Gli uomini e le cose
Francesco Paolella
Oggi più che mai, il mondo della cultura italiana, gli intellettuali e il ceto medio riflessivo, sembrano avere dei problemi con il popolo. Non lo capiscono più come una volta. Da quando il popolo non è più la classe, si è verificata una drammatica frattura fra l’alto e il basso, fra chi sa (cioè chi sa di sapere) e chi può (purtroppo, si dice ormai apertamente) decidere.
Ma non è soltanto la contingenza delle politiche governative o una questione di suffragio universale, con risultati elettorali sempre più indigesti, a pesare. È un problema che ha, e in particolar modo proprio per il caso italiano, una storia lunga e che questo libro di Fabio Dei ci restituisce, problematizzandola. Il volume è, infatti, dedicato a ricostruire gli studi degli ultimi due secoli sulla cultura popolare nel nostro Paese. Il folklore italico è stato oggetto di ricerca fin dall’Ottocento e poi lungo tutto il Novecento, con approcci e finalità ideologiche ovviamente discordanti (positivismo, fascismo, marxismo…). Al fondo, il tema può essere riassunto così: anche le classi subalterne (cioè, banalizzando un po’: gli ignoranti, i “webeti” si dice oggi, e in ultima analisi i poveri) possono esprimere una loro cultura, possono produrre un sapere, possono manifestarsi creativamente e non soltanto assorbendo passivamente, per caduta, i resti di quanto produce e crea la “vera” cultura, quella alta, borghese?
Oggi il folklore viene, superficialmente ma invariabilmente, associato al pittoresco. Chi di noi abbia mai visitato un museo – di solito piccolo e male in arnese – sul folklore, sulle tradizioni popolari di un dato territorio, avrà quasi esclusivamente visto esporre testimonianze risalenti a epoca remote, a quando le masse erano contadine. E dopo? Con la modernizzazione dell’Italia, il boom, l’industrializzazione e le migrazioni interne, che ne è stato della cultura popolare? Non si può negare l’enormità della rivoluzione (davvero antropologica) avvenuta in Italia a metà del secolo scorso: ma cosa è avvenuto nel nostro Paese negli ultimi cinquanta o sessanta anni? Il consumismo, le comunicazioni di massa, insomma: la lavatrice, la televisione, la plastica, Facebook, hanno in sostanza eliminato realmente ogni altra possibile cultura popolare? Hanno solo lasciato il vuoto, estirpando le secolari tradizioni precedenti? In altre parole: l’imperialismo dei consumi di massa ha davvero cancellato alla radice la possibilità stessa di un folklore? Una certa interpretazione di Gramsci, l’influsso dei francofortesi, voci come quella di Pasolini col fascismo dei consumi, sono state assolutamente predominanti ed hanno finito per negare che i ceti subalterni potessero in qualche modo reagire alla cultura di massa, adattandosi ad essa non solo passivamente.
Se il mercato era il male, un puro corruttore, non restava che disinteressarsi di quanto pure “laggiù” si faceva, si pensava. Ecco perché la demologia è caduta in una crisi profonda negli ultimi 40 anni. Uno sguardo elitario e davvero “borghese” ha contaminato ogni scienza della cultura popolare in Italia: secondo questa prospettiva,
«la cultura di massa non può esser concettualizzata come «subalterna»: certamente non come “progressiva” o “contestativa”, ma neppure come indice di una oggettiva “resistenza” delle classi popolari all’egemonia borghese. Prodotta dall’industria e distribuita attraverso il mercato, essa esprime appieno proprio quell’egemonia, ne è il veicolo – anzi è molto più efficace della vecchia cultura d’élite nella capacità di imporsi senza residui, soffocando ogni possibile diversità e resistenza» (p. 131).
Così non rimangono oggi – solo all’apparenza, ovviamente – che tradizioni moribonde da salvare (le famose “eccellenze”). L’Italia ha un patrimonio di culture popolari che viene considerato tale solo in quanto in pericolo, e, per questo, da sigillare in un museo. Occorre invece recuperare – liberandola dai residui ideologici – una vera antropologia delle pratiche, anzi delle “tattiche” popolari. Le lezioni di Gramsci e di De Martino, di Clara Gallini e di Tullio Seppilli (solo per fare qualche nome) son utili oggi se ci aiutano ad orientarci nei continui rimandi, mai interrotti, fra alto e basso, e nelle relazioni (sempre vive) fra egemonico e subalterno:
«Il popolare non si identifica con i prodotti della cultura di massa, ma non può neppure esser cercato al di fuori dei processi della loro circolazione. Esso ha piuttosto a che fare con le modalità di uso e fruizione della cultura di massa da parte di gruppi specifici e all’interno di specifici contesti sociali. In particolare, ha a che fare con gli scarti che sistematicamente si producono fra il livello “ufficiale” delle istituzioni culturali e quello delle concrete pratiche locali che su di esse si innestano» (p. 160).
Occorre tornare al punto di vista dei soggetti coinvolti direttamente: qui Fabio Dei ci fa diversi esempi di questa diversa prospettiva, alla cui base sta il principio della singolarizzazione: ognuno può esprimersi anche attraverso i propri consumi (materiali, culturali, religiosi, sanitari). La cultura popolare non può essere isolata né sezionata in laboratorio: è solo in controluce che essa può informarci davvero su dove la società contemporanea stia andando. Le differenze non sono state cancellate, come invece, apocalitticamente, si prevedeva anni fa. Gli uomini più che mai oggi (ma come sempre, in fin dei conti) si esprimono anche attraverso le cose.
[cite]
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philosophy and social criticism
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