La piega mistica
Luciano Parinetto
Il tema che ho scelto [*] [**] dipende dal fatto che recentemente mi sono messo a tradurre un autore molto interessante, tedesco barocco (siamo alla metà dei seicento), poeta e mistico allo stesso tempo. Si tratta di Johannes Scheffler, meglio noto come Angelus Silesius. Vorrei entrare direttamente in rgomento, leggendovi qualche verso di questo grande poeta e grande mistico. Si tratta di un poeta concettualmente densissimo e dialettico, che si esprime generalmente i distici; poi vedremo l’importanza della sua metrica.
Io so che senza me dio non può vivere
neanche un istante. Se divento nulla
è necessario che egli renda l’anima.
Quanto dio sono grande ed egli è piccolo
quanto sono io. Non è dunque possibile
che egli stia sopra me, che io gli stia sotto.
Se per te vuole vivere, morire
perfino dio dovrà. Senza la morte
potresti ereditarne tu la vita?
All’abisso di dio, con grandi grida,
l’abisso dei mio spirito si volge
sempre. Sai dirmi qual è il più profondo?
Valgo per dio quanto per me egli vale.
Io dò una mano a custodirgli l’essere,
così come egli fa con l’esser mio.
Dio veramente è nulla e se è qualcosa
in me soltanto lo è: quando mi sceglie.
Dio si è perduto: cosa inconcepibile,
perciò dentro di me vuole rinascere.
Alto è nulla. Sono io la più alta cosa.
Anche dio senza me sarebbe poco.
Io sono quel che sono, dio ciò che è.
Ma quando l’un dei due bene conosci,
di lui, di me, tu allora hai conoscenza.
Tanto il divino eterno deve all’uomo,
che senza lui di testa e cuore è privo.
Se dio per me è la fine della fine,
e se sono il suo inizio, allora in me
l’essere suo risiede e in lui trapasso.
L’altro io di dio sono io. Soltanto in me
trova chi eguale gli sarà in eterno.
lo sono un monte in dio. Debbo scalarmi
da me, se il volto dio deve mostrarmi.
Puoi nascere da dio? Puoi partorirlo?
Allora entrare e uscire ti è possibile.
Nulla ti eleva sopra te che nulla
diventare. Più tu non sei che nulla,
più la divinità sta in tuo possesso.
Diventa quel che sono: un uomo, dio.
Perchè lo fa? Perchè prima ero lui.
Se vuoi giungere a dio, diventa dio.
Se come lui non sei, non si comunica.
Questo è un brevissimo saggio dei moltissimi distici del Viatore cherubico di Angelus Silesius, che sono distribuiti in sei libri.
Intanto vorrei farvi notare, per collegarci poi al tema dei convegno, che quello del mistico, in particolare poi anche quello di Silesius, è anche un luogo dei l’immaginario. Ed è un immaginario molto particolare, perché compito dei mistico è in qualche modo descrivere l’incircoscrivibile. Perché dio non è, per definizione, circoscrivibile, soprattutto concettualmente. Proprio per ciò il mistico usa la dialettica; proprio per ciò usa l’ossimoro; proprio per ciò va usando le immagini. Se voi leggete il testo di Silesio, ci trovate moltissime immagini. Prima abbiamo sentito l’immagine delmonte; c’è l’immagine del mare; c’è l’immagine (e questa è una particolarità di Silesio) degli strumenti e degli elementi alchemici ed è un punto sul quale ci si dovrebbe soffermare; c’è l’immagine della sorgente; c’è l’immagine della stella dei mattino, l’immagine della rosa, l’immagine della primavera, eccetera.
Insieme si trovano immagini che potremmo definire interiori, e non solo: immagini di tipo psicologico ed anche dell’immaginario erotico e familiare: il figlio, il padre, lo sposo, la fidanzata…
D’altra parte, l’immaginario non è solo qualche cosa di figurativo, ma è anche un immaginario, per esempio, letterario; per esempio, poetico; qualcuno mi dice che è anche matematico, quindi occupa una vasta gamma…
Il teologo e poeta Silesio ha quindi legittimamente a che fare con l’immaginario. Pensate a quella sua bellissima immagine, molto prometeica direi, secondo la quale quello della divinità è un mare; però è un mare grigio, e siamo noi che aggiungiamo i colori a questo mare: di nuovo viene messo l’accento sull’uomo. Naturalmente è particolarmente difficile, per il mistico, descrivere o dare una figura di quello di cui parla. Ci sono dei mistici che lo dicono molto chiaramente:
L’essere dell’eterno puoi tu esprimere?
Uomo, vietati dunque ogni discorso.
