La letteratura in tempi oscuri: la lezione del Levante di Mircea Cărtărescu
di Marco Dotti
«Qual è il colore del tuo sogno?», chiedeva Flaubert a Louise Colet, in una lettera dell’8 agosto 1846. Da quale altrove ci parla? Flaubert sognava di sdoppiarsi. O, forse, non lo sognava affatto: subiva fascino e conseguenze di una forza più forte di lui. Ne nasceva dunque una scissione fra l’uomo delle passioni e l’uomo dello stile.
«Letterariamente parlando – scriverà sei anni dopo alla “solita” Colet – ci sono in me due uomini distinti: uno innamorato delle esplosioni, del lirismo, dei grandi voli d’aquila, di tutte le sonorità della frase e dei vertici dell’idea; un altro che scava e fruga il vero fin dove può, che vuol fare emergere il fatto piccolo con la stessa potenza di quello grande, che vorrebbe far sentire quasi materialmente le cose che riproduce…».
Sembrano parole adatte per tentare un approccio alla poetica densa, affascinante e complessa di Mircea Cărtărescu. Poetica fatta di sdoppiamenti lirici e di scavi, di attraversamento di sogni e di carotaggi del vero, vissuti senza sensi di colpa.
Nella scrittura caleidoscopica dell’autore romeno, poeta (Il poema dell’acquaio, Nottetempo, 2015), teorico e storico della letteratura (Postmodernismul românesc, Humanitas, 1999), romanziere (su tutti, la trilogia Abbacinante, Voland 2015-2018) un posto cruciale è occupato da un volume che la meritoria casa editrice Voland, la prima a capire il suo spessore autoriale in Italia, ha da poco mandato in libreria: Il Levante (pagine 224, euro 17), nella traduzione e per la cura di Bruno Mazzoni.
Concepito nel decennio cruciale degli Ottanta, iniziato nel 1987 e terminato nel 1989, Il Levante è un libro che pone serie questioni sul «fatto letterario», dettagliandole in un invito a un’archeologia dell’immaginario e, al contempo, offrendo molti indizi sulla poetica dell’Autore, testimonianza di una scrittura vorticosa e virtuosa – e qui va reso davvero un grazie al suo traduttore, Bruno Mazzoni, che firma anche una coltissima postfazione, capace di “doppiare” con maestria altrettanto autoriale passaggi e riferimenti storico-culturali altrimenti davvero ostici per il lettore italiano
Che cosa ci dice, in più, un libro fortemente intriso di letterarietà e intertestualità (a partire dal nome del protagonista: Manoil) come Il Levante rispetto ai libri “maturi” Nostalgia, Travesti, Abbacinante? Ci dice che la maturità di un Autore, anche quando teoricamente e teoreticamente attrezzato, non è un accidente postumo, e si valuta in proporzione inversa rispetto alla sua pretesa pedagogica.
Le criptocitazioni contenute nel testo (Ariosto, Dante, Baudelaire, Eminescu, Ovidio per rimanere su nomi di comunque inquietante familiarità) diventano quelle che Carl Gustav Jung definiva criptoamnesie: solo dimenticandosene e consegnandole al caleidoscopio dello stile il dispositivo ludico messo in atto da Cărtărescu non diviene prova di forza o citazionismo. Rovesciando Bloom, la sua è una vera e propria passione per l’influenza.
Il Cărtărescu trentenne (è nato a Bucarest nel 1956 e, oramai, è autore noto e affermato, tradotto in una ventina di lingue) propone già la sua visione fatta di simboli spezzati. Simboli che solo la poesia riesce ancora a far risuonare come tessere ospitali di un passato che, nella letteratura, è tutt’uno con quello spazio del possibile che chiamiamo “presente”.
L’Autore non spiega, spiazza. In un gioco che scombina e ricombina tesserae diverse: René Thom con Gramsci, Che Guevara e i Tristia. In primo luogo, Cărtărescu spiazza creando un’epopea immaginaria, dove fattuale e controfattuale si innervano. Dall’altro, in quello spazio di mezzo (Arendt avrebbe parlato di Zwischen) che è propriamente lo spazio letterario,
Cărtărescu inscrive un desiderio di rivolta (è la tensione chiave di Manoil, il protagonista del Levante che con le armi della poesia incita il suo popolo contro il dispotismo dei tiranni fanarioti) e quindi una tensione di apertura al mondo particolarmente cruciale. La letteratura, in Levante, ha lo statuto etico di una polis parallela: spazio di libertà, di possibilità e di incontro Aspetto ruciale in un libro concepito come canovaccio antisistema e che l’Autore, lungi dall’immaginare la caduta del regime di Ceausescu, non aveva scritto pensando alla benché minima possibilità di pubblicazione.
