termine alquanto generico di steppa, «die Steppe». Il territorio andava «urgentemente inquadrato, strutturato, controllato», per evitare di affondare nell’umido così come i militari affondava e morivano nel fango. «Chi non si è reso conto dell’importanza del fango nel problema russo», scrive Degrelle, «non può capire nulla di ciò che accadde per quattro anni sul fronte orientale europeo. A rigore, si può vincere il freddo, avanzare con quaranta gradi sotto zero. Il fango russo, invece, è sicuro di dominare. Nulla lo sconfigge, né l’uomo, né la materia». In questo fango ha immerso le mani Jonathan Littell.
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