La mafia è un concetto astratto, si vince con la logica
di Manlio Sgalambro
Riproponiamo un’intervista di Francesco Battistini al filosofo catanese, apparsa l’11 febbraio del 2005, sul Corriere della Sera. Sgalambro riprende qui una questione aperta anni prima, quando in un dialogo con Giuseppe Raciti dichiarava: «Mi spingo a dire che affermare “La mafia non esiste” è più decisivo che sostenere il contrario. Eliminando il concetto di mafia restano solo i mafiosi, cioè degli individui insignificanti e spesso stupidi. Una feccia senza significato che riceve la propria luce proprio da quell’astrazione che si insiste a affermare, ignorando così che l’astrazione non si può distruggere con la polizia, la giustizia e così via, ma con una buona logica. Mentre i mafiosi, questi piccoli insignificanti individui, sì» (“Fino alla fine del mondo”, Ideazione, n. 6, 1997).
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Oddio ci risiamo, dice. Da mesi, anni, era calato il silenzio e adesso rieccoli: l’omertà e l’antimafia di professione. Il picciotto imboscato e il lenzuolo imbiancato. Le Gabanelli impegnate che ricordano il pizzo e i Cuffaro indignati per lesa sicilianità. L’ una che fa il suo mestiere di giornalista e sulla Rai strappa il velo del risaputo (si paga il racket!), l’ altro che da presidente della Regione ottiene una trasmissione rammendatrice (l’immagine della Sicilia è un’ altra!).
Manlio Sgalambro s’annoia un po’: «L’immagine della Sicilia… C’è, come no? Ma cercarla in faccende di Cuffaro e di Gabanelli è come cercare un tesoro fra le spine dei fichi d’ India. Cercare che cosa, poi? La griglia mafiosa è una gabbia. È chiaro che ha ragione la Gabanelli e che Cuffaro vuole cancellare a suo modo la mafia, con un tratto di parole. Ma contesto che la mafiosità sia una chiave di conoscenza».
Sono i giorni delle candelore, a Catania, e la piazza sotto casa Sgalambro è da cartoline seppiate: un gruppo d’ottoni in processione che s’ agita per Sant’ Agata, i giornali che strillano l’arresto di Pippo Ercolano, ultimo boss dei Santapaola. Dopo 81 anni e decine di titoli per Adelphi, una fama senile a scrivere canzoni con Franco Battiato, dalla finestra il filosofo guarda la morte del sole e si permette di provocare: che palle, questa mafia! La mafia dà lavoro. E Sciascia, basta con questo Sciascia, che riposi in pace! Un pericoloso divertissement: «Non cambio idea. La mafia è un concetto astratto. E gli astratti si distruggono con la logica, non con la polizia. Ma l’ ha visto in faccia, questo Ercolano? Gli guardi l’ occhio, c’ è un essere meschino che farebbe schifo anche ai ladri di mercato. E noi siciliani è con uno così che dobbiamo confrontarci? Lasciamolo alla polizia, quello! La polizia può arrestare la mafia. Eliminarla, mai. Quello che importa è la Mafia maiuscola, concetto generale e perciò indistruttibile».
