philosophy and social criticism

Karl Marx Show

Rosa Britten

Juan Goytisolo, Karl Marx Show, traduzione di Chiara Vighi, Cargo/L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005.

«Moro» era uno dei bizzarri soprannomi con cui la moglie Jenny e gli amici si divertivano a chiamare Karl Marx. I suoi figli, invece, preferivano rivolgersi a lui con «old Nick» o «diavolo nero», forse per via della folta barba che doveva incutere spavento e rispetto al tempo stesso. Fatto sta che proprio da alcune di queste circostanze minime e familiari prende le mosse La saga de los Marx, romanzo eclettico di Juan Goytisolo pubblicato nel 1993, tradotto in lingua francese due anni più tardi (La longue vie des Marx, trad. di Claude Bleton, Fayard, Paris 1995), in inglese tre anni dopo l’edizione spagnola (Marx Family Saga, trad. di Peter Bush, Faber & Faber, London 1996), e infine presentato anche al lettore italiano – vista la vicenda, si suppone il più interessato – per i tipi di Cargo, col titolo Karl Marx Show.

Scritto con la consueta passione per il manierismo storico, per la citazione fuori da ogni inciso, per l’opera aperta che si nutre di varianti al limite del plagio, anche in questo suo lavoro – l’ultimo, in ordine di traduzione, dopo Oltre il sipario e Le settimane del giardino, editi rispettivamente da l’Ancora del Mediterraneo e da Einaudi nel 2004 – Goytisolo pretende dal lettore un complesso sforzo di decodificazione, costringendolo a continui salti temporali, tra intermittenze di stile, improvvise interferenze linguistiche (nell’originale è frequente l’uso dell’italiano) e repentine commistioni fra vicende di cronaca, incerti giochi di finzione e non più affidabili «dati di fatto». Una sorta di «blob» letterario, un cut-up con espliciti riferimenti à la Debord.

«Mano a mano che procedevi nella stesura di questo manoscritto, ti lasciavi prendere dall’ansia. Perché questi lunghi paragrafi senza punteggiatura? Non ti rendevi conto che sconcertavano il lettore e lo allontanavano?», si chiede il narratore, in uno dei monologhi che costellano questo libro pieno di dubbi, di fantasmi politici e di dura ironia. Allo schema realista dei primi romanzi e al modello cervantino – trasversale in tutta l’opera dell’autore catalano, ma evidente soprattutto nelle menzionate Settimane del giardino – Goytisolo sembra qui preferire quello della parodia di Swift, altro suo costante punto di riferimento, rivisitato stavolta – sono parole sue – in chiave «atopica» e «acronica».

Il crollo dei regimi comunisti, la svendita in saldo di dignità e passioni, la sopravvivenza di vecchie oligarchie, la crescita delle nuove mafie liberiste e infine il moltiplicarsi dei paradisi in terra da raggiungere a ogni costo e con ogni mezzo, anche a nuoto, stipati su barconi di fortuna oppure dentro container: tutto, la speranza come il dolore, viene macerato e rivenduto al «mercatino ideologico» di una società che è ancor poco definire da bieco avanspettacolo. Immaginando di essere chiamato a partecipare a un noioso dibattito televisivo «sulla figura e i crimini» del pensatore di Treviri, il narratore si domanda: «Marx? a chi dia­volo potevano mai interessare, se non a un pugno di eruditi, no­stalgici e amareggiati, la vita e le dottrine, i successi e i falli­menti del fondatore del movimento comunista e padre dell’Internazionale? il discredito nel quale erano cadute le sue dottri­ne e la trasmutazione miracolosa dei suoi più scaltri discepoli in ferventi difensori della libera impresa e astuti gestori del ca­pitale, non avevano relegato le sue anticaglie, come affermava­no i nuovi filosofi telegenici, nel retrobottega di un robivecchi?». Ma è proprio davanti a un televisore, che documenta lo sbarco di migliaia di clandestini albanesi nel porto di Bari, che Jenny Marx si sorprende a esclamare: «Guardateli, i disertori del paradiso»! Sono migliaia di straccioni a caccia di altre mète, talmente disperati da confondere la libertà con un pezzo di pane, incapaci ormai di vedere il sole accecante dell’avvenire altrove se non in quella che sembra la loro «piccola America». Sognano di vestire come i divi di un serial tv, di guidare le stesse auto di lusso, di suonare il sassofono e portare un cappello a tesa larga, come Clinton, Bush e altra gente della stessa, bassissima, specie. Sognano ma ancora non sanno che lasceranno «la peste» dietro di sé.

