philosophy and social criticism

Insieme ma soli

Con concisione e sarcasmo, Wiston Churchill ricordava che se «prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi». 

di Mika Satzkhin

In una delle opere centrali nell’elaborazione del suo pensiero, The Human condition (1958), Hannah Arendt ricorda che tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme. Solo una, tra queste attività, non potrebbe nemmeno essere pensata fuori dalla società umana: l’azione. L’attività di lavoro non richiede necessariamente la presenza degli altri, ma un essere che lavori in assoluta solitudine, in un mondo ipoteticamente non abitato che da lui, non sarebbe umano. Sarebbe un animal laborans, nel senso letterale del termine, non un costruttore.

La Arendt insiste sulla precondizione affinché un homo faber – l’uomo che si serve del lavoro delle proprie mani per fare “opera” – possa condiserarsi tale: lo stare insieme. C’è dunque una relazione profonda, che la filosofa tedesca non esita a definire «speciale», tra l’agire e lo stare insieme. Non è un caso che nei volumi della sua trilogia, Richard Sennett non cessi di richiamarsi alla ricognizione e alla tipologia della vita activa fatta dalla Arendt, di cui è stato allievo. All’homo faber, l’uomo che produce artefatti e ne abita il mondo, Sennett ha infatti dedicato il primo di questi volumi, The Craftman, mentre alla condizione dell’essere-insieme e del co-operare è dedicato il secondo, Together.

Termini e temi chiave, quelli del cooperare e dello stare-insieme, che ritornano anche in altri due importanti lavori di documentato taglio critico da poco proposti ai lettori italiani dalle edizioni Codice: Insieme ma soli (2012) della psicologa Sherry Turkle e Supercooperatori (2012) del biologo Martin A. Novak.

Se Novak si propone di riflettere, smontando molti luoghi comuni sui suoi “geni egoisti”, sulla «specie più cooperativa, l’uomo», il lavoro della Turkle è fin dal sottotitolo alquanto chiaro e dedicato alle possibili derive di questo percorso: «perché ci aspettiamo sempre più dalle tecnologie e sempre meno dagli altri?». In rete, megli edifici tecnologici sempre meno abitati dagli altri, e sempre più popolati di fantasmi, al di là delle retoriche 2.0 non si opera e tanto meno si coopera, al massimo si “interagisce” e si “collabora”. Ma con chi? E, soprattutto, per cosa? Stiamo davvero “insieme” quando siamo connessi?

Con concisione e sarcasmo, Wiston Churchill ricordava che se «prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi».

Motivo in più per riflettere sullo stare insieme, anche partendo dal declino iper-tech della vita in comune. Nei mondi virtuali e nei videogiochi, scrive la Turkle, «le persone si appiattiscono in personae. Nei social network le persone si riducono a profili. Con i nostri apparecchi mobili spesso ci parliamo muovendoci, e con poco tempo a disposizione (a dire il vero così poco che comunichiamo con un nuovo linguaggio di abbreviazioni in cui le lettere sostituiscono le parole, e le emoticon i sentimenti).

Non facciamo più la domanda aperta «come stai?» bensì domande più limitate come «dove sei?» e «cosa si fa?». Sono buone domande per sapere la posizione dell’interlocutore e fare programmi semplici; sono meno buone per aprire un dialogo sulla complessità dei sentimenti. Siamo sempre più connessi l’uno all’altro, ma stranamente più soli: nell’intimità, nuove solitudini».

È in questo contesto che l’importanza dello stare “insieme” riemerge, seppure per via negativa, mostrando nella sofferenza, nel nuovo disagio e nelle nuove solitudini, una non ancora sopita ansia di vita activa e comune che  in molti si ostinano a leggere – rovesciando le carte – come mero sintomo.

tysm literary review, vol. 10, no. 15, june 2014

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