L’era del delirio ottico. Intervista a Jean-Louis Comolli
Damián Damore
La presenza più notevole del festival di cinema DOCBsAs – tappa obbligatoria per i cinefili di Buenos Aires che possono così dare idealmente seguito al BAFICI (Buenos Aires Festival Internacional de Cine Independiente, n.d.r.) – fino al 24 ottobre 2010, è lo scrittore e cineasta francese Jean-Louis Comolli, critico appartenente alla seconda generazione di quell’incubatrice di idee cinematografiche che rappresentò la rivista dei Cahiers du Cinéma, la quale portò a dirigere cineasti come François Truffaut, Claude Chabrol o Jean-Luc Godard, fra gli altri. Nella sua terza visita a Buenos Aires, Comolli ha tenuto un seminario – che ha fatto rapidamente il tutto esaurito – nel quale ha presentato 11 dei suoi documentari e un libro, Cinema contro spettacolo, a cavallo fra tecnica e ideologia, volume che va a estendere la sua vasta e influente opera teorica e la sua prassi cinematografica che consta di più di quaranta lavori.
L’atto di guardare un film cambiò molto da quando il cinema fu cinema, ormai da più di 100 anni. Comolli spiega a Clarin l’evoluzione dello spettatore in questo lasso di tempo. Motivato dalle sue stesse risposte, se la ride di fronte a ogni domanda mentre si sfrega le mani come un furfante del grande schermo.
Come si è andata costruendo l’idea del realismo nel cinema e qual è stata l’evoluzione dello spettatore?
Da anni la pressione ideologica che viene esercitata dalla parte tecnica nel cinema produce l’effetto di neutralizzare l’impressione di realtà che produce. Nel 1895, agli inizi, lo spettatore si incontrò improvvisamente con immagini che non appartenevano alla sua vita, ma che si identificavano con essa. C’erano un piano e un’inquadratura, ma non assomigliavano molto a ciò che ciascuno vedeva tutti i giorni. Quello spettatore delle origini del cinema fece uno sforzo di astrazione molto grande per affermare “questo è come la vita”. C’era una distanza enorme fra il cinema e la vita. L’industria, poco a poco, la ridusse; dal bianco e nero si passò al colore, lo schermo si ingrandì per approssimarsi al campo visivo umano; si migliorò il suono. Ed oggi abbiamo anche il rilievo con il 3D. Lo spettatore di oggi non ha bisogno di fare quello sforzo di astrazione perché la sovrapposizione fra quello che vede nello schermo e quello che vede nella vita è una sovrapposizione automatica.
Il 3D ci avvicina al “cinema totale”?
Il cinema totale è un’idea partorita negli anni Cinquanta e non siamo più negli anni Cinquanta. In quegli anni c’era una differenza certa fra il cinema e la vita. Ma il mondo è cambiato molto. Lo sviluppo tecnologico si è esteso talmente tanto che nel cinema ci troviamo faccia a faccia con una intensificazione della parte visibile del mondo. L’industria ha sempre provato ad abolire la distanza fra il cinema e la vita. Tutto ciò è molto grave.
Perché?
C’è da sospettare dell’idea di ridurre il mondo alla sua parte visibile. Informazione e spettacolo si uniscono in un punto. E questo punto risulta confuso. Come arte, il cinema ha l’obiettivo di spostare la realtà, di mostrarla in un altro modo, da un’altra prospettiva, di modo che la possiamo comprendere meglio. La distanza con il mondo reale va mantenuta al fine di permetterci di pensare. Se confondiamo rappresentazione con realtà cadiamo in una trappola.
Con che meccanismo si trattiene lo spettatore?
La fede dello spettatore è paradossale. Egli crede in una parte di quello che si chiama realismo. E benché il resto sia qualcosa di personale su ciò che vede, questa fede non è mai cosciente. C’è una parte di essa che si poggia nel “proprio universo di riferimento” (n.d.r.), il quale sembra reale ma non è la realtà. Lo spettatore non si fa domande sul realismo di base, sa che un corpo filmato assomiglia ad un corpo della strada. Il realismo è delicato proprio per questo, quando si tratta di un elemento artistico, lo spettatore entra nell’ambito di un sapere: non lo identifica come qualcosa di realistico, bensì come qualcosa di naturale.
Con la tecnologia tutto è possibile?
Siamo solo agli albori della tecnologia. Presto avremo telecamere al posto degli occhi (ride). Vertov lo aveva già immaginato nel suo “L’uomo con la macchina da presa”. Il sistema di protesi va ampliandosi, questo è certo. Ciò conferisce un certo potere all’essere umano. Ed io credo fermamente che sia meglio togliere potere all’essere umano, anziché conferirglielo. Presumibilmente, la logica creativa è una logica che elimina, che rimuove, no? Potremmo dire che entriamo in una specie di delirio ottico, che la psicoanalisi ha definito come “pulsione scopica”. Si tratta del potere che regge il mondo attuale. E tutto ciò va contro il cinema. Non dico che si debba arrivare allo schermo nero, anche se forse non sarebbe male per arrestare questa crescita vertiginosa. Presto non si vedrà più niente oltre al visibile. Vedere ed essere visto allo stesso tempo: un destino assai triste per l’umanità.
I critici di cinema dei Cahiers du Cinéma tracciarono un ponte fra il pensare e il fare cinema. Esistono oggi dei seguaci di questa idea?
Certamente. Io sono uno di questi! Si tratta di coloro che dirigono quelli che oggi si chiamano documentari. Molti cineasti francesi si fanno domande morali e politiche. Sono coloro che risultano maggiormente danneggiati da questo mondo trasformato in spettacolo. Nella fiction non c’è spazio per queste domande. Noi dobbiamo fronteggiare il mondo dello spettacolo. Non bisogna fare film con…ma contro.
Qual’é l’ultimo film in 3d che ha visto?
Avatar di James Cameron. Ho anche avuto altre esperienze tridimensionali come salire scale e corridoi virtuali. È un mondo che mi interessa molto.
I multisala hanno plasmato un nuovo tipo di spettatore?
Storicamente il cinema fabbricò lo spettatore. Il modo in cui lo ha creato non è tuttavia troppo utile per il mercato. È uno spettatore lento e oggi occorre accelerarlo. Lo si può fare attraverso il piano corto, milioni di piani o con lo zapping. Un altro modo per acceleralo è lasciarlo semplicemente fuori della pellicola, di modo che consumi le immagini così come consuma pop-corn. Quest’ultima è un’operazione in corso che per ora non sta incontrando molta resistenza. In un’ora e mezza lo sviluppo della soggettività e lo spettatore sono complici. Un’ora e mezzo di pellicola fanno lavorare il soggetto. Ma, ovviamente, si tratta di un lavoro non redditizio. Al contrario, se lo spettatore si mantiene come consumatore di immagini fuori dal film, si tratta di tutt’altra cosa. Serge Daney diceva che il cinema è lo spettatore. Può esserci una cabina, un proiettore, un’immagine proiettata, ma se non c’é nessuno in sala non c’é il cinema. Il cinema è l’incontro fra lo schermo del cinematografo e lo schermo mentale. Senza schermo mentale, ossia in assenza di noi spettatori, il cinema non esiste.
[da El Clarín, 21.10.2010]
traduzione di Elisa Fiorucci
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