philosophy and social criticism

Il gran burattinaio del mercato

Christian Marazzi

Alan Greenspan, L’era della turbolenza, traduzione di Dade Fasic, Andrea Mazza, Cristina Volpi, Sperling & Kupfer, Milano 2007.

Le memorie di Alan Greenspan, il mitico e odiato ex-presidente della Federal Reserve, L’era della turbolenza , sono presentate al pubblico in settembre, il giorno prima della riunione della banca centrale americana nella quale il suo successore, Ben Bernanke deve decidere cosa fare per gestire la crisi dei prestiti ipotecari subprime, iniziata il 9 agosto. Sembra quasi che Greenspan voglia esortare la Fed a tagliare i tassi di interesse rapidamente e in modo aggressivo, come lui ha sempre fatto nei momenti di crisi finanziaria negli anni della sua presidenza, tra il 1987 e il 2006.
Ma la situazione è cambiata, dice Greenspan in un’intervista al Financial Times del 17 settembre: «Siamo in un periodo molto più difficile di quando ero io presidente. In quegli anni non eravamo preoccupati di una rinascita inflazionistica, ma ora bisogna esserlo. Occorre essere molto più prudenti nell’abbassare i tassi in risposta alle crisi». E infatti il titolo del suo libro avrebbe potuto essere L’era della disinflazione, perché il tema centrale di questo lavoro riguarda il modo in cui il capitalismo liberista dell’ultimo quarto di secolo è riuscito, tra euforia e paura, tra crescita e bolle speculative sempre più ricorrenti, a sconfiggere l’inflazione, a ridurre i tassi di interesse e a prosperare nel mondo.

Una guerra per il libero mercato


Greenspan non attribuisce a se, né al suo predecessore Paul Volker o ad altri banchieri centrali, il merito della vittoria sull’inflazione degli anni del fordismo e delle lotte operaie sul salario, ma alle forze intrinseche e impersonali del capitalismo, dall’integrazione economica globale, alla deregolamentazione dei mercati, alla rivoluzione tecnologica. Il supereroe di questa storia è il capitalismo, la «mano invisibile globale» di Adam Smith e la «distruzione creativa» di Joseph Schumpeter.

Eppure, questo libro non è un manuale di economia, semmai di economia politica. Greenspan parla della caduta del muro di Berlino come di un evento fondamentale nella definizione dello sviluppo economico mondiale. Parla dell’importanza dei fondamenti legali, istituzionali e culturali per la costruzione del nuovo capitalismo. Parla di conflitti, scontri, decisioni soggettive, strategie politiche elaborate col preciso obiettivo di sconfiggere le forze sociali e politiche che si oppongono al trionfo del capitalismo postfordista su scala globale. Non c’è nulla in questo libro di quell’oggettivismo del laissez faire capitalista come «forma ideale di organizzazione sociale». L’economia di Greenspan è assai più simile alla shock economy descritta da Naomi Klein, in cui la violenza delle crisi diventa il modo di trasformare il «politicamente impossibile» in «politicamente inevitabile», l’occasione per imporre il libero mercato in tutti gli angoli del globo.