L’isola dei mafiosi è un reality che non appassiona Sgalambro: «Ma sì, parliamone. Però è un chiacchiericcio. La mafia in sé non mi fa venire in mente nulla. Come la patria, i morti di Solferino. Cose vetuste. Ricorderà quando si distingueva tra mafia e mafiosità: dire che tutto era mafia era come dire che nulla era mafia. Bisogna restringere il concetto, riportarlo nei suoi giusti confini. Perché ai primi del Novecento, quando la mafia si struttura, qui nascono anche la biblioteca di Croce, l’idealismo gentiliano, per non dire del solito Pirandello. Un mondo lontanissimo dalla mafia. Allora, scoprite anche questa Sicilia che lavora alla cultura, non solo cose orpellanti come le arance o il turismo. La Sicilia detesta la sua storia, la subisce come un fastidioso rumore. Il delitto così o cosà, il superboss e il pentito impiccato. Qual è la vostra Sicilia? Tomasi di Lampedusa o Provenzano?». Magari quella di Sciascia e del Giorno della civetta, una letteratura rimossa dalle coscienze…«Sciascia era lo scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione s’ è esaurita. Sciascia non ci serve più. Occorre una nuova riflessione, un’ altra coscienza siciliana». Un recente contributo l’ha offerto il ministro Lunardi, quando ha detto che con la mafia bisogna convivere…
«La mafia è l’unica economia reale di quest’ isola. Mi chiedo una cosa: non ci fossero stati i gangster degli anni Trenta, oggi avremmo questa Chicago? Ci sono fenomeni della storia, ricchezze che non si possono fare con le mani pulite. Qui la ricchezza è sempre stata fondiaria, senza investimenti. Non abbiamo avuto le industrie del Nord, se devo pensare a una dinastia imprenditoriale mi vengono in mente solo i Florio. Volete che questa regione accumuli ricchezza? La ricchezza è per sua natura sporca. E la nostra fortuna economica non è altro che bande, strozzinaggio. A Catania, nel 1994, i famosi Cavalieri furono eliminati moralisticamente. Ma erano l’ unica economia possibile e portavano benessere, nonostante quel che diceva in giro quel piagnone di Claudio Fava». A Fava hanno ammazzato il padre, per la verità… «La retorica non ci serve più. Se vogliamo che l’ economia mafiosa sia un’ esistenza temporanea, se vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico della diabolica mafia, non possiamo stare a contemplarla come una statua immobile. A un intellettuale si chiede di combatterla in un altro modo. Il problema non è l’esistenza della mafia: è la valutazione che se ne fa. Perché c’ è tutto questo? Non cade dal cielo, è un fenomeno economico ben radicato. E allora gli intellettuali producano buone opere, i birrai facciano buona birra: inutile cogitare tutti quanti di mafia, perdere tempo a parlarne.
Lavorare il proprio giardino, alla Candide. Tu cancelli le ombre della mafia operando più di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo. A te è stato dato questo lavoro, fallo bene, esplodi, fai vedere che cosa puoi fare anche qui. A noi deve importare dei ladri di passo? Ci offende il giornale tedesco che parla di Baggio “nell’ isola della mafia” solo perché forse giocherà nel Palermo? Ma questa è antimafia di maniera, chiacchiera inconcludente». Una volta, Ferrarotti l’ accusò di omertà. Perché, lei e Battiato, non avete mai scritto una riga di mafia? «Perché dovremmo? Le briglie, le
tengono in mano giudici e poliziotti. Non abbiamo criteri d’ interpretazione che non siano quelli forniti dalla polizia. Siamo succubi delle conferenze stampa, in balìa delle veline di questura. Mi permetta di dubitarne. Una volta c’ era il giornalismo indipendente di Mauro De Mauro, ci furono i tumulti nella cattedrale di Palermo, quando la gente si ribellava. Momenti di contestazione dell’autorità che non ci fa sapere. Oggi sono momenti più brutti, insignificanti». Allora aveva ragione Sciascia: la Sicilia è una metafora di quest’ Italia un po’ narcotizzata, incapace di reagire…
«In un certo senso. Ma non si può vivere a spese di Sciascia in continuazione. Bisogna adoperare concetti nuovi. Basta col gioco della spartizione: è mafioso o no? Domande da periodo di lotte religiose: è luterano o cattolico? In Sicilia sono arrivati anche i laici, per fortuna. Ricordo Goethe a Messina, dopo il terremoto calabro-siculo del 1783: vede per la strada giovani suore che camminano altere con la pancia. La vita in loro si era risvegliata al di là dei dogmi e delle tragedie. Esibivano le loro grandi pance! Qui, la vita riesce a fare questo. Ma bisogna sprigionarla, levarla dalle gabbie della banalità».
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tysm literary review, Vol 7, No. 12, March 2014
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