philosophy and social criticism

Gravity

di Luca Peretti

Attenzione. Spoiler pesanti, non leggere se non avete già visto Gravity!

Ad un certo punto in Gravity, dopo che ne abbiamo viste già un po’, come un’aurora boreale dallo spazio, uno sciame di detriti, qualche morto, Ryan Stone aka Sandra Bullock arriva nella stazione spaziale internazionale. Ce l’ha fatta, a differenza dell’altro sopravvissuto alla tragedia spaziale, l’esperto astronauta George Clooney aka Matt Kowalski, lei, che è solo un ingegnere biomedico con un corso di sei mesi da astronauta fatto solo per questa missione, è riuscita a raggiungere la stazione più vicina e a mettersi in salvo. La telecamera la inquadra completamente. Si toglie la tuta spaziale. Si mette posizione fetale, dentro a questa piccola capsula, si sgranchisce le ossa. È tornata a vivere. O forse, vive per la prima volta. Anche noi, dopo minuti lunghi e tesi, dopo l’incertezza, dopo la lotta primordiale tra la vita e la morte, torniamo a vivere. In quella breve sequenza il cinema riscopre l’umanità.

[dicono gli astronauti e gli astrofisici che questa scena non è realistica perché nella realtà avrebbe il pannolone, che pure le astronaute belle e affascinanti fanno la pipì nello spazio. Forse dimenticano che il pannolone si mette dopo esser nati, non prima]

E non era neanche il primo momento estatico di questo film finalmente in 3D, non come le tante fregature dove veniva attaccato posticciamente per spillare qualche soldo in più. Qui è un tutt’uno, Gravity è se è 3D, in un certo senso il cinema in 3D comincia o ricomincia solo con questo film. E quel bullone che, a inizio film, mentre la dottoressa Stone lavora sullo shuttle, un po’ goffamente, si perde e vaga nello spazio, ecco quel bullone che si dirige verso di noi è come il treno della stazione La Ciotat per i primi spettatori. Ma adesso la mano di George aka Matt lo afferra velocemente e fermamente: il 3D controlla il cinema più di quanto non potessero fare i fratelli Lumière.

Poi si torna sulla terra. Abbiamo viaggiato con la dottoressa Stone. Con lei abbiamo imparato le difficoltà della vita sullo spazio: in fondo era la sua prima missione, e anche la nostra. Con lei abbiamo attraversato varie stazioni internazionali, letto istruzioni in russo e cinese, cercato disperatamente di contattare Houston (“Houston Houston”, come in tanti film prima di lei). La sua capsula d’emergenza finalmente atterra sulla terra, ma finisce nell’acqua. Mentre i soccorsi stanno arrivando, come ci informa la radio, dobbiamo ancora soffrire con lei. Sott’acqua scopriamo che lo spazio, in fondo, è così vicino a noi: sotto a un lago. Di nuovo, deve spogliarsi, di nuovo torna a vivere, e per la prima volta dopo questo viaggio in cui non abbiamo potuto respirare eccola che spunta fuori dall’acqua e respira. È viva. Siamo vivi. Muove i primi passi sulla terra, faticosamente. Sono piccoli passi per questa donna, ma grandi balzi per l’umanità. È il cinema, che cammina di nuovo, vivo. 

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tysm literary review, Vol 6, No. 8,  September 2013

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