Interno rosa (II): Sakurai Ami, Kanehara Hitomi, Hasegawa Junkon
Alessandro G. De Mitri
TRA LE RIVENDICAZIONI DELLA DONNA E L’ESPLORAZIONE DEL MONDO GIOVANILE NEL GIAPPONE DEL TERZO MILLENNIO: INCONTRO CON SAKURAI AMI, KANEHARA HITOMI E HASEGAWA JUNKO
Il Giappone corre, tra modernizzazione e consumismo, tecnologie avanzate e fantasmi, retaggi antichi e modelli occidentali; l’accelerazione vertiginosa reca con se il trauma della modernità, che sta portando la cultura ed i valori sociali del paese verso un punto di discontinuità, di rottura. Non a caso nelle stesse giornate udinesi concerti, film, eventi multimediali ci hanno mostrato la geisha moderna del documentario Hannari, quella fumettistica ed abbagliante nei colori del musical Sakuran di Ninagawa Mika e quella degli anni cinquanta filmata da Ichikawa Kon nel loro diverso attingere alla fonte della tradizione, la musica antica e la deflagrazione del corpo nella danza moderna, la visione del Giappone nei film occidentali (Babel di Inarritu e Il sole di Sokurov); reticenza e comunicazione, armonia e netta opposizione ai luoghi comuni, fiori di ciliegio e violenza, scandalo e divertimento. La nuova letteratura scritta da donne ed ispirata dalla sensibilità ed allo stile di vita delle giovani donne giapponesi ci presenta panorami metropolitani abitati da ragazze alla ricerca di nuovi modelli sospesi tra erotismo, solitudine, autolesionismo e marcature del corpo, alla ricerca di un riconoscimento sanguinoso del proprio esistere non come essere sociale ma come corpo, appunto. Se la cultura giapponese del dopoguerra ha previsto per i giovani uno spazio di scarico dell’individualità prima dell’entrata nella struttura sociale, fatto di mode, manga e innocenti trasgressioni, a partire dalla fine degli anni ottanta, ed in modo via via più intenso in corrispondenza del crescere della tensione sociale sotto l’influsso dei ritmi frenetici della contemporaneità, sembra che i giovani giapponesi si rifugino nelle mode e nei linguaggi codificati con uno spirito trasgressivo ma anche nichilista, negando i valori del modo adulto ad un livello sotterraneo, ripiegandosi in se stessi ma tenendosi in contatto con spiriti affini tramite i mezzi di comunicazione digitali, non combattendo apertamente il sistema come negli anni sessanta, ma piuttosto rifiutando silenziosamente i valori adulti; da qui i fenomeni di bullismo, le improvvise ed insensate esplosioni di violenza, l’accento sulla sessualità, i fenomeni di ritiro in sé stessi o in comunità digitali (dagli otaku degli anni ottanta agli hikikomori di inizio millennio), l’agire senza motivazioni definite (nantonaku). Questo grado zero della socialità, questa negazione dei codici, conduce ad un atomismo, una costellazione di frammenti che vede i giovani aggregarsi temporaneamente intorno ad interessi comuni, trasformando mode e linguaggi in contenitori, senza pretesa né desiderio di essere parte sociale organica in opposizione al sistema. I comportamenti sono ridotti a segni, a graffiti. Di conseguenza, sia l’analisi sociologica che il recepimento a livello, per così dire, popolare, tramite il lato più scandalistico dei mass media , il cinema e la letteratura di consumo, di questi comportamenti, arriva sempre in ritardo.
Su queste tematiche, in un intreccio non facilmente districabile di astuta commercializzazione e di recepimento di una nuova sensibilità, sembrano muoversi le scrittrici giapponesi, con maggiore elasticità rispetto ai colleghi uomini. Tre di loro, diverse per generazione e retroterra culturale, hanno discusso di questi argomenti, della condizione femminile, del loro sforzo per esprimere nei loro lavori un disagio nel quale i lettori si possano riconoscere, in un incontro tenutosi ad Udine lo scorso anno. Si tratta di Sakurai Ami, controversa autrice di romanzi ed inchieste che portano in primo piano il disagio giovanile ed i problemi delle donne in modo provocatorio, della giovanissima Kanehara Hitomi, emersa nel 2004 con un romanzo molto duro ma di grande successo, Hebi ni piasu (serpenti e piercing nell’edizione italiana), che le è valso il prestigioso premio Akutagawa, e di Hasegawa Junko, classe 1966, attiva dalla fine degli anni novanta come narratrice dopo essere stata articolista e vignettista, nelle cui storie si mescolano femminismo e tracce di una sensibilità vicina a quella tradizionale.
