philosophy and social criticism

Impossibilità e confini del linguaggio

Marco Dotti

È davvero possibile dimenticare suoni, articolazioni o persino una intera lingua? Esistono particolari stati o condizioni in cui, tracce all’apparenza perdute di quei suoni e di quella lingua, possono riattivarsi e tornare in vita? Sono solo alcune delle questioni al centro di Echolalias.On the forgetting of language (Zone Books, New York 2005; traduzione di Andrea Cavazzini: Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue , Quodlibet, Macerata 2007), l’affascinante saggio del comparatista Daniel Heller-Roazen pubblicato in Italia dalle edizioni Quodlibet. Nel suo lavoro, proseguito anche nel recente The Inner Touch. Archaeology of a sensation (Zone Books, New York 2007), Heller-Roazen – che insegna all’università di Princeton – traccia un’affascinante mappa di queste tracce, nella letteratura e nelle “mitologie” dell’epoca moderna e contemporanea, da Canetti a Poe, da Spinoza a Melville, da Jakobson a Foucault. Lo incontriamo a Bellinzona, in occasione di Babel, il Festival di letteratura e traduzione coordinato da Vanni Bianconi. Per l’occasione, ha accettato di rispondere ad alcune domande.

Sulla questione aperta dalla cosiddetta «lallazione infantile», Roman Jakobson ha scritto pagine fondamentali, in particolare nel suo lavoro redatto tra il 1939 e il ’41, durante gli anni dell’esilio in Svezia e Novergia, dedicato a Linguaggio infantile, afasia e leggi generali della struttura fonetica. Per Jakobson un bambino riesce facilmente accumulare un gran numero di articolazioni che nessuna lingua particolare può possedere. Lei parte proprio dalle considerazioni di Jakobson per cercare di capire come sia possibile “dimenticare” questa capacità, nel passaggio dalla fase prelinguistica a quella di apprendimento di una lingua…

Il lavoro sulle afasie mi ha, in effetti, fornito un punto di partenza. Contiene una memorabile evocazione di ciò che Jakobson chiama «l’apice del balbettio»: uno stato – non poco ammirato dal grande linguista – in cui non si può porre alcun limite alle capacità fonatorie del borbottio infantile. In questo stato, per quanto riguarda l’articolazione, gli “infanti” sono capaci di tutto. Pur non parlando ancora, possono già produrre qualsiasi suono di una qualsiasi lingua umana, il tutto senza il minimo sforzo. Tanto più sorprendente, nota Jakobson, è il fatto che, “quando il bambino passa dallo stadio prelinguistico all’acquisizione delle prime parole, perde interamente la sua capacità di produrre dei suoni”. Non solo non può più produrre quei suoni contenuti nel suo balbettio che non servono nella sua nuova lingua, ma molti dei suoni comuni al balbettio infantile e al linguaggio adulto spariscano anch’essi, ora, dal repertorio linguistico dell’infante. È solo a questo punto può dirsi veramente iniziata l’acquisizione di una singola lingua.Il mio libro, Ecolalie, inizia con alcune riflessioni su questo evento, che benché contenuto in uno studio come quello di Jakobson appartenente più alto livello scientifico, costituisce una sorta di mito dell’origine del linguaggio. Come ogni mito, anche questo suscita delle domande. Che cosa succede ai molteici suoni un tempo emessi facilmente dall’infante? E che cosa ne è stato dell’abilità -che possedeva prima di apprendere i suoni di una singola lingua, di produrre quelli contenuti in tutte le lingue? È come se l’acquisizione del linguaggio fosse possibile solo attraverso un atto d’oblio, una sorta di amnesia linguistica infantile (o amnesia fonica, dato che ciò che l’infante sembra dimenticare non è il linguaggio, ma una capacità apparentemente infinita di articolazione). Forse l’infante deve dimenticare le infinite serie di suoni che poteva un tempo produrre «all’apice del balbettio», per padroneggiare il sistema finito di consonanti e vocali che caratterizza una singola lingua. Forse la perdita di un arsenale fonetico illimitato è il prezzo che il bambino deve pagare per ottenere i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua.

