I danni del plusmaterno
di Francesco Paolella
Laura Pigozzi, Adolescenza zero. Hikikomori, cutters, ADHD e la crescita negata, Nottetempo, Roma 2019, 256 pagine
Nascono sempre meno bambini, e sempre in più famiglie i figli rappresentano un problema, sembrano vivere male il loro ruolo, perché assediati da genitori narcisisti e ambiziosi. Che si voglia seguire o meno la lettura che ne fa qui Laura Pigozzi (psicanalista di orientamento lacaniano), ci sono sempre più segnali di una grave crisi nei rapporti fra le generazioni, una crisi diffusa e ben più ampia di quella che riguarda i (pur molti) casi di disagio manifestati dagli adolescenti italiani (come forme di ritiro sociale, di autolesionismo ecc.). Si tratta di problemi sempre più emergenti e che sono conseguenza diretta di una individualizzazione spietata e di un isolamento sempre più rigido delle famiglie italiane. Di più, oggi pare dominare, soprattutto, un cattivo amore materno, un amore pericoloso dal quale i figli con sempre più difficoltà e sofferenza riescono ad emanciparsi o, talvolta, con il quale essi riescono almeno a sopravvivere.
Ai di là dei luoghi comuni, le nuove generazioni, mai come adesso fatte di “mammoni”, rischiano di cadere vittime del controllo spietato di genitori totalmente votati al benessere dei figli, ma che sono, in realtà, i loro carcerieri. In concomitanza con una crisi terribile della funzione paterna, il “plusmaterno”, ossia l’esaltazione di questo potere dolce e soffocante, può assumere facilmente un sapore totalitario. All’apparenza, i rapporti fra genitori e figli non sono mai stati così distesi e franchi come al giorno d’oggi. In realtà, i bambini e gli adolescenti perdono sempre più autonomia e, soprattutto, la possibilità di emanciparsi, di liberarsi dall’abbraccio consolante e inibitorio della madre. Essi finiscono per essere semplici protuberanze dei genitori, strumenti dell’inesausto spirito competitivo di questi ultimi; essi finiscono, in sostanza, per divenire dei giocattoli, senza età, senza desideri e senza la possibilità di crescere. Il corpo dei figli può trasformarsi nella sede dello scontro fra un adulto e la società, da quello sempre più (paranoicamente) temuta.
Ma i figli, allora, che possono fare? Soltanto subire l’amore di genitori frustrati e gelosi del proprio ruolo di “educatori”? Oppure sono costretti a mettere in campo forme (talvolta autodistruttive) di resistenza contro di loro? Nella vita quotidiana, i figli sempre più spesso recitano la parte di “motivatori” dei genitori: la loro salute, la loro formazione, i loro divertimenti sono terreno di conquista da parte degli adulti: così, ad esempio, i genitori intervengono sempre più pesantemente nel rapporto fra i propri figli e la scuola, facendo pesare il proprio ruolo di “clienti” delle istituzioni.
Allo stesso tempo, i ragazzi sono sempre più infantilizzati, ma anche trattati alla pari, da adulti. L’importante è neutralizzarli: i bambini sono pur sempre spaventosi e perturbanti; per questa ragione, sempre più problemi nel comportamento dei bambini vengono medicalizzati e, semmai, affrontati con gli psicofarmaci.
«Il bambino spiazza: col suo essere sempre al di la di ciò che i progetti prevedono per lui; egli non è mai il bambino sognato nelle notti gravide della mamma, né è il bambino integrabile nei programmi scolastici scritti dagli adulti. Non solo l’adulto è un trauma per il bambino, ma anche il bambino è un trauma per l’adulto. L’adulto fatica ad accettare il perturbante che ogni bambino incarna. Si può rendere familiare il bambino solo fino a un certo punto: lui è anche sempre non-familiare, unheimlich, non confortevole, spiazzante. Il bambino non esiste per farci sentire buoni genitori. Come scrive l’editore per l’infanzia Giovanna Zoboli, l’infanzia è “perfettamente aliena”. Sedare un bambino, allora, può essere letto come un atto difensivo-aggressivo verso l’angoscia che l’alterità spiazzante del bambino arreca alla psiche degli adulti?» (pagina 158)
Di questi problemi molta responsabilità è attribuita solitamente alla rete, al nuovo impero del digitale nella vita dei più giovani. In realtà, il rifugiarsi nel virtuale è un effetto secondario di una chiusura sempre più profonda e grave: quella nell’utero materno. Non c’è più un vero conflitto fra le generazioni: gli hikikomori (se ne contano almeno 100.000 in Italia) hanno deciso di rinchiudersi in casa, anzi nella loro stanza, da cui escono semmai solo di notte, risolvendo la loro non-vita in un continuo flirt con la morte.
«Non è internet che dà il via alla clausura, ma il voler restare bambini attaccati a un seno digitale. La dipendenza dal web, che non è esclusiva dell’hikikomori, si installa su una dipendenza preesistente, da cui l’adolescente eredita la sua caparbia fissazione. Internet, casomai, è per lui un punto di ancoraggio, un luogo dove scambiare ancora parole, un alito di simbolico, sebbene virtuale, nel vuoto della clausura» (pagina 19).
In questo ritiro sociale radicale, in questa fuga dal caos della vita, in una vita-non-vita senza più tempo, non resta che la convivenza con la propria famiglia e con la madre in particolare, una convivenza impotente e fortemente ambigua. Il figlio recluso, che ha spesso atteggiamenti di aggressività passiva, non può separarsi dalla madre ma, al contempo, non può vivere pacificamente con lei. L’adolescenza dovrebbe essere piuttosto il periodo in cui sviluppare la capacità di difendersi anche dall’amore (inclusivo ma potenzialmente feroce) di chi ci ha messo al mondo.
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