philosophy and social criticism

Il bambino di Varsavia

Francesco Paolella

Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, trad. di  Fabrizio Grillenzoni, Laterza, Roma-Bari, 2011.

Un bambino a braccia alzate, dallo sguardo spaventato, accanto a uomini SS con il mitra, e assieme a lui un gruppo di altre persone nelle stesse condizioni. Tutto questo in una fotografia. Una fotografia oggi conosciuta universalmente, una fotografia nata nazista, inserita in un album fotografico raccolto per dimostrazione il successo nella liquidazione del ghetto di Varsavia. Questo volume alla storia di questa immagine, agli usi e alle strumentalizzazioni che ne sono stati fatti in ambito storiografico, pedagogico, cinematografico, politico. Si tratta di una fotografia nazista dicevamo, e il cui significato va decostruito: è stata realizzata per dimostrare che gli ebrei di Varsavia erano stati vinti, la loro rivolta umiliata. Eppure oggi, quasi 70 anni dopo, colpisce il ritorno a quella fonte: quel bambino con le braccia alzate è tutt’altro, il simbolo globale (globalizzato) delle vittime della guerra, del razzismo, ma anche della violenza adulta dei bambini e così via. Una icona universale, ma inevitabilmente decontestualizzata. Come si è arrivati a ciò?

Il primo cambiamento, anzi il primo ribaltamento, è stato quello più pacifico, per così dire. Quella fotografia, assieme alle altre dell’“album Stroop” (Jürgen Stroop è il nome del capo delle SS e della polizia del distretto di Varsavia) è diventata una prova dei crimini nazisti al processo di Norimberga. A dire il vero, l’immagine di cui ha scritto Rousseau, ha occupato un posto assai marginale: «Quanto alla fotografia del bambino, sebbene figurasse nell”album di Norimberga’, non viene presentata al tribunale. L’immagine non beneficia di nessun trattamento speciale. Fa parte di una serie di fotografie che accusano. Ma non è ancora la fotografia che accusa. Non ha ancora acquisito un’autonomia rispetto alle altre immagini dell’album Stroop. Ci si deve meravigliare? No, nella misura in cui nel 1945-46 l’album fotografico è appena stato recuperato dai vincitori tra una massa impressionante di documentazione di ogni natura. Per di più, e più sicuramente, lo sguardo che si posa su questo documento ancora non è stato educato, nel senso che non è stato condotto a identificare in questa immagine di un bambino arrestato a Varsavia nel 1943 la sintesi iconica, storica e memoriale, della eliminazione degli ebrei d’Europa» (p. 75, corsivo nel testo). Questo è un punto fondamentale. Gli anni dell’immediato dopoguerra soprattutto, e con una coda che è proseguita fino agli anni Sessanta almeno, sono stati gli anni in cui a dominare, per l’opinione pubblica come per gli storici, erano i resistenti al nazifascismo. Era il periodo in cui si curava soltanto la memoria degli eroi. «Una serie di chiavistelli mentali impediscono alla fotografia del bambino di Varsavia l’accesso allo statuto di icona che oggi gli viene riconosciuto in tutto il mondo occidentale» (p. 77). E’ stato studiato il silenzio che ha accompagnato, in Italia come in Francia ma un po’ ovunque, il ritorno degli ebrei deportati superstiti; silenzio provocato senza dubbio, oltre che da una volontà predominante di non ascoltare, di rimuovere quel passato accusatore, soprattutto dal fatto che l’attenzione era incentrata sul «culto della Resistenza». Lo spazio era riservato agli oppositori, non alle vittime. Il caso della rivolta di Varsavia era semmai in questo senso visto come una nobile eccezione: finalmente si poteva raccontare di ebrei che non erano andati come pecore nelle camere a gas. L’insofferenza verso gli ebrei vittime (passive) era particolarmente forte proprio nel mondo ebraico e raggiungeva il suo culmine proprio in Israele. Se i ribelli di Varsavia potevano essere paragonati ai sionisti che avevano combattuto in Palestina e più in generale con la vita stessa dello Stato israeliano, gli ebrei rimasti inermi, con la loro «mentalità da ghetto» potevano essere persino essere accusati per un comportamento disonorevole. Ciò che ancora mancava, in tutto l’Occidente, era il riconoscimento della specificità della persecuzione antisemita – così come ancora doveva affermarsi la distinzione, oggi banale, fra campi di concentramento e campi di sterminio.