Che cosa intende con il termine “ecolalie”? In che modo è possibile – se è possibile – ricondurlo a quello di afasia?

Nel lessico medico “ecolalie” designa generalmente una ripetizione automatica di parole d’altrui. Tuttavia, può anche indicare l’eco di ciò che precede il linguaggio nel senso in cui Jakobson, per esempio, scrive che il bambino che impara a parlare imita, in ecolalie, il balbettio che una volta era suo. In entrambi i casi, la parola “ecolalia” denota un fenomeno piuttosto raro, un disturbo del linguaggio nel suo uso abituale. Cercando di ricondurre questi fenomeni isolati a un livello più profondo, ho dato il nome “ecolalia” all’idea centrale del mio libro. Un’idea secondo cui ogni parola umana è anzitutto una eco: eco di altre parole, certo, ma eco anche di qualcosa di più originario della parola, il balbettio per esempio (un altro esempio di questo genere è l’esclamazione). “Ecolalia” è per me il nome della struttura per la quale cui ogni lingua ricorda un’altra lingua e, allo stesso tempo, qualcosa di altro dal linguaggio.

In Ecolalie – precisamente nel capitolo 8- lei scrive che nel regno del linguaggio i cataclismi sono un’eccezione. È raro quindi che una lingua scompaia improvvisamente e per sempre. Più facile è che si “corrompa” o lentamente muti – come osservava Terracini – dando vita a un’altra lingua. Eppure, di tanto in tanto, studiosi e giornalisti lanciano l’allarme sulla rapida scomparsa delle lingue – ne sparirebbero più di duecento ogni anno – e sull’eccessiva semplificazione introdotta dall’inglese usato dai e nei new media (il glocal o global english, etc.). Lei al contrario sostiene che nella lingua “sono rari gli eventi notevoli”. Ci può spiegare meglio che cosa intende? Come considera i toni allarmistici con cui generalmente si parla di “scomparsa della differenza linguistica”?

Oggi si parla molto della “morte delle lingue.” Il fatto che le lingue scompaiano – che sia velocemente, o lentamente – è certo. Eppure, mi sembra meno importante costatare questo fatto che non, piuttosto, riflettere sulla natura dei mutamenti linguistici. Che cosa significa, per una lingua, cambiare, sparire o emergere? Spesso diamo per scontato che il tempo in cui si estendono le lingue sia identico a quello in cui si sviluppano gli organismi e così parliamo, anche in ambito linguistico, di “nascita” e di “morte”. Eppure l’idea della nascita e della morta delle lingue è oscura, sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista empirico, sia passando in rassegna le ricerche di linguisti e filologi sulla questione. Si può anche pensare la parola umana al di là – o al di qua – della vita e della morte. Così Hannah Arendt, per esempio, nel 1967 sosteneva che la sua lingua madre, il tedesco dei tempi prima della guerra, per lei “restava”. “Restare” non significa “vivere”. Implica un tempo singolare, una dimensione della parola che nel mio lavoro ho cercato di definire tramite materiali diversi – linguistici, letterari, psicoanalitici, e mitologici.

In uno dei suoi saggi, Ralph Waldo Emerson affermava che la «lingua è come l’archivio della storia». Un archivio paradossale, però, se è vero che può fare a meno di cataloghi e custodi. In un certo senso, crede si possa sostenere che la lingua operi come una sorta di memoria autonoma e indipendente dalla memoria degli uomini? O quantomento dalla loro consapevolezza di ricordare?