«La maledetta pestilenza dei mori» è sempre questione di sbarchi, di frontiere che non si chiudono, di improvvisi contagi di idee e di uomini alla completa deriva, in altri termini di invasioni e di supposti scontri di civiltà, laddove, casomai, sono i simulacri della nostra identità già corrosa a essere radicalmente posti in discussione. Goytisolo ne aveva già parlato nella Rivendicazione del conte don Julián, dove si faceva questione di una opera estrema e radicale, quella del tradimento. Per vendicarsi del re Rodrigo, che gli aveva violentato la figlia, Julián aveva spianato la strada agli arabi, consentendo loro di mettere piede sul suolo sacro di Spagna. Ma il vero tradimento Jullian lo consumò altrove, ossia «nella lingua deturpata in cui si nascondeva il senso del suo delitto». I più attenti alla cinematografia meno tarantiniana, ricorderanno, nel 2004, la non fugace apparizione di Goytisolo – al fianco di altri due grandi scrittori: il francese Pierre Bergonioux e il palestinese Mahmoud Darwish – in Notre musique di Jean-Luc Godard, docufilm che ossessivamente si muove sul registro di questa deturpazione. Goytisolo vi interpretava se stesso, parlando in spagnolo, seguito a eco da una donna ombra, presenza non oppressiva che lo sottrae al gioco estraniante della sottotitolatura. Presentato fuori competizione al cinquantasettesimo Festival del cinema di Cannes (2004), Notre musique diede comunque spunto a polemiche. Polemiche a cui il registra svizzero, d’altronde, non ha mai amato sottrarsi. Per nulla dialettica, la verve di Godard si mostra, tolto l’occhio dalla telecamera, di un singolare vigore antagonista. La sua attitudine al contrattacco verbale, la sua indubbia capacità di fuggire, senza per forza ricorrere al paradosso, dai luoghi comuni lo rendono uno dei pochi non riconciliati ancora presenti sulla scena contemporanea.

In una intervista, accordata a un diffuso mensile di musica e spettacolo, Godard attaccò la struttura narrativa, gli esiti filmici e gli intenti (a sua vista “pateticamente”) polemici del film Palma d’oro, premiato dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino. Tesi di Godard è che il film di Moore si rifaccia a strutture narrative obsolete, e fallisca anche nei suoi intenti “politici”. «La guerra in Irak non c’entra nulla col il petrolio, né con Bush, né con il mantenimento dell’ordine sociale». Per Godard, essa sarebbe «una guerra di conquista e di distruzione, ma di che cosa se non del linguaggio? Come hanno fatto con gli indiani, gli americani cercano di distruggere la storia, annientando ogni popolo e ogni traccia di cultura che li preceda. Soffrono di un complesso di inferiorità. Il loro inconscio collettivo ne è segnato. La guerra, la fanno contro la scrittura cuneiforme, contro la grande civiltà degli assiri, dei sumeri, dei babilonesi. Goodbye Babilonia!». Allo stesso, modo, secondo quanto dichiarato dal regista nel corso della sua conferenza stampa, «solo il 5- 6% degli spettatori ha visto “realmente” il mio film. Quasi tutti, lasciando scorrere le immagini, si sono concentrati sui sottotitoli – come fossero quelle, le immagini – senza neppure ascoltare la lingua dell’altro. Eppure, come diceva Rimbaud, “io è un altro“, è l’altro». Sensibile, come sempre, a queste riflessioni, non è un caso che Goytisolo appaia come una delle figure più lucide che animano la seconda parte del film (diviso in tre “gironi”, o “Regni”, secondo la titolatura: Inferno, Purgatorio e Paradiso), girata a Sarajevo, a margine dei Rencontres Européennes du Livre. La scena si apre su Godard, interrogato sulle ragioni del suo arrivo nella città bosniaca. «Mi hanno invitato, per una conferenza sul testo e l’immagine». E Goytisolo? «Parlerò de La foresta della scrittura, ma dopo aver visitato la biblioteca». Già, la biblioteca, la famosa biblioteca di Sarajevo, realizzata da «uomini più umani, quelli che non fanno le rivoluzioni».

Peccato che la biblioteca non ci sia più, i suoi testi siano andati distrutti. Bruciati, in un rogo non accidentale. Una nuova Alessandria. Nella «foresta di simboli» della biblioteca distrutta, Goytisolo recita in controcampo e in controtempo frasi tratte dalla sua conferenza. Dinanzi a una tale forza distruttiva, occorre che sorga la «rivoluzione di forza comparabile, che rafforzi i ricordi, rischiari i sogni, dia sostanza alle mmagini». Una musica che «conduca i vivi attraverso le tenebre» e i chiaroscuri dell’identità

Da Señas de identidad a Juan sin Tierra, dal più recente Paisajes después de la batalla a questo Karl Marx Show, infatti, Goytisolo ha sempre lavorato per introdurre nel proprio discorso una sorta di principio di corruzione identitaria, di consunzione interna della logica e della sintassi della sua lingua madre. Se in Juan sin tierra erano le «radici sessuali del potere politico, o le radici politiche del potere sessuale» a essere poste in questione, qui sono i nervi stessi del «nuovo ordine mondiale» post-comunista a essere messi a nudo dalla scrittura – talvolta davvero irritante – di Goytisolo. Forse, suggerisce lo scrittore, il nostro incubo peggiore altro non è che il sogno americano divenuto realtà: Marx ridotto a merce o a spettacolo. La lingua dell’altro ridotta a sottotitolo, il due divorato dall’uno («ogni individuo è due, solo lo Stato è uno»). L’anestesia della ragione, come il degrado dei sensi, forse non genera mostri, ma lasciano dietro di sé una miseria e una tristezza infinite.

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