La purezza perfetta non ha forma,
né immagini né amore: di attributi
nuda è dei tutto, come dio in sua essenza.
Puoi nominare dio con tutti i nomi,
ma con nessuno di essi puoi conoscerlo.
Per questo la mistica usa la dialettica, per questo la mistica usa l’immagine, quando le è possibile. Se facciamo un salto, e andiamo da Silesio a Jung, che tra l’altro ne parla, Jung appunto ci dice che l’inconscio ci invia delle immagini; in particolare quelle di dio sono immagini che l’inconscio propone alla coscienza; in questo caso, Jung si propone come erede dell’immaginario di questa mistica.
Ma si vedrà che il mistico non usa solo le immagini, ma che queste immagini, o anche dei concetti, molte volte diventano critica, critica della politica, critica dei mondano, e quindi qui l’immaginario si collega coi politico. Per spiegarmi meglio faccio un confronto tra un grande politico, teorico della politica dei Cinquecento, il famigerato Bodin, che è stato anche un persecutore di streghe, il quale, nella sua République scrive: «Togliendo le parole mio e tuo si fanno rovinare le fondamenta di ogni repubblica».
Leggiamo un distico di Silesio:
Nelle fauci infernali nulla scaglia
più di mio e tuo, parole detestabili.
Fate il confronto, guardate la differenza che c’è tra l’impostazione del mistico e l’impostazione del politico.
Purtroppo Silesius è un personaggio molto complesso, e io, per rendervi conto della complessità di Silesio dovrei parlarvi in maniera molto analitica di personaggi che lo precedono: cercherà di farlo il più sveltamente possibile.
C’è una disputa tra i critici sull’originalità di Silesio; qualcuno dice che non è affatto originale perché tutti i suoi temi, tutti i suoi concetti si ritrovano nella grande mistica tedesca precedente.
Questo è vero, ed è perciò che debbo parlare degli altri mistici.
Però c’è un altro aspetto molto importante: Silesio è il primo dei poeti mistici, o forse il più interessante dei poeti mistici, e da questo punto di vista può riacquisire quella originalità che gli si nega da altri punti di vista; non solo: Silesio riesce a concentrare nel distico, in due versi, interi trattati di teologia mistica o interi capitoli di teologia mistica, con una potenza concettuale e dialettica che è stupefacente. Quindi non sarà originale per i contenuti, ma è originalissimo per la sintesi e per la resa, attraverso la metrica, di questi concetti; insomma, qui la teologia mistica diventa anche poesia. Ma questa poesia ha dei contenuti che risalgono a prima di Silesio, al medioevo. Un personaggio che va, a questo punto, nominato è Meister Eckhart, classico del pensiero mistico. Meister Eckhart che, attraverso la tradizione che ne raccoglie i concetti, se non direttamente, ma forse anche direttamente, trasmette specifici contenuti a Silesio.
Vorrei soffermarmi su un particolare: quando uscirà la mia traduzione di Silesio, forse qualcuno si scandalizzerà per il fatto che sistematicamente il termine dio si leggerà scritto in minuscolo. È scritto in minuscolo per ragioni molto precise: per ragioni grammaticali, per ragioni teologiche e per ragioni anche interne. Per ragioni grammaticali, perché dio è il nome di un concetto, e i concetti in italiano si scrivono con l’iniziale minuscola; in tedesco, almeno nel tedesco di oggi, da dio a capitale a merda, tutto è maiuscolo! Ma ci sono ragioni più importanti, più interne. Per esempio, i manoscritti delle prediche di Eckhart scrivono dio in minuscolo.
Non è neppure semplicemente una questione di scrittura o di grammatica. Voi sapete che, a un certo punto della storia (ma anche della cultura e della teologia tedesche) arriva il signor Lutero, che mette a posto tante cose in Germania e mette a posto anche la grammatica, comprese le maiuscole. Dio è scritto in minuscolo per ragioni molto profonde in Meister Eckhart. Il quale ha un metodo d’approccio, per esempio alla Bibbia (voi sapete senz’altro che tutti i teoiogi e tutti i mistici partono, per le loro meditazioni, magari da un versetto della Bibbia), estremamente interessante. Per esempio, si imbatte in un versetto di questo genere: «Nulla ègrande come dio». Bene, come lo legge? lo legge: «Il nulla è grande come dio». Dio uguale nulla!
Badate che c’è qualche aspetto della kabala che si avvicina molto a questa lettura di Meister Eckhart.