Il totalitarismo, per sua natura, permea ogni spazio della realtà, ma non i confini del possibile. La jocăreauă letteraria è dunque un aspetto non ozioso dello stile, ma lo strumento che consente di urtare e, possibilmente, spostare quei confini. Lo strumento di un – leggiamo – «bisogno morale di risvegliare» alle libertà civili oppresse.
Detto dell’istanza etica, Il Levante risalta oggi però di un valore primariamente artistico, legato all’idea forte che lo attraversa. Annota Mazzoni nella sua postfazione: «celebrare poeticamente – attraverso rinvii impliciti, riscritture, parafrasi e quant’altro – autori più noti e meno noti, tracciando così un profilo essenziale della storia della poesia romena». Un contro canone neobarocco o postmoderno, a seconda delle prospettive di lettura, che Cărtărescu gioca sui tre registri compositivi classici dell’imitatio, aemulatio e interpretatio.
Rivolgendosi direttamente al lettore, ossia al proprio doppio, l’Autore, ossia il doppio del lettore, cerca di coglierlo in fallo, scoprendosi in fallo. Tantile asincronie, ancor più le pietre d’inciampo in questo viaggio nel tempo che è Il Levante. L’ingiunzione dell’Autore è un appello e una convocazione al lettore: non spiegare, poniti all’altezza – sembra dirgli. Non mentire davanti a ciò che ti mostro, anche se è incredibile. Le pietre cantano, le parole vivono, la poesia è un elemento primario, come l’aria.
Da qui, il sogno come matrice metaletteraria dell’opera. Nel sogno ci si imbatte, si cade, fino a romperne i confini, tremando. Se riproponessimo la questione di Flaubert («di che colore è un sogno») troveremmo in questo libro particolarissimo, organizzato in canti, un’altrettanto particolarissima risposta.
Di che colore è un sogno? Quella di Cărtărescu è una risposta chiara e, al contempo, disarmante: «di tutti i colori del mondo».
L’io narrante si perde, si ritrova e si riperde, tornando su «narrazioni, descrizioni, personaggi, e ti prometto che comparirò ancora, in particolare verso la fine del libro» – così in Levante si rivolge al lettore.
Quanto, scrive l’autore romeno, «del vasto mondo, quanto delle stelle e quanto del cervello, del reale e del sogno mi è possibile percorrere? Quanto dell’inferno e quanto del paradiso, quanto del desiderio e della sofferenza, quanto di quel che è stato un tempo scritto con risate e lacrime potrò ancora io riscrivere, chino sopra le pagine con dedizione?».
I sogni sono sepolcri ma sono, al tempo stesso, pretesti. Sono la materia in cui la realtà inciampa, scoprendo di non essere sola. Perché, scrive Cărtărescu nei dodici canti del Levante, «i sogni sono sepolcri in cui, rinserrato da vivo come il baco nel suo bozzolo di seta, intessi camicie con ali sulla schiena fatte con i peli delle tue ciglia socchiuse. Ovvero i sogni sono alcove dove distendi la tua donna, svestendola della crinolina, e la accarezzi, anche se è cieca e ha un bimbo in grembo. Ovvero, in una piazza deserta, sali sul patibolo, tu il malfattore, tu il boia con mannaia e cappuccio in testa, e sempre tu corso d’acqua pieno di stelle, acqua sonnambula che inghiotte il tuo cadavere. Tu, sogno, porta di cristallo oltre la quale urla la fiera dal terribile odore che ha il tuo volto, ma gli occhi di qualcun altro senza nome!».
Ma il sogno è, al tempo stesso e «chiaramente un pretesto perché metta di nuovo bocca nella storia che dipano». Perché il gioco del leggere e dello scrivere non finisce mai.
articolo pubblicato su Alias de Il manifesto, domenica 7 luglio 2019
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