Il mito don Milani
di Francesco Paolella
Nota su: L. Cerrocchi, La scuola di Barbiana. Un’esperienza di pedagogia popolare tre teorie e prassi educative, Adda editore, Bari 2012; P. Levrero, L’ebreo don Milani, Il melangolo, Genova 2013.
Ciò che don Lorenzo Milani ha creato e scritto, come prete, come intellettuale e come educatore, ne ha fatto senza dubbio uno dei “miti” della cultura italiana negli anni della contestazione e della “stagione dei movimenti”. La Lettera a una professoressa (1967) poi è divenuta un vero e proprio manifesto generazionale, ed è stato addirittura considerato come il manifesto stesso del ’68 italiano. Il discorso nato nella scuola di Barbiana contro la cultura ufficiale, contro una istruzione pubblica considerata inadeguata e ingiusta, contro la “strage dei poveri”, abbandonati dalle scuole di Stato e e poi condannati agli esami: tutto questo rinviava a una certa idea di scuola e di educazione, che fa senza dubbio collocare l’esperienza di don Milani nell’ambito delle pedagogie popolari e, per certi versi, libertarie.
Ma don Milani è stato anzitutto un prete, un uomo ricco che ha scelto di diventare prete e, perché prete, di essere anche un maestro, un educatore. I due ruoli sono indistinguibili nella sua vita. Un prete che, nell’Italia del centrismo, della ricostruzione e poi del boom economico, poteva sembrare persino “eversivo”. Ma è stato proprio per liberarsi della vita e della cultura borghesi, che don Milani ha scelto il seminario e di vivere, povero, dalla parte dei poveri, della loro emancipazione, attraverso l’educazione. Così scriveva ad esempio in Esperienze pastorali (1958): dal “dislivello culturale tra classe e classe discende la necessità di ordinare le nostre scuole parrocchiali con criteri rigidamente classisti. A noi non interessa tanto di colmare l’abisso di ignoranza, quanto l’abisso di differenza. Se aprissimo le nostre scuole, conferenze, biblioteche anche ai borghesi verrebbe dunque a cadere lo scopo stesso del nostro lavoro. Si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni gratuite di minestra?” (p. 220). D’altra parte, non poteva esservi educazione religiosa – che per don Milani era tutt’altra cosa che “la dottrina” – senza una contestuale educazione civile.
Tenere assieme uguaglianza e differenze, responsabilità sociale e libertà individuale: questo in sintesi il progetto milaniano, così come anche il recente volume di Laura Cerrocchi (La scuola di Barbiana) descrive, collocandolo nel più ampio contesto delle pedagogie sociali del Novecento. Vicino per certi versi ad aspetti propri di una prospettiva marxista, don Milani ha cercato di creare, prima a San Donato e poi a Barbiana, di creare una scuola che non fosse tanto un luogo di apprendimento, ma di auto-formazione e di condivisione. Al centro, una vera e propria pedagogia della parola (e della scrittura): l’impegno per permettere ai poveri, agli analfabeti, intimiditi dal loro non sapere, di prendere finalmente la parola, prendendo coscienza di ciò che essi avevano in loro e di ciò che era stato loro tolto. L’esperienza di Barbiana è stata realmente unica, e non ripetibile; non è nata da teorie e astrazioni, ma dai bisogni delle persone di quel territorio, in quel momento storico.
La comunità voluta da don Milani, la formazione continua e reciproca, non erano tanto il presupposto, ma il fine di quel lavoro condiviso. Barbiana era anche una “denuncia vivente” di ciò che la scuola pubblica non sapeva offrire: era la prova delle insufficienze del debole egualitarismo repubblicano: “Barbiana non era una scuola di preparazione alla vita sociale, bensì un microcosmo di vita sociale. L’organizzazione educativa scelta e/o che la reggeva – quale forma di sostegno e di sfida – non era solo un mezzo. Essa era prima di tutto un fine, se non nel senso che fine e mezzo coincidevano” (p. 77). Giustamente Laura Cerrocchi scrive di una comunità autoeducante, e cooperante. Una comunità aperta a tutti, spazio liberato dai rigori della selezione e delle ideologie delle attitudini e dei talenti personali. Una scuola come luogo di emancipazione personale e collettiva, fondata sull’idea della modificabilità umana.