Proprio in questo periodo, voi sapete che Eckhart girava per l’Europa, andava nell’università parigina, vi teneva cicli di lezioni, poi tornava ai suoi conventi; dalla Spagna, in quello stesso periodo, si erano mossi dei portatori dei punto di vista kabalistico che si stava, per l’appunto, diffondendo in Europa. Nella kabala c’è una lettura simile: secondo la Bibbia, il mondo è stato creato dal nulla. Ma il kabalista legge questo “nulla” come dio. È allora dio/nulla che ha creato il mondo! Come vedete, siamo vicino alla idea di Eckhart. Ma c’è, vi dicevo, una ragione molto più profonda. C’è una bella interpretazione che Eckhart fa di un altro famoso passo biblico, sul quale moltissimi hanno fornito interpretazioni: il passo del roveto ardente, quando la divinità, che non si vede, dal roveto parla a Mosé e Mosé le domanda chi è ed essa risponde… Ecco il punto: non si sa cosa gli risponde, o, meglio, dipende dalle traduzioni. Qualcuno traduce, ontologicamente, «io sono colui che è». Ernst Bloch preferisce tradurre, invece, «io sarò quel che sarò», che, come vedete, è tutt’altra interpretazione: ma l’ebraico permette entrambe le traduzioni. C’è invece una traduzione, più sfuggente, ma anche più suggestiva: «sono quel che sono» (cioè: non occuparti di me!).
Meister Eckhart sceglie questo tipo di traduzione. In una sua predica dice: come quando si incontra qualcuno per la strada di notte, e questo qualcuno non vuoi farsi avvicinare e riconoscere e alla domanda «chi sei?» risponde: «sono quel che sono», proprio per non farsi cogliere, dio si comporta nella stessa maniera.
Si può andare molto più in là, perché, per Eckhart, a dio non converrebbe l’essere. Qui possiamo introdurre complicazioni enormi con altri personaggi, come, per esempio, il cardinal Cusano, dialetticissimo personaggio, che ha glossato i manoscritti di Eckhart. Anche lui dice qualcosa di simile: a dio non conviene l’essere. Ma perché? Perché l’essere è precisamente una piaga in cui ogni essere determinato è (omnis determinatio est negatio) negazione dell’altro essere. Questo non può riguardare dio, quindi dio è respinto fuori della zona dell’essere, e quindi dio coincide coi nulla.
Vado molto, sveltamente, perché non ho il tempo di farvi una lezione di tre ore su queste cose, anche se mi piacerebbe molto, perché sono, a mio avviso, concetti molto suggestivi, La cosa interessante è vedere l’applicazíone di questi concetti al piano, chiamiamolo così, del mondano.
Eckhart distingue dio-nel-mondo, il dio di cui tutti parlano, di cui si servono i signori feudali, i preti, per maneggiarlo per i propri interessi, da questa divinità, che coincide con il nulla. E difatti usa due termini: gott, dio, gottheit, divinità. Questa gottheit, questa divinità è quella cosa inafferrabile, non definibile neppure come cosa, che appunto coincide con il nulla. Ciò permette a Meister Eckhart una enorme libertà nei confronti di dio. Perché dio è il dio dei preti, limitato all’interno del mondano, è un divino da cui si può tranquillamente prescindere e che viene tranquillamente criticato. È un punto di vista estremamente audace. Estremamente audace è anche un’altra cosa. Se il percorso del mistico è risalire fino a dio, quello vero, la gottheit, il nulla; suo compito sarà quello di coincidere con lui e quindi avviarsi, a sua volta, verso il nulla, annichilirsi. E questo può accadere per mezzo della Verlassenheit, per mezzo dell’abbandono. Abbandono vuol dire abbandonare tutte le cose mondane, quel famoso “mio” e “tuo” che abbiamo visto considerato anche in Silesio; vuol dire anche abbandonare tutte le gerarchie sociali; vuol dire anche abbandonare i] proprio io, poiché anche l’io è una determinazione, una negatio. Quindi: coincidere con quella zona dell’anima difficilmente attingibile nella quale dio risiede, perché questa zona dell’anima gli è uguale. Cioè, c’è il grund, il fondo dell’anima, che è qualcosa di increato, di eterno, che è; e qui bisogna un po’ avere in mente la teoria dei luoghi naturalí di Aristotele: cosi come tutti gli elementi vanno verso il loro luogo naturale, questo punto dell’anima, coincidendo col vuoto, coincide con il vuoto divino e quindi il vuoto divino non può non risiedere lì. Quindi c’è una sovrapposizione di gottheit (divinità), e anima, che mette l’uomo in situazione completamente diversa nei confronti di dio. Nei confronti di dio Nomo èappunto un eguale.
