philosophy and social criticism

Il giornalismo di Camus

"Albert Camus"

di Marco Dotti

Lo stile senza realtà

«Tutto quel che di fatto degrada la cultura, accorcia le strade che portano alla schiavitù». Chiacchiere inutili, miseri personalismi smerciati come fatti di rilevanza collettiva, lamentele di direttori di quotidiani: tutto. Albert Camus era, su questo punto, chiaro e intransigente, ma nell’articolo che scrisse per l’ultimo numero della rivista Caliban, fondata nel 1947 da Daniel Bernstein e Jean Daniel, si spinse ancora più in là: individuò nella critica della stampa a mezzo stampa e «in una società che tollera di essere distratta da un pugno di cinici saltimbanco, fregiati del nome di artisti», il pericoloso movimento di apertura a un orizzonte di nuove, indefinite e per ciò stesso potenzialmente più temibili schiavitù. Nel suo affondo, Camus non risparmiava colpi contro gli scrittori che – osservava – «se avessero la minima stima del proprio mestiere, si rifiuterebbero di scrivere dove capita», arrivando fino a suggerire loro di non scrivere più, piuttosto che farlo «costi quel che costi».

Avendo avuto parte attiva nella stampa clandestina degli anni neri del collaborazionismo e dell’occupazione nazista, e dunque conoscendo bene i meccanismi del più torvo mercimonio intellettuale, tracciava un parallelo con la nascente società dello spettacolo, e lo faceva con un po’ di retorica, comprensibile se calata nell’air du temps, ma mai ingenuamente. La società del secondo dopoguerra, infatti, era particolarmente abile nel disattivare, per mezzo di una caleidoscopica, narcisistica e autocompassionevole gratificazione dei sensi, ogni assunzione concreta di responsabilità.

Lo stile della realtà

Che cosa muove tanti scrittori – si chiedeva Camus – a scrivere, sempre e comunque? Un nuovo imperativo morale: la necessità di piacere. Ma se «bisogna piacere», per piacere sarà necessario comunque «piegarsi». L’autogratificazione comporta la flessibilità totale, e la flessibilità, prima che negli orari, nei modi e nelle forme del lavoro attiene a modi, tempi, disposizioni e correlate indisposizioni dell’animo. Tutto il contrario del mestiere, del lavoro artigiano a cui, in fin dei conti, Camus riconduceva la vita attiva della scrittura giornalistica, l’unica a cui, senza indugi, applicasse l’epigrafe altrimenti banalizzante di «letteratura dell’impegno».

Stile e lavoro, cultura e dimensione materiale della stessa: la scrittura giornalistica era un precipitato di stile nel lavoro, sollecitato da un richiamo della realtà, e per questo poteva dirsi «impegnata». A impegnarla erano le cose stesse, i fatti se si vuole. Ma occasioni e fatti erano simili a una pietra d’inciampo che, proprio come un ostacolo sempre mobile, doveva fornire l’occasione, il pretesto per scrivere e prendere parte, senza alibi. Quando incontrò per la prima volta André Bollier e il gruppo di lavoro di Combat – il giornale nato dal movimento di resistenza creato da Henri Frenay nel 1941 – Camus si presentò dichiarando di avere alle spalle un po’ di pratica giornalistica ma, soprattutto, «lavoro di impaginazione». Il lavoro di impaginazione era fondamentale in un giornale clandestino, come ricorda Jacqueline Lévi-Valensi nella sue nota di presentazione a Questa lotta vi riguarda (Bompiani, traduzione di Sergio Arecco, 2010) la raccolta delle corrispondenze scritte tra il 1944 e il 1947 per Combat. Fondamentale era la logistica, la capacità di intuire i problemi sul nascere, quella di ingegnarsi in soluzioni tecniche, ma anche la disponibilità a comportarsi come redattori precisi, puntuali, rigorosi. Combat, nel ’43, era redatto a Parigi, ma stampato clandestinamente a Lione. Il suo direttore era ricercato dalla Gestapo e non ci si poteva distrarre un attimo. Il 17 luglio del 1944, per esempio, la milizia fece irruzione nella stamperia di Lione, mentre si chiudeva il numero 58, l’ultimo stampato in clandestinità, uccidendo André Bollier, redattore, oltre che «partigiano», straordinariamente ostinato. Anche in tempi bui, e nonostante il fatto che ogni giorno immergesse le mani nella materia più vile – ricorderà Jean Grenier – Camus mantenne una visione straordinariamente «alta» del giornalismo, inteso come variante del lavoro artigiano, un fare – come ha scritto in giorni a noi più vicini Richard Sennett – nel cui processo sono contenuti pensiero e sentimento. Pazienza, silenzio, pudore, orgoglio per l’«oggetto» prodotto, ma soprattutto ostinazione: queste le qualità «artigiane» che, nell’Algeria della fine degli anni ’30, spinsero il venticinquenne Camus a profondere un impegno sempre maggiore nella militanza giornalistica. Le stesse qualità le avrebbe ritrovate nella redazione di Combat, dove lavorò come redattore capo, dal ’44 al ’47. Ma Combat non fu solo un giornale di resistenza. Accolse la sfida del «dopo Liberazione» e, lunedì 21 agosto, in una Parigi non ancora sgombra di nazisti, uscì dalla clandestinità. Il numero impresso sulla testata era il «59», la tiratura molto alta per l’epoca, gli obiettivi gli stessi indicati da Henri Frenay al momento della presentazione del primo numero: battersi (combat) contro «l’anestesia del popolo francese». L’etica giornalistica di Camus nacque da queste convergenze di tensioni, ideali e materiali, e dall’esigenza di opporsi al doppio polo di un’alienazione giocata tra contagio e anestesia, tra inflazione e saturazione di messaggi e, in fin dei conti, tra ambiguità e paure.Contrariamente a Raymond Aron, che dai suoi interventi e

