Il risolutore: la vita in rosso e in nero
di Francesco Paolella
Pier Paolo Giannubilo, Il risolutore, Rizzoli, Milano, 2019, 493 pagine
Più che a Limonov, questa biografia di Gian Ruggero Manzoni in certi momenti pare somigliare soprattutto a Forrest Gump. Il protagonista, per una scelta sfortunata (il servizio militare riparatore al posto del carcere), finisce infatti per precipitare nell’inferno dell’intelligence, dei servizi segreti militari, trasformandosi in un sicario e in un testimone di violenze atroci, riuscendo così a essere presente laddove la storia recente dell’Occidente ha conosciuto momenti cruciali. Manzoni appare qui anzitutto come una spia che odia l’anonimato, che non tollera di restare nell’ombra. D’altra parte, questo lungo romanzo non è una confessione vera e propria: al di là dell’attendibilità delle singole vicende che vi sono raccontate, dei delitti compiuti e degli errori commessi, esso appare come una aperta rivendicazione, anche se indubbiamente dolorosa, di un destino dove tante esistenze diverse si sono fuse in una sola biografia.
Manzoni si trasforma via via in uno studente politicizzato del DAMS, in un poeta, in un artista, in un piazzista pubblicitario, in un gestore di locali notturni, ma anche in un risolutore, in un killer sempre in attesa di una chiamata per una nuova missione. Questa storia è piena di vita (l’arte, le donne, l’alcol) ma è anche, inevitabilmente, piena di malattia (le ferite subite durante le operazioni, e tutti gli effetti “collaterali”, sul corpo e sulla psiche, che si moltiplicano dopo ogni ritorno) e di morte (gli omicidi su commissione, gli orrori delle guerre, dal Libano alla Bosnia). Non resta che un uomo consumato dalla propria esistenza, che sembra condannato al silenzio e a una feroce solitudine e che, allo stesso tempo, ha deciso di esporre prima di tutto sul proprio corpo, con dei tatuaggi, la memoria assillante di quanto compiuto e subito. Per certi versi, questo libro può ricordare le memorie di un soldato che abbia fatto la guerra, logorandosi per anni in una trincea, convivendo con la propria disperazione e, anzi, sfruttandola creativamente.
Il risolutore è poi un libro indubbiamente ansiogeno, perché riesce a farci vivere nella prospettiva di un uomo condannato a fare il male e a doverne subire le conseguenze senza rimedio. Gli attacchi di panico, l’abuso di sostanze, la paranoia, sono le catene che imprigionano una specie di vampiro, che ha sofferto ma che, allo stesso tempo,ha anche amato il demone che lo ha posseduto.
Tutto questo si condensa in una grande provocazione, dove sempre però riemerge la voce di un ragazzo fragile, che da bambino, vivendo in un piccolo paese romagnolo, ha dovuto imparare ben presto a subire lo scherno e le umiliazioni da parte dei coetanei e che poi, da matricola, si è trovato catapultato nel grande teatro del Settantasette bolognese e che, più in generale, si è potuto legare ai protagonisti di una stagione, ben presto tramontata, di artisti e intellettuali (Tondelli, Pazienza, Antoni).
Come dicevamo all’inizio, Manzoni si è trovato, malgré soi, nel bel mezzo della politica del Novecento, passando dalla militanza anarco-comunista a posizioni ultraconservatrici e trovando, forse, una sistemazione più stabile solo in una specie di palingenesi religiosa. C’è molta spiritualità in questo libro, senza dubbio, anche nelle parti più crude e urticanti. In questo senso, è possibile parlare di confessione, non come tradizionale penitenza, ma, appunto, come condivisione di un dolore non più contenibile e che, invece di placarsi, non fa che crescere. Sembra quasi che il risolutore Manzoni sia stato contaminato dalle radiazioni della violenza, i cui effetti nocivi non possono che aumentare col passare del tempo.