Si tratta di concezioni estremamente prometeiche e di grande interesse. Pensate un po’ al dio di quel momento storico, al dio dei preti, al dio dei signori feudali, davanti al quale dovevano inginocchiarsi i contadini. Qui si scova un punto sconosciuto dell’anima, che coincide con la divinità e che non è in dipendenza dalla divinità, ma è la stessa cosa: non si parla di somiglianza, si parla di eguaglianza. Qui viene fuori anche una figura molto interessante, che è la figura della figliazione. Eckhart scarta una serie di letture teolgiche della divinità intesa come totalmente altro, come tremendum e via di seguito, perché la divinità siamo noi stessi, e se siamo figli della divinità, siamo figli dall’eternità della divinità.
Qui c’è un’altra cosa sconvolgente: il cristianesimo si basa sulla credenza che dio ha inviato sulla terra suo figlio con il compito di redimere l’umanità; si basa, insomma, sul divenire uomo di dio. Questa cosa pare in Eckhart completamente scavalcata. L’uomo, qualsiasi uomo degno della divinità, cioè che ha scoperto quel famoso grund divino
dell’anima, è figlio di dio, non c’è bisogno di questa mediazione. Il cristianesimo viene messo completamente tra parentesi. Non a caso Eckhart venne considerato da Giovanni XXII un eretico; anzi, un figlio dei diavolo addirittura. Attraverso questo svuotamento dell’uomo si arriva a farlo coincidere con la divinità. Meister Eckhart procede con una logica, direi, feroce, per cui, se l’uomo è uguale a dio, e se dio è padre dell’uomo, allora l’uomo deve essere padre di dio!
A questo punto possiamo capire certi distici di Silezio, dove si dice: «Noi siamo la sorgente della vita»; noi, non la divinità! C’è un rovesciamento dall’uomo a dio: l’uomo sta all’origine; dio è una conseguenza!
Se questo è vero, se noi, per coincidere col divino, non dobbiamo lasciarci accalappiare da niente di ciò che è mondano, anche la nostra azione etica procederà in maniera del tutto diversa da un’azione normale: sarà un’azione… senza perché! Qui molti hanno visto addirittura un inizio di etica kantiana, cioè l’invito a fare il bene per il bene, non in vista di qualcosa d’altro, che non abbia a che fare con il bene. Un corollario, molto interessante, di questa etica, è che essa non è misurabile, che non ha niente a che fare con il quantitativo, poiché è totalmente basata sul qualitativo, e quindi esclude che qualsiasi atteggiamento etico possa avere a che fare coi numero. Si vedranno poi in Silesio le conseguenze, diciamo così, anticapitalistiche (prima ancora che il capitalismo si sviluppi) di una concezione di questo genere.
Saltando molto dell’esposizione che vi volevo fare (ma il tempo è tiranno!), passo a un altro personaggio importantissimo per capire Silesio, ed è Böhme.
Anche qui abbiamo fatto un salto di secoli.
In Böhme c’è un annuncio di molte tematiche di Silesio. Voi vi ricorderete che Hegel vede in Böhme il primo filosofo tedesco, e lo elogia moltissimo. Anche qui c’è una sovrapposizíone di temi rispetto a Eckhart, perché il dio di Böhme, oltre ad avere tutte le caratteristiche dei dio di Eckhart, le complica con altri aspetti, dovuti alla cultura rinascimentale. Per esempio, l’aspetto alchemico, cui prima si accennava. Il dio di Böhme è il salitte o salniter, cioè il salnitro, che possiede, allo stesso tempo, degli aspetti di tipo concreto, materiale, e aspetti di tipo spirituale e la cosa molto interessante (e non è un caso che Hegei si occupasse di Böhme) è che questo salitter è il dio non noto ancora a se stesso: è il quellen, lo scaturire che va verso il suo proprio autoriconoscimento nell’altro da sé. Si presenta proprio come un divenire dialettica, per cui dio sbocca nell’uomo, il quale è il riconoscimento di dio, che si autonega e nello stesso tempo si realizza (proprio per dialettica) nell’uomo.
La Verlassenheit, l’abbandono, tema, come s’è visto, molto eckhartiano, riappare in pieno anche in Böhme. Io vorrei, se me lo lasciate fare, leggere una breve pagina di Böhme a proposito dei rapporto che c’è tra Verlassenheit, da una parte, e proprietà dall’altra.