La lettura e la scrittura collettive, la scelta di organizzarsi in pluriclassi, e soprattutto la scelta della disciplina, permettevano di puntare all’autogoverno: “in un tempo di fervide spinte descolarizzatrici (che interpretavano l’indisciplina cognitiva e sociale come rivoluzionaria), don Lorenzo Milani, in un’impresa pedagogica che faceva del dissenso un perno per la ricostruzione, propose una controscuola di disciplina” (p. 85).
Una scuola per tutti, superamento pratico dell’individualismo: una scuola laica, rigorosamente aconfessionale, dialogica, contro i pericoli di ogni colonialismo ideologico” (religioso come politico). Le differenze – si sosteneva – esistono ed esisteranno sempre: per questo, da una parte occorre vincere il rischio dell’omologazione e delle mode; dall’altra, evitare che le diversità, le mancanze, i ritardi diventino un deficit cronico: “Don Lorenzo Milani era consapevole che non si sarebbe mai riusciti a eliminare le classi sociali: sarebbero sempre esistiti il ricco e il povero, il padrone e il servo (contadino o operaio), il borghese e il proletario. Si trattava, però, di rendere anche il povero e il servo, contadino o operaio, più uomo. Si sarebbe, cioè, potuto e dovuto ridurre il divario culturale e umano che li separava e giungere ad una consapevolezza e ad una volontà tali da evitare di esasperare e cronicizzare gli status (biologici, psicologici, sociali e culturali)” (p. 66). In altri termini, non si tratta semplicemente di dare a tutti una opportunità, quanto piuttosto lavorare per il successo scolastico di ciascuno. Per fare questo, per riparare per quanto possibile al torto subito dai poveri, non si poteva perdere altro tempo: nessuna ricreazione a Barbiana, scuola a tempo pieno, tutto il giorno, tutti i giorni. Come dicevamo, tutto l’impegno di don Milani è stato dedicato alla parola, alla fiducia nelle parole. In questo senso, don Milani – da uomo convertito e rimasto fedele per tutta la vita alla chiesa e che ha trovato nella propria fede il fondamento del proprio impegno pedagogico – ha voluto e saputo mettere in pratica anche le proprie radici ebraiche. Questo è il tema al centro del bel volume scritto da Paolo Levrero (L’ebreo don Milani): “La critica milaniana, anche quella storiograficamente più avvertita non possedendo specifiche documentazioni al riguardo ha per gran parte trascurato questa appartenenza [all’ebraismo]. Vale a dire che le biografie di Lorenzo Milani non entrano se non raramente e in modo epifenomenico nelle faglie profonde della sua origine ebraica, ma è proprio quella sua unicità di bambino che lasciava trasparire soltanto dei pallidi segni delle tracce familiari e sociali dell’ebraismo milaniano a indurre non pochi interrogativi” (p. 23). Che cosa di ebraico è nell’esperienza di don Milani come prete e come educatore? Don Milani si definiva un “mezzo ebreo” e ha cercato sempre di rimanere il più possibile vicino alla propria origine – ad esempio studiando la lingua ebraica negli anni Cinquanta. Per Levrero si può parlare di un ebraismo a tratti latente, nascosto, eppure ben riconoscibile. La famiglia Milani-Weiss, liberale, colta, laica, per non dire anticlericale, senza dubbio non ha imposto al giovane Lorenzo quella che potremmo definire “educazione ebraica”. Eppure, è stato proprio il sacerdote fiorentino a riconoscere nella sua idea di scuola come spazio “sacro” la manifestazione di una ascendenza ebraica (culturale, più che religiosa in senso stretto). In questo senso, don Milani è stato un “uomo della Torah”: “Don Lorenzo Milani è appunto un uomo della Torah quando pensa e organizza una scuola intesa come comunità educativa, che a San Donato e a Barbiana diviene città (di Dio) educante e città degli uomini (educati)” (p. 61).
La scuola è il luogo in cui ci si impossessa delle parole, in cui il conflitto può emergere, e il dialogo e la mediazione divenire possibili.
A Barbiana il maestro, laicamente, deve suscitare la capacità di interpretare, uno studio al servizio della verità (una verità sempre scomoda, severa). “Quella scuola diventa una civiltà del libro e non piuttosto un posto dove interrogare, misurare e valutare pseudo-saperi mandati a memoria. Il maestro si dispone nel solco della parola poiché sa di dover educare all’ascolto, affinché ciascuno sia posto in un rapporto dinamico con gli altri. Ma ascoltare significa interpretare, ossia offrire senso all’altrui discorso conferendo significato ai linguaggi con cui l’uomo parla di sé, del mondo e di Dio” (p. 91).
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tysm literary review, Vol 6, No. 8, September 2013
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