Il prete e il canarino
Federico Tozzi
Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m’agguantava l’anima come uno per la giubba. C’era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l’intingolo e l’incenso o la cera bruciata. C’era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m’apriva l’uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita!
Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c’era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell’uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l’osservavo sempre, quando il prete m’interrogava, prima di rispondere!
Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe.