Integralismo 2.0 vs. umanesimo digitale
di Mika Satzkin
Jaron Lanier, La dignità ai tempi di internet. Per un’economia digitale equa, traduzione di Alessandro Delfanti, Il Saggiatore, Milano 2014, pagine 409, euro 22.
A Wall Street, il 65-70% delle transazioni è oggi compiuto da macchine. Complessi algoritmi selezionano dati, elaborano percorsi, tracciano mappe e infine decidono su quali territori inscrivere il proprio segno, garantendosi utili sempre crescenti. Se scoprono varchi nella rete, la penetrano senza lasciare traccia. In gergo tecnico, queste transazioni vengono definite high frequency trading. Il 2,3% degli “operatori” di Wall Street è composto da cyborg addetti a queste operazione, cyborg che si servono dell’intervento umano solo compiti grezzi e servili: accensione, spegnimento e manutenzione. Sappiamo tutti quanta parte abbia avuto il trading a alta frequenza nel produrre o amplificare le crisi di sistema che si sono prodotte dal 2008 a oggi.
Al contempo, nella rete milioni di esseri umani stanno usando un computer. Lo usano come mezzo, ignorando però il fine che li orienta. Il loro orizzonte di senso è una filiera digitale: Wikipedia, Facebook, Istagram. La loro azione è “lavoro”, solo che nessuno la chiama più così.
Per generare un valore tangibile, queste reti sociali-digitali hanno bisogno che moltissimi individui partecipino al loro gioco senza che abbiano piena consapevolezza di quello che stanno facendo. Ma, esattamente come accade nella finanza iper-speculativa, invece di espandere l’economia creando più valore quantificabile, l’ascesa di queste reti sta arricchendo solo una ristretta élite di tecnocrati.
Prestando la loro opera e la loro intelligenza in forma gratuita, spontanea e anonima i laboriosi “utenti” credono di contribuire a un immenso progetto di condivisione e democrazia che qualcuno ha chiamato “web 2.0” e si distacca radicalmente da ciò che internet era solo alcuni anni fa.
«Milioni di esseri umani stanno usando un computer. Sono connessi in rete. Lo usano come mezzo, ignorando però il fine che li orienta. Il loro orizzonte di senso è una filiera digitale: Wikipedia, Facebook, Istagram. La loro azione è “lavoro”, solo che nessuno la chiama più così».
Ma è davvero così? O, piuttosto, dietro il velo della “condivisione”, della “compartecipazione”, della società immateriale e di slogan come “information wants to be free,” si nasconde il fondamento di una nuova, inquietante iniquità materiale?
Jaron Lanier, che a partire dagli anni Ottanta della rete è stato ed è uno dei pionieri più pragmatici e attenti – a lui si devono le architetture Unix, l’invenzione della “realtà virtuale”, il Midi ben conosciuto da tutti i musicisti -, invita a prestare attenzione. Molta attenzione. Nel suo ultimo libro, Lanier smonta pezzo per pezzo i luoghi comuni della (falsa) condivisione e della (presunta) gratuità dell’accesso, contrapponendo l’idea di un umanesimo digitale che intervenga qui e ora su questioni cruciali come dignità, giustizia e privacy e, soprattutto, ricollochi al centro l’idea di singolarità e di persona messe in scacco dalla deriva di un web che sembra sempre più orientarsi verso forme di “maoismo digitale”.
Al mercato del “tutto gratis” e del “guadagno per pochissime élites”, Lanier propone un’alternativa sia teorica, che concreta. Ma l’alternativa concreta non è scindibile da quella teorica. Alla base di tutto c’è un paradosso: sempre più persone collaborano all’espansione delle reti digitali. I profitti crescono, ma l’economia si contrae. L’esempio incarnato di questo paradosso è Istagram; a fronte 1 milardo di dollari di valutazione, Istagram impiega solo 12 dipendenti. La Kodak, oggi fallita, ne impiegava più di 140 mila ma a fronte di questo impatto sull’economia reale era valutata poche decine di milioni di dollari. Il mondo è cambiato e Lanier lo sa, essendo stato uno dei protagonisti di questo cambiamento. Ma il cambiamento ha assunto una brutta piega. È ancora possibile intervenire, proprio perché la centralizzazione della ricchezza e la globalizzare della povertà non sono il destino ineluttabile della rete e delle economie connesse. Al contrario, tutto è frutto di scelte, mascherate da una buona dose di ideologia.
“Coloro che tengono i nuovi libri mastri” di questa economia, specifica Lanier, sono “i giganteschi servizi informatici che ti modellano, ti spiano e prevedono le tue azioni, trasformano le tue attività quotidiane nelle più grandi fortune della storia”. Servizi che, tramite i Big Data, mettono a valore e convertono in denaro ogni informazione che affidiamo loro. Alla base di questa messa a valore della vita e del lavoro altrui, per Lanier c’è l’idea perversa che ogni individuo sia replicabile. La tecnologia, osserva Lanier, non è il male. Il male è non prendere in considerazione che la cosa più importante della tecnologia è come cambia le persone.
Ma “che cos’è una persona?”. Lanier propone uno scetticismo attivo, e qui sta la chiave della sua lettura. Lettura ottimista, non catastrofica: “se conoscessi la risposta”, afferma Lanier, “sarei in grado di programmare una persona artificiale all’interno di un computer. Ma non la conosco. Essere una persona non si esaurisce in una formula qualunque, è una ricerca, un mistero, un atto di fede”.
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TYSM LITERARY REVIEW, VOL. 10, NO. 15, JUNE 2014
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ISSN:2037-0857