IL PADRE DI AGASSI, I SILENZI DI FEDERER E LE DEPRESSIONI DI MCENROE
di Giulia Zoppi
Nel giro di un anno e poco più sono usciti in Italia tre libri dedicati a tre grandi astri del tennis. Il primo Open, La mia storia (Einaudi) è risultato il romanzo rivelazione del 2012, nel senso che nessuno si aspettava che il libro più bello in circolazione potesse essere la biografia del tennista Andre Agassi. Il secondo, arrivato in Italia in estate, è la risposta del genio e sregolatezza John McEnroe al rivale più giovane Andre e si annovera nel genere della biografia al pari del primo, ma non ne uguaglia la riuscita (John Mc Enroe, Non puoi dire sul serio, Piemme). Il terzo ed ultimo è un breve ma incisivo saggio scritto dal filosofo francese André Scala, I silenzi di Federer, uscito per i tipi di ObarraO e dedicato al tennista che ha superato ogni record di risultati e di stile, lo svizzero Roger Federer. Se i primi due sono opere scritte con l’ausilio, magari determinante, di scrittori e giornalisti che hanno rielaborato racconti, ricordi e testimonianze (ho preferito definirli biografie che autobiografie per questa ragione), il terzo si pone nel solco della tradizione francese del saggio dedicato allo sport e ai suoi miti, declinandone fenomenologia e prassi. Ovvero, fenomeno e incidenza social-culturale dello stesso. In Francia un saggio dedicato ad un campione sportivo non solo non rappresenta un unicum, ma è una consuetudine, dal momento che al tennis come al ciclismo, sono stati dedicati studi ed approfondimenti da parte di scrittori e saggisti, a dimostrazione del fatto che non si vive di solo calcio e che si può affrontate una disciplina sportiva con una competenza che oltrepassa la superficialità della cronaca, creando un vero e proprio genere letterario. Entrambi i libri di Agassi e Mc Enroe sono un vero godimento per chi legge (a maggior ragione se è appassionato e contemporaneamente giocatore) ma anche una sorta di rivelazione, perché il tennis dei campioni è un gioco appassionante e coinvolgente, ma ciò che nasconde è solitudine, frustrazione e talvolta angoscia e per noi che amiamo questo sport come coloro che lo hanno portato nel Pantheon degli immortali, rappresenta l’uscita dall’età dell’innocenza quando descrive i retroscena di carriere fulminanti e spesso all’apice, dietro alle quali si celano esperienze difficili, infanzie sofferte, adolescenze bruciate. Il periodo che ha visto questo sport al top della sua popolarità è oramai alle spalle. Seppur ogni generazione e ogni decade abbia avuto i suoi campioni, nessuna ha eguagliato la spettacolarità e la fama degli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e la fine dei Novanta del secolo scorso. Un grande come Ilie Nastase, campione rumeno e indimenticato tennista, uomo ironico dalla prossemica paradossale e dai comportamenti assai originali, era alla fine degli anni Settanta insieme al grande Arthur Ashe, uno dei campioni del momento (non faccio questi due nomi a caso, i due sono stati attori di una scena indimenticabile durante un match) ma già allora si aggirava tra i campi il fortissimo ed insopportabile giocatore Jimmy “Jimbo” Connors che in quel periodo avrebbe incrociato John Patrick McEnroe ancora adolescente ma già campioncino in erba, durante un torneo Usa, nonché il piccolo Andre, raccattapalle e giocatore sin dall’infanzia, vessato da un padre maniaco che lo costringe a battere 2500 palline al giorno, senza concedergli svago, divertimento, sonno e felicità.
Open
Andre è tennista sin dalla nascita, non ha scampo e non ha deciso. Il padre, un iraniano migrato negli States, ex pugile senza fama, ha tre figli ma decide che sia lui il predestinato e lo cresce nella certezza che diventerà un numero Uno. Nessuna previsione sbagliata, Agassi sarà uno dei campioni di sempre, ma a differenza degli altri tennisti a lui contemporanei, precedenti e successivi, metterà per iscritto e per sempre il suo sport-ossessione sullo stesso piano della vita. Un percorso ad ostacoli, un meraviglioso viaggio (Open è un libro stupefacente per la ricchezza dei temi, la sincerità dei suoi dettagli e l’intensità dei momenti che lo attraversano, dall’horror alla fiaba, in un continuum senza tregua) nella disperazione del suo essere bambino, nel diventare un adolescente sulla cui sessualità è lui stesso in dubbio (fragilissimo Andre, si trucca le labbra e le ciglia, si decolora la chioma, gioca con la sua immagine senza sostanza), fino a diventare un uomo che cerca negli altri il suo posto e intanto è obbligato a dormire per terra a causa dei dolori articolari che lo opprimono, cercando di domare con una parrucca la sua ossessione per la perdita dei capelli, a causa di uno stress permanente che lo ha reso un uomo di cristallo: una specie di bambola incapace di decidere alcunché, ma sulla cui pelle si scontrano i suoi avversari di sempre. Sampras, per esempio. Vive a Las Vegas Andre e quella città desertica è ancora oggi la sua città. Quando è ancora un bambino, abita in una piccola casa vicina ad un circolo del tennis con la famiglia. Andre è l’ultimo di tre fratelli, anche il primogenito gioca a tennis ma è a lui che il padre dedica il suo tempo libero e lo sottopone ad un allenamento continuo, crescendolo con l’idea che nulla lo avrebbe potuto distogliere dall’obiettivo di diventare un grande campione e questo è quello che diventerà da lì a qualche decennio. Un vero campione pieno di ferite e di insospettabile sensibilità.
Nessun campione di fama mondiale però, e in questo Agassi si differenzia da tutti, odia lo sport che pratica, lo stesso sport che gli ha dà fama, ricchezza, donne, avventure e lo porta nel mito. Andre odia il tennis e intorno a questo sentimento paradossale e contraddittorio, costruisce la sua infanzia, modula la sua adolescenza, si appropria della maturità. Tra un passaggio e l’altro però, come racconta in Open, il suo percorso si fa sempre più avventuroso, oscuro e sofferto, restituendo al lettore pagine di meravigliosa vitalità in cui il disagio e il dubbio infrangono il sogno del vincitore e parlano di qualcuno che predestinato, cerca attraverso la vittoria di assuefarsi e dimenticare l’andamento della sua vita subìta senza nessuna gioia.
Non puoi dire sul serio
La storia di “Super Brat” invece, ovvero del talentuoso e grandissimo tennista John Patrick McEnroe, coadiuvata dalla scrittura incisiva ma non smagliante del giornalista James Kaplan, è altrettanto avventurosa e ricca, ma non ha l’impronta tragica di quella di Agassi, quanto l’oscillazione dei grandi campioni: star internazionali che nascono con un certo talento, lo affinano grazie alle loro famiglie che lo auspicano senza censure, e all’apice del successo, così come nelle favole, cadono. A volte per sempre, come il mito del tennis mondiale Bjorn Borg, eterno rivale di John, da anni sparito dai campi, o l’affascinante e simpatico Vitas Gerulaitis, deceduto dopo un festino per aver goduto oltre misura un’esistenza di trionfi, denari e droga. Sex, drugs and rock ‘n roll…
John, come Andre e come tutte le altre stelle del tennis, comincia a tirare le prime palle ancora bambino. Non ha alle spalle una madre tennista come Ivan Lendl, il giovane cecoslovacco dal volto triste, che viene legato alla staccionata del circolo tennistico per intere giornate per darle così modo di allenarsi, ma due genitori motivati a tirarne fuori il meglio. Ci riusciranno.
Presto il giovane americano riesce a farsi conoscere sia per lo splendido gesto tennistico, che per il carattere molto suscettibile, a cui deve il soprannome. Superati e vinti molti dei tornei entro i confini degli Stati Uniti, il ragazzo si avvia a scalare una carriera di successi che presto lo catapultano ai primi posti della classifica ATP dove resterà per molti (e indimenticabili) anni.
