philosophy and social criticism

Il fantasma della sinistra

Aldo Bonomi

Un fantasma si aggira nella politica italiana, il fantasma della sinistra. Ma differentemente dallo spettro del comunismo marxiano questa volta porta con sé l’annuncio di un doloroso crepuscolo. Doloroso quanto prevedibile. Perché i segnali c’erano tutti: sia in campo sociale sia elettorale. Le stesse elezioni dell’aprile 2006 non solo avevano messo in luce il mancato sfondamento da parte del centro-sinistra, ma anche sul fronte della cosiddetta «sinistra radicale» avevano messo in luce come il buon risultato di allora lo si dovesse più alla crescita nelle regioni meridionali, mentre nelle cinture metropolitane del Nord e nelle tradizionali regioni rosse i voti già allora erano in calo. La «questione settentrionale» riemergeva puntualmente. Tuttavia, rimango convinto che le ragioni di una sconfitta epocale, come quella che ha espulso la sinistra dalla rappresentanza parlamentare, abbiano più a che fare con processi di lungo periodo che con i guasti dell’ultima esperienza governativa.

Lo sradicamento dai processi sociali ed economici e la perdita di connessione culturale e sentimentale rispetto alle grandi trasformazioni della nostra epoca rappresentano il nodo tutto preistituzionale da sciogliere. Che cosa è successo? La mia opinione è che le elezioni abbiano dato sanzione a una mutazione che travaglia l’identità della sinistra italiana nel suo insieme. Essa ha perso il controllo di due miti culturali potentissimi che ha avuto in modo sostanziale per quasi due secoli: il moderno e il popolare. Il moderno. La rappresentanza sociale e politica della sinistra era espressione di una società dai fini certi. Il Sol dell’Avvenire, il Palazzo d’Inverno, l’idea di rappresentare l’avanguardia organizzata di un movimento storico incessantemente proiettato a costruire il futuro, incardinavano l’idea stessa di sinistra dentro quella di moderno. Oggi il campo su cui la sinistra, soprattutto quella radicale, si esercita è sul piano economico e sociale con l’opposizione di marca «luddista» a un moderno percepito come un campo totalmente occupato dall’impresa e dalle sue logiche. La sinistra si oppone alla mercificazione dei beni comuni ereditati dalla tradizione o dalla natura, ma non riesce a progettare nuovi beni comuni (infrastrutture, diritti ecc.) che parlino di un progetto di ordine economico e sociale alternativo. Rifugiandosi invece in una sfera dei diritti etici e civili giocata spesso come sostituto funzionale dell’incapacità di rimettere a tema la questione sociale (da qui un’infatuazione per lo «zapaterismo»). Una linea che però finisce per suscitare reazioni conservatrici proprio nella base popolare tradizionale della sinistra, in certo qual modo incrementando il circolo vizioso dello sradicamento. È questo, infatti, il secondo corno del dilemma. È venuto meno quell’elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e (re)inventare il popolare, o nelle parole di Gramsci il nazional-popolare inteso come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e stato, tra comunità e rappresentanza. Questa capacità «popolare» era un’eredità storica peculiare della sinistra italiana. La cui identità politica profonda nasce prima nel territorio e quindi nella comunità e nel popolare.(…)

La mia impressione è che questi due elementi, prima il moderno e poi il popolare, sono stati progressivamente scippati e reinventati dal ritorno della destra a partire dagli anni ottanta e dopo la grande rottura del Sessantotto. Prima con il binomio Thatcher/Reagan poi con il populismo postindustriale dei Le Pen e arrivando in Italia fino al duo Bossi-Berlusconi e all’ideologia «protettiva» di Tremonti, la destra ha occupato proprio quell’elemento territoriale da cui originariamente era partita la parabola della sinistra italiana e che, anche dopo la fine della grande fabbrica, aveva provvisoriamente garantito la sua tenuta politica. Come è potuto avvenire? Rimango convinto che per comprendere le ragioni della sconfitta e per tentare di rimettere insieme i cocci di una «nuova sinistra», l’operazione da compiere sia di rimettere la politica e la rappresentanza «sui suoi piedi», ovvero riconquistare un nuovo sapere sociale su cosa è oggi il capitalismo, e la questione materiale, senza il quale semplicemente non c’è sinistra. In questo modo e non inseguendo le chimere postideologiche, può essere possibile comprendere il rancore sociale montante che fa da base culturale all’egemonia della destra. È la discontinuità rappresentata dalla globalizzazione il punto di partenza di ogni riflessione. Che deve comprendere almeno tre passaggi chiave: il territorio, la rappresentanza dei nuovi soggetti e quella che possiamo definire come la questione neoborghese. Partiamo dal territorio. Da anni sono convinto che viviamo dentro un salto di paradigma. Oggi è necessario ragionare non più soltanto in termini di conflitto tra capitale e lavoro, con lo stato come soggetto di redistribuzione del prodotto sociale. Invece, ritengo che sia necessario riflettere su una nuova forma del conflitto tra flussi e luoghi, con il territorio come dimensione intermedia in cui situare la ricostruzione dei processi di rappresentanza. Parlare di globalizzazione significa parlare di una serie di flussi produttivi, finanziari, umani. Sono flussi le transnazionali, le internet company, i corridoi europei (la Tav), e quelli che Tremonti definisce i padroni della tecnofinanza. E sono flussi anche le migrazioni.
Tuttavia, è necessaria la consapevolezza che mentre nel Novecento la rappresentanza sindacale e politica cresceva in una società caratterizzata dai mezzi scarsi e fini certi oggi siamo passati a una società dai mezzi abbondantissimi ma con fini totalmente incerti. Utilizzando le categorie di Ernesto De Martino, tutto ciò ha prodotto una moderna apocalisse culturale. Che significa fondamentalmente non riconoscersi più in ciò che c’era abituale. C’era abituale il quartiere, c’era abituale la fabbrica, la comunità di uguali e il conflitto. Tutte strutture radicate nel Dna profondo della sinistra che si sono depotenziate. (…)

