philosophy and social criticism

La necessità della disobbedienza civile

di Dwight Macdonald

Disobbedienza civile significa, per me, l’infrazione deliberata, pubblica e non-violenta di una legge perché obbedire vorrebbe dire tradire una più alta moralità. Esempi nel nostro paese furono il sabotaggio, diffuso nel Nord, della legge contro gli schiavi fuggiaschi prima della Guerra Civile, e il celebrato rifiuto di Henry David Thoreau di pagare le tasse locali come protesta contro la guerra messicana. «Che cosa fai lì dentro, Henry?» gli chiese il suo vicino ed amico, Emerson, attraverso le sbarre della prigione di Concord. «Che cosa fai tu lì fuori, Waldo?», egli replicò. Una storia apocrifa, mi è stato detto, ma se non è vero, è ben trovato – se non è realmente accaduto, sarebbe dovuto accadere. In questo, tatticamente e moralmente, sta l’essenza della disobbedienza civile – così come si trova esposta in teoria nel saggio scritto di Thoreau sull’argomento.

Io credo che la disobbedienza civile sia giustificata quando si giunge alla convinzione che, 1) nell’imporre la legge specifica, le autorità stanno esse stesse violando lo spirito dell’ordinamento giuridico in generale; 2) la protesta all’interno dei limiti della legalità non è più efficace da un punto di vista tattico, è divenuta inadeguata come risposta alla situazione, e 3) le azioni del governo sono divenute tanto odiose all’etica personale di ciascuno, che ci si sentirebbe codardi ed ipocriti se si continuasse a sottomettersi ad una legge che fa rispettare queste azioni.

Ad un certo punto, l’estate scorsa – al pari di altri che, come me, fino a quel momento non erano usciti dai limiti legali nell’opposizione alla guerra nel Vietnam – sono giunto alla conclusione che tutte e tre le condizioni erano state soddisfatte.

1) La guerra è diventata senza senso e distruttiva al punto che si può ragionevolmente sostenere che, combattendola, il governo sta violando lo spirito – e anche, in realtà, la lettera – della nostra Costituzione. 2) Quando il presidente rispose alle grandi marce dell’aprile incrementando i bombardamenti sul Nord Vietnam e stabilì un sinistro precedente richiamando il generale Westmoreland dal campo per giustificare la guerra, in uniforme di gala, davanti al Congresso che non era stato consultato su questo nuovo passo di escalation, allora mi resi conto che due anni passati a scrivere, a parlare, a dimostrare contro la guerra non erano riusciti a influenzare il nostro presidente e che noi obiettori stessi avremmo dovuto fare un passo avanti. E 3), io personalmente non potevo proseguire ulteriormente con quell’orrore, dovevo porre me stesso al di fuori dei limiti di quella legalità che lo giustificava

Quindi mi sono unito alla Writers & Editors War Tax Protest, e ho aderito al suo rifiuto di pagare le tasse per la guerra, ho contribuito con coetanei come Spock, Goodman, Lowell, Mailer, Chomsky e Coffin, a dare aiuto e appoggio, pubblicamente, a quei giovani in età di leva che, altrettanto pubblicamente, rifiutavano di essere richiamati per la guerra di Johnson. Questa è violazione della legge di leva ed è punibile con le stesse pene previste per i renitenti. Sarà, noi speriamo, imbarazzante per le autorità se puniranno questi e risparmieranno noi.

Quali i limiti della disobbedienza civile? Per definizione si fermano al di qua della violenza, in quanto si tratta di una tattica illegale ma nell’ambito della struttura, se non della legalità, almeno del civis; un tentativo di dimostrare ai nostri concittadini che l’interesse comune richiede un tale ripudio della lettera allo scopo di salvare lo spirito. Né essa si basa, per me, su alcun moto effettivo verso l’altra parte: non che Ho Chi Minh (o il defunto Che Guevara) siano il mio tipo più di quanto non lo fosse il generale Santana per Thoreau nella guerra contro il Messico. Non ho apprezzato le due bandiere Vietcong portate da un piccolo gruppo tra coloro che con me marciavano verso il Pentagono, e tanto meno il loro tentativo (per fortuna abortito) di venire in quell’occasione alle mani con gli agenti della Military Police.

La marcia contro il Pentagono era necessaria per drammatizzare la nostra protesta, e – sebbene difficilmente uno l’avrebbe creduto stando ai servizi della stampa e della televisione, compreso quello del New York Times, ahimè – fu una riunione notevolmente normale, sobria e pacifica. Naturalmente, per motivi tecnici relativi alla natura dei mezzi di informazione di massa, e anche per motivi politici, nei servizi giornalistici balzarono al primo posto gli hippy e cultori della droga e della violenza, ma quello che mi colpì fu la fermezza non violenta della grande maggioranza dei dimostranti.

La minoranza violenta credeva, io penso, che le nostre istituzioni fossero così corrotte che il problema poteva essere affrontato solo con l’azione rivoluzionaria sulle barricate. A parte il fatto che le masse americane non condividono questa opinione – per cui la violenza è un errore politico, una gaffe sociale, per così dire – io personalmente non sento questa follia. Non credo che le nostre tradizioni siano giunte, o scese, al livello di Lyndon B. Johnson.

Ritengo che egli non sia rappresentativo nel nostro paese. E perciò concludo che la disobbedienza civile, come l’ho prima definita, è il gradino successivo necessario per l’opposizione alla guerra nel Vietnam, nel presente contesto storico: né troppo poco, né molto.

[Tratto da: “New York Times Magazine”, 22 novembre 1967, traduzione italiana di Domenico Tarizzo in: Dwight Macdonald, Controamerica, Rizzoli, Milano 1969].

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tysm literary review, Vol 3, No. 6 – may 2013

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