Anche fisicamente le scrittrici sono molto dissimili: Sakurai, truccata in modo vistoso e dai lunghi capelli neri, indossa con gusto feroce un kimono vistoso nello stile usato dalle donne della yakuza (la mafia giapponese), che, come lei stessa sottolinea con una punta di ironia, “non è certo un kimono tradizionale”, ed è torrenziale nei suoi interventi disseminati di calchi dall’inglese; Kanehara, magrissima ed elegante, parla pochissimo e sembra quasi nascondersi dietro la sua opera, Hasegawa è invece estremamente comunicativa e generalmente più solare delle sue colleghe, come quando, nel descrivere la bellezza ed i ritmi di vita rilassati dell’Italia e la possibilità di passeggiare in tranquillità per le vie di Udine, confessa di essere stata abbordata per strada e di esserne stata gratificata (“erano anni che non mi succedeva”).
Sakurai pone l’accento sui temi dell’identità/identificazione e della difficoltà non tanto nell’integrarsi, quanto nel puro e semplice vivere, quando si affronta il mondo dell’adolescenza femminile. Oltre lo specchio stereotipato delle virtù tradizionali, la pazienza e la riservatezza, si apre il mondo della prostituzione giovanile, specialmente di quella part-time (il fenomeno dell’<enjo kosai che, come rimarca la scrittrice, pur continuando ad essere praticato, nel momento in cui viene affrontato dagli opinionisti già non esiste più come terminologia, come forma, quasi che le parole fossero mode ed i sociologi riuscissero ad afferrare soltanto i loro cadaveri, dissertando sull’attualità dell’anno precedente), gli scambi di biancheria ed altro a pagamento con vecchi e feticisti. Il linguaggio giovanile, ricco di abbreviazioni, calchi dall’inglese, espressioni gergali, cerca di ritrovare un potere di denominazione perduto o inadeguato; “leggere l’aria”, ovvero essere nell’atmosfera, anche per quanto riguarda il rapporto con l’elemento maschile. L’autrice si perde in un gioco di specchi con le sue lettrici, cercando di identificarsi con il loro mondo, o perlomeno di trovare una chiave di accesso e contemporaneamente di dar loro, riuscendo a descriverlo e a decrittarlo, un modello di espressione, “una portavoce della sfida all’attuale concezione della femminilità”, come recita la nota copertina dell’edizione italiana del suo controverso romanzo Innocent World; l’autolesionismo e l’erotismo vengono gettati in faccia ad una società ancora molto più maschilista di quanto sembri. E qui l’autrice sembra accumunare la condizione femminile e quella dei giovani.
Sul tema, Kanehara, il cui libro tratta in modo specifico di forme estreme di piercing e tribalismo, rimarca come, nelle interviste, fatichi a far capire come l’autolesionismo non sia il tema, “scandalistico”, del suo romanzo, come dietro al modificazione del corpo vi sia il tentativo di riappropriarsi del corpo, di controllare e riconoscere un corpo individuale, un corpo-segno, in opposizione al corpo sociale, una forma di comunicazione silenziosa, ed in questo senso tipicamente giapponese, che permetta di esprimere le emozioni in modo non verbale, di esporsi a partire dalla propria solitudine, in una società così conformista dove l’essere giovane (e per di più donna) viene visto come una fase di “non adulto”, tollerata in modo accondiscendente in attesa dell’inserimento nei ranghi, nel gioco dei ruoli definiti.
La reazione dei giovani, alla quale abbiamo accennato più sopra, si nasconde dietro la maschera del divertimento, della moda, nell’uso esclusivo delle tecnologie nel campo della comunicazione,sotto la quale lo scollamento dal mondo, la sensazione di essere diverso/a si estrinseca nella solitudine, in una tendenza antisociale sottesa all’estetica giovanile e sempre pronta a scoppiare, ed in ultima analisi in un apparente conformismo che è in realtà una forma di tribalismo. È una generazione doppiamente compressa, che non si riconosce nei valori del Giappone contemporaneo ma sa di essere destinata ad un riassorbimento fatto di impiegati e di casalinghe.
La giovane scrittrice, di gran lunga la meno loquace del trio, ricollega la sua solitudine adolescenziale a quella della sua eroina, dando alla scrittura la doppia valenza di terapia personale e di mezzo catartico per i lettori. Le forme di vita estreme ed il lavoro sul corpo, insiste, servono per portare alla luce una “forma mentale” latente, che deve necessariamente rispecchiarsi nel corpo per consentire di metabolizzare e superare la solitudine. La comunicazione silenziosa, giocata sul filo del desiderio, è vista come un continuum estetico con la tradizione giapponese del flusso di sentimenti non mediato; “io rifiuto quello che penso”, afferma. I suoi personaggi, conclude, sono spiriti sinceri e, a modo loro, puri, portati a riconoscersi a causa della loro stessa solitudine, presi dal tentativo di costruire un mondo nuovo in una società che isola. Il finale del suo libro, per quanto triste, non può che rappresentare una crescita, generata dallo scontro con la realtà rifiutata. Kanehara sottolinea di voler rappresentare solo se stessa, non un movimento od una coscienza comune, anche se la possibilità delle lettrici di riconoscersi nei suoi scritti la lusinga.
Sakurai Ami riapre la discussione sul tema della violenza nella letteratura, nei manga , sottolineando come la società sia satura di una tensione verso la violenza che non si vuole riconoscere, creando uno scollamento tra convenzioni e vita reale percepito particolarmente dai giovani, una mancanza di comunicazione solo parzialmente restaurata dai media digitali, un deterioramento della spiritualità(interessante il fatto che Sakurai parli di perdita di spiritualità in termini prettamente orientali e non dissimili da quelli poi usati da Taguchi Randy in un successivo incontro, per poi esprimersi con una serie di calchi dall’inglese: sekkusu, vaiorensu, aidentitii, komyunikeshon saranno le parole chiavi). La parola scritta trasforma la violenza da fumetto (nel senso letterale del termine) in un espediente narrativo, nel senso di un mezzo per esplorare azioni e sensazioni dei protagonisti più ancora che in quello di una mera rappresentazione realistica. Un teatro della violenza, o meglio, un video-gioco della violenza, verrebbe da pensare. Il processo di raggiungimento dell’identità passa attraverso una scoperta traumatica, sembra suggerire. Lei stessa ricorda di essere stata soggetta a fenomeni di bullismo ai quali aveva reagito indossando una maschera sociale e “riscrivendo” l’atmosfera, in una sorta di performance credere e comunicare che si rispecchia il personaggio disturbato del suo romanzo più popolare, un’adolescente che si prostituisce rimanendo legata, nel suo mondo “innocente” e separato, al fratello col quale condivide una relazione incestuosa. Se questa generazione di ragazze che affollano le discoteche di Shibuya (quartiere di Tokyo) vestite in yukata (kimono leggeri), ossigenate e con una Hello Kitty nell’obi, che nel vestirsi secondo tipologie ben definite, trovano nell’identificazione con modelli uno sfogo alla personalità ed addirittura una dimensione “giocata”, allora è possibile che il riconoscersi nei personaggi dei suoi libri le aiuti ad esorcizzare le frustrazioni, a comunicare la “nudità del cuore” (kokoro no hadaka<).Il controllo della gestualità e dei comportamenti è un fattore culturale tradizionale, ma le donne sono in grado di esprimere la loro libertà con piccoli segnali, sfumature impercettibili ad occhi occidentali. È importante riuscire ad esprimersi, anche provocatoriamente, per comunicare con sé stessi e con gli altri.
Anche per quanto riguarda l’erotismo, Sakurai rimarca che la generazione precedente “non ci ha mostrato nulla tranne l’omiai(il matrimonio combinato)”, l’elemento sociale; l’esperienza personale dell’amore e della sessualità contribuisce alla costruzione dell’identità. In questo senso la protagonista del suo libro sceglie l’amoralità e l’incesto come unica possibilità di allontanarsi dalla sua famiglia e costruire il futuro che desidera; per quanto claustrofobicamente limitato al mondo “innocente” condiviso con il fratello, rappresenta comunque una forma di liberazione, forse l’unica possibile, certamente quella scelta consapevolmente.
Hasegawa nel suo intervento si sofferma più sulla psicologia femminile tout court; affronta il problema della sessualità presente nei suoi racconti ricercando un equilibrio tra i lati positivi della sensibilità femminile dati per scontati nella cultura nipponica, e l’urgenza espressiva della donna giapponese moderna, solo all’apparenza liberata ma ancora in realtà sottoposta ad una specie di “nonnismo”, nella carriera e nella vita privata, generato dal maschilismo latente della società giapponese, le cui origini sono probabilmente da ricercare nell’influenza confuciana durante il periodo post-medievale dell’era Tokugawa (1600-1868). Ne viene fuori l’immagine di una donna forte ed autonoma nel prendere decisioni riguardo la sfera della sua sessualità, e contemporaneamente incline ad una delicatezza e vaghezza espressiva tutta tradizionale che va a rafforzare la sua sensualità. Se l’uomo gioca a prendere il comando, sembra dire la scrittrice, la donna non ha bisogno di mettersi in competizione con lui quanto di controllare tutto ciò che con la carriera ed il potere non ha relazione, rifiutando le regole del gioco maschile. Non c’è nessuna vergogna nel corpo, nessuna interferenza negativa della sfera psichica in quella fisica, secondo la tradizione scintoista. Anche quando affronta situazioni drammatiche e temi forti, anche quando le sue protagoniste sono di fronte a scelte decisive o a fallimenti esistenziali, rimane un fondo di leggerezza nella malinconia, di fierezza nell’infelicità che ricorda le eroine del passato letterario. Alla donna giapponese attuale manca qualcosa: l’apparente libertà di muoversi nel mondo alla stessa stregua degli uomini le porta all’omologazione ed alla rinuncia, alla scoperta che per loro lo spazio è più ampio, ma sempre chiuso. Gli uomini e le donne sono tristi, oppressi dalla loro vita, attendono “una goccia di miracolo”. Ma non tutto è necessariamente triste: in una società dove il confine tra l’infelicità e la felicità è labile, l’importante è andare avanti. La protagonista dell’unico suo racconto pubblicato in Italia, ad esempio, è una trentenne in crisi che, attraverso una scelta disperata, si pone in condizione di attendere una palingenesi possibile, se non di ricercarla attivamente. Alla solitudine e al disincanto, soltanto la ricerca di uno spazio di libertà può dare sollievo, non certo la rincorsa al successo.
La differenza di personalità tra le scrittrici torna ad evidenziarsi quando parlano dei loro riferimenti culturali e letterari in patria ed all’estero. Sakurai parla del mondo della yakuza, dello scrittore Abe Kōbō (autore di avanguardia e critica sociale orientato a sinistra, portato verso una scrittura sperimentale e surreale, attivo tra gli anni cinquanta e gli ottanta e candidato al Nobel), dei manga e di film come Il postino e L’era glaciale. Kanehara ricorda di aver iniziato a leggere tardi, di essere sta colpita da Yamada Eimi (autrice di romanzi che descrivono in termini realistici e carichi di erotismo la vita a le esperienze interiori delle donne) e Murakami Ryū (altro scrittore -e regista- provocatorio, che negli ultimi anni ha accentuato la critica sociale nei suoi romanzi caratterizzati da una miscela di umorismo, sessualità e violenza, e del quale nel corso del ciclo di incontri di Udine è stato proiettato il film Topaz/Tokyo Decadence, e di essere grande appassionata di cinema, facendo i nomi di Lynch e Ozon. Hasegawa dichiara invece di non essersi mai ispirata a romanzi e film, lanciandosi in una descrizione molto giapponese, poetica ma anche ironica, di tinte azzurre e rosa del cielo all’alba, di solitudine delle strade, di piccole felicità agrodolci, di sensazioni estetiche in cui il corpo sembra dissolversi. Suscita l’ilarità della collega Taguchi, presente in sala, quanto racconta di essersi comprata un pesce palla (fugu) perché porta bene (fuku: buona fortuna, felicità): “piccolo pesce palla”, conclude, “piccola felicità”. “Non scrivo poesie” conclude, rispondendo ad una domanda del pubblico, “perché leggo la poesia della natura, la poesia della vita quotidiana”. La poesia, ovviamente, della tristezza estatica della contemplazione dei fiori di ciliegio.
Di Ami Sakurai è stato pubblicato in Italia, nella traduzione di Stefania Di Natale:
Innocent world (Inosento Waarudo, 1996), Anagramma/Newton Compton, pp. 160, E. 8,90, ottobre 2006.
Di Hitomi Kanehara è stato pubblicato in Italia, nella traduzione dal giapponese di Alessandro Clementi:
Serpenti e piercing (Hebi ni piasu, 2004), Fazi, pp. 128, E. 12,00, aprile 2005.
Di Junko Hasegawa è stato pubblicato in Italia il racconto L’uovo infecondo (Museiran), tradotto da Gianluca Coci nella raccolta No geisha, Oscar Mondadori, pp. 228, E. 8,40, febbraio 2008.
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