È la metropolizzazione del territorio con le sue conseguenze in termini di figure sociali che va posta al centro. Di che cosa parliamo? Parliamo di uno spazio sociale e produttivo dove l’espansione della città si è fusa con un capitalismo molecolare di oltre cinquecentomila imprese con due milioni di addetti. Se si cerca la classe operaia si scopre che esiste ancora e vive e lavora proprio nei territori delle tante città infinite. E vota con il suo «padroncino» non solo per retaggio culturale, ma perché tende magari a condividerne ansie e speranze in rapporto a una dimensionecompetitiva ormai divenuta dimensione esistenziale diffusa. È una sorta di melting pot produttivo in cui si è prodotto un gigantesco processo di scomposizione e ricomposizione delle figure produttive.(…) Ritengo che le ideologie legate alla questione sociale siano ancora in piedi. Sul mercato delle culture politiche si possono distinguere almenoquattro ideologie o correnti di pensiero strutturate o invia di strutturazione. La prima ideologia è tutta interna al pensierodel mercato. Si presuppone che il capitalismo sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi. È una visione propria delle élite delle grandi transnazionali che sposta il potenziale conflitto tra shareholders e stakeholders (portatori di interesse) territoriali all’interno dell’impresa. Al centro vi è la figura dell’utente-cliente come dominus del mercato, attore autonomo dall’impresa capace di vincolarne l’azione minacciando (o attuando) strategie di uscita individuali non limitate alla valutazione della qualità dei prodotti, ma estese anche al rispetto da parte dell’impresa della sua sfera valoriale o degli interessi della società. È una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette class actions di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti. Una seconda ideologia, all’esatto opposto, è quella esemplificata dalla teoria della decrescita di Serge Latouche. Anche questa è un’ideologia potentissima, perché dà riferimenti culturali ai movimenti di conflitto delle società locali contro i processi di modernizzazione promossi dai grandi attori del capitalismo globale. È un’ideologia con cui confrontarsi. E quanto il sindacato si deve confrontare? Le difficoltà del sindacato torinese rispetto alla Tav sono lì a testimoniarlo. Terza ideologia, è quella della moltitudine come nuovo soggetto della trasformazione sociale, sostituto funzionale in tempi di globalizzazione dell’operaio-massa. La figura dell’Impero ne è il corrispondente dal punto di vista dei processi costituenti della rappresentanza. Altra ideologia è la rappresentazione del conflitto tra flussi e luoghi a partire dall’emergere della coscienza di luogo come nuovo elemento identitario sul quale imperniare i processi di costruzione della rappresentanza. Più un luogo è in grado di sviluppare, oltre alla coscienza di classe per tutelare i soggetti, anche la coscienza di luogo, più esso è in grado di rapportarsi ai flussi e negoziare il proprio cambiamento. Il sindacato dovrebbe essere uno dei soggetti. È vero, per esempio, che il termine «coscienza di luogo» ovviamente sussume molti dei problemi anche della decrescita, della qualità della vita, dell’ambientalismo. Su questo fronte il discrimine politico corre tra una coscienza di luogo orientata alla chiusura e una coscienza di luogo centrata sulla relazione con la dimensione dei processi di modernizzazione. È dentro questa ideologia emergente, radicata nei processi materiali, che si è sviluppata la parabola leghista con la sua capacità di accoppiare l’elemento identitario di difesa a quello della modernizzazione delle grandi infrastrutture divenute simbolo politico (Malpensa, il disegno delle utilities del Nord ecc.).

Le ideologie dunque esistono. Esse sono diverse dalle grandi narrazioni novecentesche, ma ancora potenti e in via di strutturazione. Semmai esiste, ed esiste soprattutto a sinistra, un problema di posizionamento rispetto a queste ideologie emergenti. (…) In conclusione, credo che la scommessa sia produrre meccanismi anche di potere oltre che ideologici, che consentano un processo di riterritorializzazione delle élite economiche fondato sull’idea, per dirla con il filosofo francese Lévinas, che l’identità non stia nel soggetto (e nella sua difesa) ma nella relazione con l’altro. Quale può essere il ruolo della sinistra dentro questa nuova dinamica? Assumere i flussi come unica dimensione rilevante? Cavalcare le propensioni alla chiusura del locale, secondo il modello del «sindacalismo di territorio» leghista? Penso invece che esista una terza possibilità: mettersi in mezzo tra flussi e luoghi assumendo il territorio come nuovo spazio d’azione intermedio e accompagnare le società locali nel «metabolizzare» culturalmente i cambiamenti; per dirla con uno slogan, «mediare i flussi per accompagnare i luoghi». Il nodo è costruire una società locale capace di agganciarsi al globale e aprire l’enclave che è dentro di noi al mondo. La sfida per il tessuto della rappresentanza e per la sinistra è «fare società» accompagnando questo processo di apertura e trovando forme organizzative adatte. Questo mi pare un obiettivo di fondo su cui varrebbe la pena di ragionare.

[da l’unità, 10 ottobre 2008]

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