dalle polemiche sulla stampa quotidiana ambiva a trarre sempre nuova autorevolezza – con la consueta e lucida perfidia Charles De Gaulle di lui arrivò a dire: «è professore a Le Figaro e giornalista al Collège de France». E Sartre, che aveva una visione strumentale della stampa, riteneva che per Camus il giornalismo non avesse mai rappresentato un «esilio» bensì un «regno», parole che compaiono in un titolo dello scrittore francese datato 1957. Nel 1938, quando Camus iniziò le prime collaborazioni in Algeria, ad attrarlo non fu solo la necessità di esprimersi in una forma adatta a incrociare la realtà esacerbata di un paese diviso tra colonizzati e ragion di Stato, ma anche, se non soprattutto, la «virtù artigiana» del lavoro in redazione. La virtù – avrebbe poi scritto nelle pagine dell’Uomo in rivolta – non può mai «scindersi dal reale, senza divenire principio di male», eppure al tempo stesso, e qui sta il paradosso, non può neppure «identificarsi assolutamente con il reale senza negare se stessa». Pur preso da questi due corni del dilemma, Camus non avrebbe ceduto mai al cinismo, affidandosi casomai all’inquietudine, sorta di doppio di quella «amarezza» tipica dei redattori che, dopo una giornata e una notte di lavoro, si sentono svuotati e in preda a una «coscienza sovraesposta al sentimento dell’effimero». Non c’è pensiero – secondo Camus – che possa esimersi dal passare per la cruna dell’ago della realtà, una realtà che, allora, non era certo meno drammatica o complessa di quanto lo sia oggi. In un bel profilo del Camus giornalista contenuto in Resistere all’aria del tempo (traduzione di Caterina Pastura, Mesogea, Messina 2009), Jean Daniel, ricorda come, arrivato negli anni ’30 a Parigi dall’Algeria, il futuro autore dello Straniero e vincitore del Nobel nel ’57, avesse stretto amicizia con un gruppo di tipografi che, dalla redazione di Paris-Soir, lo avrebbero accompagnato in tutte le avventure importanti della sua esistenza.

La carta non è il territorio

Un linotipista ricorderà come Camus amasse scendere ai piani bassi, sporcarsi con l’inchiostro del banco di composizione, controllare i caratteri. L’artigiano Lemaître, poi, ne ricorda il sorriso e l’atteggiamento di partecipazione al lavoro comune: «sapevamo che gli piaceva trovarsi davanti alle pagine, alle righe di piombo. Era innamorato. È vero che là dentro si trovava una specie di eccitazione: l’odore dell’inchiostro, della carta umida di stampa, ci piaceva sentirlo come il pellettiere ama sentire l’odore del cuoio. Camus stava più spesso al banco di composizione che in redazione». Anni dopo, congedandosi da Combat e preannunciandone la chiusura, Camus avrebbe ribadito, a chi rimproverava al giornale un sostanziale fallimento, che anche certe sconfitte possono rivelarsi alla lunga un successo. «Non è scomparso, Combat» – scriveva. Non è scomparso se – come documenta l’attualità sconcertante di alcuni articoli sulla stampa raccolti nel volume di Bompiani – il giornale può rappresentare ancora, nell’immaginario collettivo, «la cattiva coscienza di alcuni giornalisti.» E Camus continuava: «fra i milioni di lettori che hanno abbandonato la stampa francese, ci sarà chi lo ha fatto perché ha condiviso a lungo la nostra esigenza. Abbiamo fatto per due anni un giornale di un’indipendenza assoluta e non ha mai disonorato nessuno. Non chiedevo di meglio. Tutto, prima o poi, dà frutti. È una questione di scelta». Di scelta e di stile, anche nella fine. Stile che i tanti “nuovi”, solerti direttori di testata, nelle loro scelte e , soprattutto, nella loro inevitabile fine, evidentemente non conoscono.

[da il manifesto, 28 novembre 2010 ]

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