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Guerra permanente in Libia. Intervista con Danilo Zolo

Marco Dotti

Si è spento oggi 17 agosto 2018, a Firenze, il filosofo del diritto Danilo Zolo. Lo ricordiamo con una nostra intervista,  risalente ai primi mesi del 2011, quando l’intervento militare contro Tripoli si stava concretizzando, la riproponiamo oggi, mentre nuovi scenari di guerra si presentano all’opinione pubblica.

«Fino a poco tempo fa eravamo convinti che gli Stati Uniti avessero cambiato volto grazie al nuovo presidente Barack Obama. Ma ora siamo certi che il volto non basta e che può addirittura fungere da maschera». Non risparmia critiche Danilo Zolo, allievo di Norberto Bobbio, tra i più noti esperti di diritto e giustizia internazionale. Lo scenario delle moderne democrazie gli appare sempre più simile a un «tramonto globale» dominato dalle paure e da una vittima illustre: il diritto, sacrificato in nome dei bombardamenti indiscriminati e di una giustizia sempre più appannaggio di ambigue burocrazie transnazionali.

Siamo entrati in guerra senza dibattito, senza polemiche, quasi senza accorgercene. Chi ha effettivamente deciso questa guerra?
Questa guerra è stata voluta, essenzialmente, dagli Stati Uniti, che non a caso governano il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e hanno, di fatto, suggerito agli alleati europei di realizzare qualcosa che possiamo qualificare come guerra. Una guerra particolare, non prevista, di cui non si conoscono gli sviluppi, né quante stragi, né quanti presunti vantaggi darà alla popolazione. La mia opinione è che l’aggressione alla Libia sia dettata essenzialmente da ragioni economiche e queste ragioni poggino sui giacimenti petroliferi non ancora sfruttati. La Libia ha sorgenti petrolifere importanti ma, dicono gli esperti, ne ha infinitamente di più rispetto a quelle già scoperte. Nella situazione di crisi attuale, controllare quest’area può essere di estrema importanza. È chiaro che gli Stati Uniti si sono serviti del Consiglio di Sicurezza per raggiungere questo obiettivo, ma lo hanno fatto in violazione assoluta della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale.
È sufficiente una rapida lettura della risoluzione 1973 del 17 marzo, con la quale si è deciso il “No-Fly Zone” contro la Libia, per cogliere questa gravissima violazione. La Carta, al comma 7 dell’art. 2, stabilisce che «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato». È dunque fuori da ogni ragionevole dubbio che la “guerra civile” di competenza interna alla Libia non è un evento di cui poteva occuparsi militarmente il Consiglio di Sicurezza.

La mia opinione è che l’aggressione alla Libia sia dettata essenzialmente da ragioni economiche e queste ragioni poggino sui giacimenti petroliferi non ancora sfruttati. La Libia ha sorgenti petrolifere importanti ma, dicono gli esperti, ne ha infinitamente di più rispetto a quelle già scoperte. Nella situazione di crisi attuale, controllare quest’area può essere di estrema importanza

Eppure constatiamo con sorpresa che nessuno, soprattutto da sinistra, ha sollevato obiezioni sull’istituzione della “No-Fly Zone”…
La sua sorpresa è anche la mia sorpresa. Non riesco a comprendere in base a quali ragionevoli motivazioni ci si possa schierare a favore di un intervento di questo genere. Persino Nichi Vendola ha assunto posizioni molto confuse. Di certo, a questa sinistra manca la capacità di cogliere il dramma delle relazioni internazionali che è strettamente legato al fenomeno della globalizzazione. È un difetto di visione e, di conseguenza, un difetto di prospettiva.

La sinistra appare sempre più vittima di quella ideologia del globalismo giudiziario che pare conseguente a una concezione meramente burocratica della giustizia e a una deriva esclusivamente penale del diritto.
Pensiamo a tutta la questione che ruota attorno alla giustizia penale internazionale. Questa cosiddetta giustizia penale internazionale è un’impostura gravissima che mina l’intero fondamento del diritto. Ad esempio, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, che già in un mio libro apparso oramai undici anni fa (Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, 2000) ho dimostrato essere uno strumento essenzialmente politico e poco credibile, per non dire di peggio, ha prodotto danni incalcolabili. Inoltre, questo globalismo giudiziario di fonda su una visione che, giustamente, lei ha definito estremamente semplificata del diritto. Non di meno, questa “visione” produce effetti sul piano dei rapporti materiali di un modello di giustizia punitiva che anche nella sua esperienza “interna” continua a sollevare gravi interrogativi. Sorprende, quindi, l’entusiasmo giustizialista che affida le sorti della democrazia, della pace e dell’ordine mondiale ai verdetti di una burocrazia giudiziaria sovranazionale.

L’ottimismo di tanti progressisti di oggi (Obama) e dell’altro ieri (Clinton, Blair) produce mostri… Cosa opporre a tale ottimismo?
Un realismo radicale che guardi con grande scetticismo alle grandi speranze dello sviluppo, e tuttavia non ceda e non smetta a sua volta di sperare in un cambiamento, attraverso le armi della riflessione e della critica. Almeno questo non ci è stato ancora tolto.

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