La vicenda sportiva di Mc Enroe è scritta negli annali del tennis, i suoi successi e i suoi colpi in rete, un “serve and volley” da numero uno restano scolpiti nella memoria di tutti eppure, chi direbbe che la peste del tennis avrebbe sofferto di crisi depressive più di una volta nella sua vita di campione?
La prima vera crisi arriva dopo l’abbandono di Borg, eterno rivale adorato come un dio finnico (sia John che Andre parlano di Borg come di un’apparizione, li colpisce la bellezza, lo sguardo concentrato e la riservatezza glaciale, nonché il biondo dei suoi capelli lunghi) e temuto, allo stesso tempo.
L’uomo che aveva fatto di John un campione del mondo, lascia i campi, si ritira, ma senza di lui il Nostro si sente solo, soffre di malinconia, perde la concentrazione.
La seconda crisi invece arriva dopo la separazione dall’amatissima prima moglie Tatum O’Neill, attrice di un solo film rimasto nella storia, Paper Moon, ed eterna adolescente alle prese con la droga e un senso di profonda solitudine ereditata dal padre Ryan, attore di cinema manesco e dedito all’alcol, e ad una madre assente.
Nonostante qualche periodo buio, John risale la china e si riprende. Oggi resta uno dei doppisti seniores più forte di sempre, uno storico cronista radiofonico ed un apprezzato gallerista d’arte, nonché uno dei migliori giocatori di tutti i tempi.
Se questa biografia ha un merito sopra gli altri non è solo quello di aver raccontato in prima persona la vicenda umana e sportiva di un super agonista, i match, le paure, le sconfitte e i passi falsi, quanto la delicata psicologia di un personaggio che ha dato un’immagine falsata o quantomeno non del tutto veritiera di se stesso.
Mc Enroe era sì capace di sbraitare, gettare racchette e imprecare contro i giudici di linea (la celebre espressione: “You cannot be serious!” che dà il titolo a questo testo era per John una specie di mantra contro il parere dei giudici contro cui si scagliava spesso e volentieri) , ma era ed è anche un uomo sensibile e gentile, un osservatore attento e un uomo affidabile. Rispettoso degli altri, leale, sincero e molto acuto.
Pochi sono diventati vere “icone” dello sport, immortali e intoccabili, McEnroe ci è riuscito, eppure continua ad esserci, gioca, si appassiona e gioisce in giro per tornei. Probabilmente morirà a bordo campo (il più tardi possibile, speriamo).
I silenzi di Federer
L’agile libello del filosofo francese André Scala dedicato allo svizzero Roger Federer ne decanta le doti e sorvola sulla biografia.
Inutile ricordare che l’attuale campione, da qualche anno ai vertici del circuito ATP è motivo di discussione tra i cultori della materia. Roger Federer ha ereditato un gesto divino e aereo, silenzioso, implacabile, sorprendentemente geometrico. Lunghe pagine ha speso in suo favore il compianto atleta del romanzo americano David Foster Wallace, tennista e scrittore romantico.
Federer appartiene al genere apollineo, direbbe Nietzsche. I suoi “gesti bianchi” (cfr. Gianni Clerici) rasentano la perfezione, eppure è un campione silenzioso, niente a che vedere con le star fin qui citate (uomini la cui vita è stata fagocitata dal business e dallo spettacolo).
Se non fosse che intorno a lui si muovono denari, sponsor e campioni più esuberanti (“Rafa” Nadal e Djokovic per dire il numero uno e due al mondo del ranking mondiale), non lo sentiremmo nemmeno parlare.
Di recente si è esibito con il leggendario Rod Laver, il tennista australiano che annovera 200 titoli mondiali.
L’ottuagenario campione, vestito con abiti originali del suo periodo, ha scambiato solo qualche palla con lo svizzero e ha terminato sussurrando che non riusciva più ad incassare colpi così potenti.
Federer dal canto suo, ha sorriso timidamente e si è detto onorato. Due fenomeni a confronto che, ironia della sorte, si assomigliano in tutto.
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tysm literary review, Vol 7, No. 11, January 2014
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ISSN:2037-0857