«E il bambino? Ancora non compare… D’altra parte, come potrebbe un bambino rappresentare un insorto, un combattente? Dato che si tratta di illustrare la rivolta, il bambino è incapace di personificare l’eroe del ghetto di Varsavia. Per il momento… Chiaramente, la concorrenza degli eroi è ancora troppo forte, e impone alla fotografia del bambino una lunga assenza, particolarmente evidente durante i primi due decenni del dopoguerra» (p. 89). Con gli anni Sessanta – e volendo individuare una cesura, non possiamo che ricordare il 1961 con il processo Eichmann – le cose sono cambiate. Libri di storia, riviste, film (e poi fiction), mostre, opere d’arte, centri di documentazione: un vortice inesausto di iniziative che hanno permesso l’accumulazione di documenti e memorie, hanno iniziato a mettere al centro le vittime dello sterminio. La fotografia del bambino del ghetto ha iniziato il suo cammino di iconizzazione. Contemporaneamente, però, ha cominciato anche a cambiare di senso, a indebolirsi nel suo essere documento. E’ diventata sempre più irresistibilmente testimonianza della persecuzione, come anche di una idea più ampia di “resistenza”: «spazio stesso coperto dall’idea di resistenza si è notevolmente allargato: comprende d’ora in poi i piccoli contrabbandieri senza i quali molte famiglie rapidamente sarebbero state sopraffatte dalla fame; comprende anche i padri e le madri di famiglia, i figli e le figlie che, con piena cognizione di causa, hanno scelto di rimanere con le loro famiglie o con quello che ne restava, di sacrificare una ipotetica possibilità di sopravvivenza individuale per condividere la sorte dei loro cari»(p. 109).

Questo essere la rappresentazione potentissima (sempre meno storica, sempre più emotiva) della vittima, e di un bambino vittima, ha trasformato l’immagine di un simbolo atemporale, e dunque assai duttile, soprattutto per allestire, affiancandola ad altre immagini di vittime (altri bambini, altre guerre, altre violenze), paragoni più o meno forzati, più o meno strampalati, con altri contesti: dalla guerra del Vietnam con i crimini dei militari USA alla seconda intifada palestinese con le violenze israeliane, e così ancora oggi. Sicuramente, come nota Rousseau, è significativo il fatto per il quale fra anni Sessanta e Settanta si sia imposta con forza la coscienza del dramma della violenza sui minori: «E’ durante questi anni che nasce l’idea che il bambino è una persona che possiede dei diritti inalienabili, e questa presa di coscienza è accompagnata nella maggioranza dei paesi industrializzati da nuove politiche pubbliche destinate a proteggere i bambini e a aiutare le famiglie più svantaggiate» (p. 129).

In sintesi: quel bambino è diventato il simbolo della vittima innocente, ma anche sempre meno il simbolo delle vittime ebree del potere nazi. Più in generale, sono state appunto le vittime in quanto tali a divenire centrali nella storiografia e nel dibattito pubblico. Il bambino di Varsavia è in questo senso senza dubbio perfetto. Più cresceva la memoria della Shoah, la sua assoluta preminenza editoriale, didattica, cinematografica e così via, più quella fotografia riusciva a riassumere, esaltandolo, il messaggio che si voleva trasmettere: è molto importante che quel bambino del ghetto sia riuscito a imporsi anche sull’immagine di Anna Frank: quest’ultima è, nelle fotografie che abbiamo di lei, troppo poco vittima, troppo poco spaventata: «Le fotografie di Anna che si vedono generalmente sono quelle di una bambina sorridente, ben pettinata e ben vestita, con un piccolo orologio al polso, insomma di una bambina come le altre: le sue fotografie non contengono nessun indizio che le colleghi immediatamente al genocidio. Al contrario, il bambino del ghetto si imprime nelle nostre memorie perché è fissato in una posizione di vittima assoluta, alla mercé dei suoi carnefici e di cui ognuno può immaginare la sorte che gli sarà riservata una volta il fotografo delle SS si sarà stancato di scattare le sue immagini esotiche» (p. 135). Lo shock, l’emozione, il fissarsi nella memoria collettiva, sono tutte proprietà della fotografia di Varsavia.

Le considerazioni conclusive di Rousseau non sono incoraggianti: al di là di ogni giudizio (storiografico, politico, morale) sugli abusi della memoria e sulle strumentalizzazioni della Shoah, è fuori di dubbio che questa fotografia sia oggi causa (e sintomo) di confusione: «L’immagine del ghetto di Varsavia non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico: sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia; non informa più; erosa dagli usi distorti. L’immagine si è modificata, consumata» (p. 152). Un’immagine, creata per mostrare il successo nazista è diventata per Rousseau una menzogna, perché può essere usata per qualsiasi fine (e perfino in chiave antisemita), perché non è più oggetto di riflessione, ma soltanto di consumo: «A ogni sua esposizione è d’obbligo e autorizzata soltanto la compassione, una compassione troppo loquace e tuttavia muta, diventata un riflesso privo di riflessione, senza cultura, senza memoria, una sorta di rinuncia a decifrare il mondo in termini politici» (p. 152).

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ISSN:2037-0857