Del rapporto dell’essere parlante al linguaggio si sono dette tante cose, dalla tesi classica che vuole che “l’uomo è l’animale che possiede il linguaggio” alla sua inversione novecentesca: “è la lingua che possiede l’uomo.” Nella sua lectio per il premio Nobel del 1987,Josip Brodskij ha affrontato la questione. «Il poeta» – scriveva, citando parte di un verso della poesia di W. H. Auden In ricordo di William Butler Yeats –«è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive. Io che scrivo queste righe scomparirò; e scomparirete voi che le leggete; ma rimarrà la lingua nella quale esse sono scritte e nella quale voi le leggete: rimarrà non solamente perché la lingua è cosa più duratura dell’uomo ma anche perché più di lui è capace di metamorfosi». Qui “l’archivio” non dipende degli uomini. Ma se la volontà e la consapevolezza dei parlanti hanno perso la propria forza, non è perché la lingua conservi se stessa indipendentemente da loro. Se la lingua sopravvive alla assenza dei suoi parlanti, ciò non è perché essa li ignori ma perché ha già sempre mutato se stessa attraverso di loro, essendo per natura «maggiormente capace di metamorfosi» rispetto a coloro che la usano. Con e senza i suoi parlanti, tramite loro e sempre a differenza da loro, la lingua permane nel corso del tempo, ma solo come altro da sé.

Lei è anche traduttore – in particolare dei lavori di Giorgio Agamben, ma ha anche curato di recente un’edizione delle Mille e una notte (Arabian Nights)- quale è il suo rapporto con il “compito” del tradurre?

Già da studente in Canada, avevo letto i libri di Giorgio Agamben con intensa ammirazione, ed è stato per me un’esperienza molto bella poter tradurre alcuni dei suoi libri, soprattutto ad un momento importante nella sua ricezione americana. Direi che pratica di tradurre è stata per me l’occasione di un apprendimento essenziale, nel pensiero non meno che nella scrittura. Ma ho tradotto quest’unico autore. È anche possibile, però, che bisogna applicare alla scrittura filosofica ciò che dice Tsvetaeva della poesia – cioè, che “scrivere è sempre già tradurre, dalla lingua madre – in un’altra,” che sia italiano o inglese non importa.

Nelle pagine conclusive di Ecolalie lei accenna al tema della confusione delle lingue e a quello della loro traduzione. Per farlo si richiama a un concetto di cui si serve anche Walter Benjamin – l’«indimenticabile», das Unvergessliche – nel saggio sul Compito del traduttore scritto quasi come una nota a margine per la sua traduzione dei Tableaux parisiens di Baudelaire. Benjamin si richiama allo stesso concetto nel suo lavoro sull’Idiota di Dostoevskij… Il principe Myshkin appare a Benjamin con una persona “che rimane sempre in dietro”, qualcuno che non è al passo coi tempi, che opera o vive il proprio tempo come in un continuo décalage. Eppure, proprio gli attacchi epilettici – e forse proprio l’afasiache inducono in Myshkin dei veri e propri vuoti di memoria secondo Benjamin costituirebbero “il simbolo di ciò che nella sua vita resta indimenticabile”. Si potrebbe dire che l’amnesia sia una specie di archivio cieco, ma sicuro per l’indimenticabile?

In diversi punti nel libro ho cercato di capire in che modo un atto d’oblio può non solo cancellare ma anche custodire. Esiste un bel aneddoto riportato dalla tradizione araba rispetto a Abu Nuwas, un grande poeta dell’epoca classica: si dice che, prima di cominciare a comporre, dovette imparare a memoria migliaia di versi dei poeti antichi – prima di dimenticarli, dopo uno studio altrettanto arduo che paradossale. Ho discusso anche del caso, più vicino a noi, di Canetti che nella sua autobiografia ricordava la sua visita a Praga. Canetti fu particolarmente colpito dalla lingua ceca, perché suscitava in lui delle memorie del bulgaro che parlava da bambino – anche se aveva allora già “completamente dimenticato” quella lingua. L’oblio non è una negazione ed è possibile che vi siano dei rapporti alla lingua che sono accessibili solo a quelli che l’hanno dimenticata. A ben guardare, la scrittura letteraria nasce anche da un tale rapporto.

Bellinzona, 19 settembre 2008