I confini e le sovranità necessarie alla retorica del capitalismo
Piero Bevilacqua
Ma davvero, al livello cui è giunta l’economia mondiale, avremmo ancora bisogno di «crescere»,«correre», «competere», se l’umanità non fosse divisa in stati, con le loro frontiere e le loro bandiere? Avremmo ancora bisogno di «andare avanti», cioè di accumulare ulteriore ricchezza, se ciascuno non perseguisse per sé, l’obiettivo che è comune, vale a dire il benessere di tutti? Osservata da una prospettiva che prescinda dagli stati nazionali, questa costruzione storica che ancora decide il destino dell’umanità, il meccanismo che ispira il capitalismo del nostro tempo, appare in tutta la sua tragica assurdità. Che bisogno c’è ancora di crescere se ogni anno vanno al macero 1, 3 miliardi di tonnellate di cibo, rimangono invendute, solo in Europa, decine di milioni di auto e un numero imprecisato viene quotidianamente rottamato, se l’iperconsumo fa crescere di anno in anno rifiuti e discariche in ogni angolo del pianeta, e una nuova micidiale spazzatura – la cosiddetta e-waste, la spazzatura elettronica – va divorando sempre nuovi territori, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri?
E QUALE RAZIONALITÀ SEGRETA sorregge questa corsa all’infinito, dal momento che per alimentarla, stiamo distruggendo la vita dei mari, saccheggiando le risorse idriche del pianeta, avvelenando le terre fertili, inquinando l’aria, riducendo la biodiversità naturale, alterando irreversibilmente il clima? A che fine questa corsa l’un contro l’altro stato, se essa condanna una parte estesa dell’umanità alla disoccupazione e alla precarietà, alla polverizzazione della vita sociale, al ritorno del lavoro schiavile anche nelle campagne ?
È EVIDENTE che l’organizzazione e la divisione tra stati è una eredità del passato che il capitalismo del nostro tempo – grande stratega nelle mosse di dominio sull’umanità – riattualizza facendone forse l’arma più efficace del suo successo di classe. Dunque è sufficiente porre mente a questo stato di cose per scorgere oggi l’inanità della lotta politica tutta interna ai vincoli dei singoli stati nazionali. Restando chiusi dentro questi confini i partiti politici operano come zelanti servitori delle retoriche capitalistiche, accentando una insuperabile subalternità al capitale industriale e finanziario, libero di muoversi senza limiti di frontiere e di bandiere.
NON È CERTO UN CASO che da quando è scomparso dalla scena del mondo l’antagonista globale rappresentato dal comunismo, mostro burocratico, ma pur sempre «mostro», questo modo di produzione va celebrando i fasti più distruttivi della sua storia, contro il lavoro e contro gli ecosistemi della Terra. E non è vero che a impedire oggi il conflitto di classe sia la destrutturazione postfordista del lavoro di fabbrica. È la limitatezza territoriale della lotta operaia e popolare di fronte allo spazio di movimento mondiale del capitale. Ma mai come oggi la logica della crescita fa tutt’uno con la distruzione degli equilibri della Terra, offrendo alla sinistra l’opportunità egemonica di far coincidere il riscatto dei subalterni con la salvezza del pianeta. È evidente che senza una forza di contrapposizione di ampiezza sovranazionale, capace di colpire il capitale nei suoi interessi vitali, la politica riformista ha la potenza del graffio del gatto.
LA SPAZIO POLITICO dell’Unione europea è dunque lo spazio minimo in cui pensare un’azione politica in grado di una qualche efficacia, come hanno efficacemente argomentato su questo giornale Luciana Castellina (14/ 9 e Marco Bascetta, 22/9). Del resto, quel che può ancora oggi la politica di fronte ai colossi dell’economia, l’ha mostrato proprio l’UE con le recenti sanzioni a Microsoft e Google. Sappiamo bene che è arduo modificare i trattati neoliberisti che reggono l’impalcatura dell’Unione, ma il fronte della lotta oggi è questo continente, non le retrovie nazionali.
Esattamente per tale ragione, occorre dire che i vari tentativi oggi in corso di resuscitare il centro-sinistra costituiscono velleità da scansare. L’operazione avrebbe la stessa possibilità di tenuta del ponte Morandi ricostruito con le macerie oggi nel greto del Polcevera. Non si costruisce nulla di solido con le rovine di un edificio, per giunta mal costruito. E non c’è modo più serio di liberare le forze avanzate e riformatrici attive in quell’ambito che dichiarare solennemente chiusa quella esperienza.
MA TALE POSIZIONE chiede alla sinistra radicale una serietà e un senso di responsabilità che finora sono mancati. Il tentativo di Varoufakis – uno dei pochi leader politici che ha conoscenza profonda dell’Unione – e di altri dirigenti di Diem (una trama transnazionale con un organico programma per le elezioni europee) deve essere colto dalla varie sigle della nostra sinistra come una grande occasione di unificazione in un momento grave della storia d’Europa. Potere al Popolo, Sinistra Italiana, Rifondazione, Possibile non possono più continuare il loro irresponsabile gioco a scacchi.
L’articolo è già apparso sul Manifesto del 29 settembre 2018.
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