La malattia populista
Francesco Paolella
Perché no? È questa la domanda che rimane in testa leggendo questo nuovo saggio sul populismo, firmato da Marco Revelli (Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017). Perché no? Perché non votare per Trump o Le Pen o per uno dei tanti populismi italiani? Cosa dovrebbe trattenere l’elettore sfiduciato, tradito, spaventato dal mondo e dalle sue terribili mutazioni?
Si dice che il populismo postnovecentesco o neopopulismo – che Revelli definisce giustamente “malattia senile della democrazia” – non sia il male in sé, ma il sintomo del fallimento del sistema che bene o male ha retto il nostro mondo dopo il 1945. La democrazia liberale non funziona più a dovere: non riesce più a pesare sulle scelte economiche, non riesce più a selezionare i propri vertici e, soprattutto, non riesce più a rappresentare il “popolo”, la “gente”. La quale gente vive appunto uno stato d’animo da panico intermittente ma in fin dei conti continuo, fatto di frustrazione, rabbia e desiderio di vendetta verso le élites che l’hanno tradita. Il populismo attuale ha appunto nell’idea di tradimento un elemento essenziale, da cui segue quella – altrettanto pericolosa – del bisogno sempre più diffuso di un rovesciamento, di una cacciata di chi sta in alto, per restaurare la centralità del “popolo” e dei suoi diritti.
Va da sé, questo bisogno di cambiamento non ha alcuna velleità rivoluzionaria. La vittoria dei poteri e della cultura neoliberali ha determinato ormai lo sfaldamento definitivo delle classi sociali, così come la separazione dell’ideologia dalla politica. Il neopopulismo non ragiona più dividendo il campo fra destra e sinistra, ma solo fra alto e basso. Il “popolo” si rappresenta e si vuole vedere come un popolo di vittime (della globalizzazione, delle migrazioni, delle banche, della corruzione…) – e certamente non è senza fondamenti questo suo vittimismo. Pensiamo alla vittoria di Trump lo scorso anno. Ormai sappiamo tutto della white working class, di come abbia pesato il diffuso senso di abbandono e di impoverimento nelle ultime elezioni. Si sono manifestate due Americhe contrapposte:
“Due mondi antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, la cui differenza sembra rianimare un cleavage – una linea di frattura – che i politologi avevano usato ampiamente nel descrivere il processo di State building (e in parte anche di Nation building), cioè di formazione dei moderni Stati nazionali, e che sembrava andato relativamente in disuso nella modernità matura: il cleavage Centro/periferia, o città/campagna. L’America di Trump è l’America rurale delle case sparse e delle farms perdute nelle praterie, quella dei villaggi semispopolati e delle cittadine di provincia sempre più sconnesse dalle rispettive capitali, l’America delle periferie, di tutte le periferie perdute e sperdute rispetto ai propri centri. L’America di Hillary è invece l’America metropolitana, delle grandi e soprattutto grandissime città” (p. 45).
Ovvero, l’America di chi si sente dentro (connesso, “in movimento”…) contro quella di chi si sente fuori o, meglio, “buttato fuori”, semmai da nuovi cittadini stranieri. Ma non pensiamo si tratti semplicemente di una lotta di poveri (impoveriti) contro ricchi. La rabbia e la paura non valgono solo per ciò che si è già perso (in termini di reddito, di status sociale, di sicurezza), ma soprattutto per ciò che si potrebbe perdere. La paura dominante oggi non è tanto quella di chi è escluso, ma di chi è da sempre incluso ma ormai si sente messo ai margini.
Possiamo leggere centinaia di saggi sul livello d’istruzione (più basso) o sul tasso di impoverimento (più alto) di chi ha tradito i democratici americani per votare Trump rispetto a chi è rimasto “dalla parte giusta”. Ma, appunto, ritorna la domanda dell’inizio: perché no? Perché rinunciare alla soddisfazione di vendicarsi finalmente, questa volta su una dei Clinton? A cosa si rinuncia? Per cosa sacrificarsi?
Questo modello, questa nuova divisione funziona anche in Europa, e il voto inglese sulla Brexit mostra bene quanto pesi questa nuova specie di rivolta dei “deprivati” (p. 64). Operai impoveriti ed ex-ceto medio contro chi ce l’ha fatta o pensa di farcela: fabbriche arrugginite contro Erasmus, cinquantenni disoccupati contro startuppers.
In tutto questo – e il laboratorio italiano lo spiega bene – c’è stata la scomparsa irrimediabile della sinistra. È la destra che, trovandosi di fronte il vuoto, ha iniziato già da tempo a parlare delle e per le classi operaie occidentali (cioè, per ciò che ne resta). La sinistra si occupa di “diritti”, di “integrazione”, di “sviluppo”, trascurando chi resta indietro, chi non vuole o non può reggere l’innovazione. Ben si capisce, lo stile politico neopopulista nasce dal basso ma continua a essere sfruttato dall’alto. Per restare a Trump – ma la contraddizione qui non è il problema essenziale –, il nuovo presidente, che è indubbiamente un privilegiato, è stato eletto per combattere i privilegi.
Possiamo consolarci pensando al fatto che il quadro è ancora fluttuante e mille cambiamenti possono ancora avvenire, e non per forza negativi. Sicuramente, dobbiamo iniziare a fare i conti con il tramonto della democrazia rappresentativa e a fare a meno di tanti “corpi intermedi” (i sindacati, gli stessi partiti) che, una volta, riempivano di senso e strutturavano la nostra vita sociale. Speriamo che la nuova post-democrazia non si riduca però soltanto a simulacri di elezioni, fra oligarchie sempre in lotta ma sostanzialmente uguali.
[cite]
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philosophy and social criticism
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