Il modo stesso in cui è strutturato il libro rivela la schizofrenia che sta alla base di questa rappresentazione del capitalismo. I primi 11 capitoli sono autobiografici, gli altri 14 sono saggi sul funzionamento del capitalismo, il surriscaldamento globale, gli squilibri pericolosi della bilancia corrente e della crescita della spesa sociale, la stagnazione dei redditi dell’operaio medio americano come minaccia alla sostenibilità politica dei mercati deregolamentati. Nato nel 1926, prima della Grande Depressione, il piccolo Greenspan, che impara a memoria gli orari dei treni e i risultati del campionato di baseball, dà presto segni di leggero autismo, come si conviene a un futuro presidente della banca centrale statunitense. Poi, da grande, diventa un consulente d’affari di successo, lavora per la campagna di Nixon, fa parte dell’amministrazione Ford come «chief economic advisor» e lavora alla riforma della Sicurezza sociale, per poi entrare alla Fed, dove vi resterà come presidente per 18 anni. Ayn Rand, un’immigrata russa autrice di un romanzo anti-comunista, liberista ante litteram e personaggio fondamentale nella formazione filosofica di Greenspan, lo soprannominerà simpaticamente «il becchino».
Con stile chiaro, ben diverso dal Fedspeak, il linguaggio ambiguo e un po’ dislessico che lo rese celebre, Greenspan ricorda al lettore quanto importante sia stato il passaggio dall’iperinflazione degli anni Settanta alla disinflazione successiva, un passaggio in cui si consuma la sconfitta dell’operaio-massa grazie alle nuove forme dell’organizzazione aziendale e ai processi di finanziarizzazione dell’economia. L’attenzione ai micro-dati economici, maturata negli anni passati a lavorare come consulente per l’industria dell’acciaio e dell’automobile, permetterà a Greenspan di cogliere il decollo della produttività a metà degli anni Novanta e ad orientare di conseguenza la politica monetaria, indubbiamente il più grande risultato della sua carriera. «La chiave di successo della Townsend-Greenspan era la nostra abilità a tradurre le analisi economiche in una forma che gli imprenditori potevano utilizzare per prendere le loro decisioni».


Le inevitabili bolle


La visione schumpeteriana dello sviluppo economico per salti innovativi, fondata sulla circolazione just in time dell’informazione, si consolida nel 1958, durante lo sciopero nazionale durato quattro mesi che blocca la grande industria dell’acciaio, costringendo l’economia americana ad aprirsi alle importazioni dalla Germania e dal Giappone e a innovare prodotti e processi produttivi.
Come ovvio, il tema che più ricorre è quello delle bolle finanziarie: titoli azionari negli anni Novanta, beni immobiliari nei primi anni del 2000. Le stesse forze che abbassano l’inflazione spingono simultaneamente verso l’alto i prezzi degli attivi finanziari, fornendo i guadagni iniziali che in seguito incoraggiano l’attività speculativa. A questo proposito Greenspan rivela quanto tenacemente abbia cercato di deflazionare entrambe le bolle speculative con rapidi aumenti dei tassi d’interesse. Rivela altresì che, una volta visti i fallimenti di questi tentativi, si è ormai convinto che una banca centrale non deve tentare di far scoppiare una bolla speculativa. Semmai, la Fed deve contribuire a fare pulizia dopo l’esplosione della bolla, evitando di contribuire al rilancio di un’altra bolla con riduzioni troppo rapide dei tassi. Il che significa che per Greenspan le bolle sono inevitabili («Gli esseri umani non possono evitarle… Non possono imparare») e l’unica cosa che resta da fare è mandare in galera i criminali della finanza, come quelli che hanno spinto fino all’eccesso la bolla immobiliare.


Salari, prezzi e profitto


Per il resto, Greenspan elogia Bill Clinton e il suo sorprendente risultato, quello di essere stato l’unico Presidente a portare in pareggio e poi in avanzo il bilancio federale grazie alle tasse sui capital gains, cosa che scatenò gli appetiti fiscali dei repubblicani, che con l’aumento del deficit causato dalla guerra avrebbero meritato di essere sconfitti alle elezioni del 2006. Qua e là si percepisce un senso di malaise, quasi che Greenspan non riesca a capacitarsi del fatto che, malgrado tutti i successi dell’economia di mercato, non si sia ancora riscoperto quell’ottimismo di cui trasudano le sue memorie. Le stesse forze che in passato hanno sconfitto l’inflazione, scrive Greenspan, stanno generando una sorta di mostro, un nuovo e reale rischio di inflazione, che lui si azzarda addirittura a stimare attorno al 4.5% da qui al 2030, un tasso medio simile a quello tra il 1939 e il 1989. E dice, concludendo, che la banca centrale americana non sarà in grado di prevenire il ritorno dell’inflazione, se non con la forza politica del Governo e della Nazione. Di fatto, Greenspan ci parla di un nuovo ciclo di lotte e di antagonismo. Per questo auspica una rapida «normalizzazione del rapporto tra salari e profitti», pena la delegittimazione del libero mercato.

[da il manifesto, 8 dicembre 2007]