Se ti auguri che tutto ti sta equale, bisogna che rinunci a tutto, che i tuoi desideri si allontanino da ogni cosa, che ti auguri di non possedere in proprio alcuna cosa. Quando infatti prendi qualche cosa che desideri, la fai entrare e la cogli come tua proprietà. Questo diventa una cosa con te, ed opera in te in una stessa volontà; e così sei obbligato a prenderne cura e proteggerla come tua propria sostanza. Ma se nei tuoi desideri non ricevi nulla, sei completamente libero, e domini insieme tutte le cose.
Vedete come qui sia già pronta in nuce la critica alla reificazione. L’uomo che è preda della cosa, l’uomo che non è più tale, perché si è fatto riempire dalle cose; ricordatevi il verso di Silesio letto prima: «Mio e tuo sono parole detestabil». Viene fuori da questa tradizione.
Si parlava prima di figure e di immagini. In Böhme troviamo un’immagine (che poi ritornerò anche in Silesio) addirittura scandalosa. È l’immagine della fidanzata di Cristo. Böhme, che aveva moglie e figli, ad un certo punto, perseguitato dai preti dei luogo, che erano preti protestanti, scrive al Consiglio della sua città, per protestare contro questa persecuzione e, tra l’altro, si lascia scappare una cosa che sicuramente a quelle pie orecchie sarà sembrata molto scandalosa. Scrive Böhme, che il salvatore, cioè il suo Cristo (badate bene che si tratta di un Cristo alchemico) «mi ha offerto il suo amore fidanzandosi con me nell’intimità della mia anima». E, in altri luoghi, Böhme si definisce «la nobile fidanzata» di Cristo! Queste espressioni pittoresche non debbono assolutamente meravigliare. Ve ne leggo una di Lutero, che mette a posto le cose. Lutero ci dice: «ll cristiano gode di dio, si apre intero a lui, da lui si lascia penetrare passivamente, passive, sicut mulíer ad conceptum». Quindi si tratta di una figura teologicamente non scandalosa, anche quando poi la vediamo riaffiorare nel termine “fidanzata” di Böhme. Vi è però una grande differenza: in Lutero si tratta di una dipendenza da dio, di un dispotismo assoluto di dio rispetto all’uomo; invece in Böhme si tratta di un rapporto tra eguali, come era in Eckhart. Sempre in quest’opera, che vi sto citando, di Böhme (che è un intreccio di cose teologiche, di cose mistiche, di cose alchemiche) c’è una frase, riferita particolarmente agli alchimisti, che è di enorme suggestione, e che si trova anche in Silesio. In Silesio è più mascherata, ma se abbiamo letto Böhme, possiamo capirla meglio. Scrive Böhme, che il compito dell’alchimista è diventare ciò che cerca. Troviamo questo concetto in un distico di Silesio, e, poiché il distico è riferito al cristiano, capiamo che questo cristiano è anche un alchimista. Difatti c’è tutto un intreccio di cose alchemiche anche in Silesio. Sul quale purtroppo non v’è tempo per sostare.
Se facciamo un bel salto, e andiamo, ben oltre Silesio, a un celebre romanziere svizzero di lingua tedesca, che è Gottfried Keller, il quale scrive Il verde Enrico, un famoso Bíldungsrornan dell’ottocento, a un certo punto, verso la fine dei romanzo (sono seicento pagine molto fitte!), v’è il seguente episodio: in un castello di nobili, all’ora dei thé, il cappellano intesse una conversazione con i nobili signori e coi loro amici, e si porta dietro un libriccino, perché questi nobili signori sono un po’ increduli, un po’ atei e, a suo parere, bisogna istruirli in qualche maniera. Ed ecco che il cappellano cita una collezione di classici dei misticismo tedesco, tra cui vi è un testo di Silesio. Lo prende e comincia a leggerlo. E tutta la compagnia ne è molto felice, perché, come si è visto dai pochi versi che vi ho letto, il personaggio è molto interessante. Senonché, a un certo punto, il conte strappa dalle mani dei religioso il libro, legge un dozzina di questi distici, e termina dicendo: «Ma non vi sembra di aver sentito il nostro Ludovico Feuerbach?» A questo punto c’è stato un rovesciamento dialettico: il mistico Silesio diventa l’ateo Feuerbach. Il conte aggiunge: «Se quest’uomo vivesse ai nostri giorni, sarebbe sicuramente un filosofo dei tipo di Feuerbach». Poi comincia a punzecchiare il cappellano, dicendogli che non si è reso conto che costui in realtà non è quello che appare a prima vista (io sto parlando sempre dell’opera principale di Silesio). «Guarda la dedica», dice il conte: «intanto costui si prende la briga di dedicare la sua opera a dio, poi si firma “il tuo sempre ed ora spasimante”. Ma vi sembra», aggiunge, «che questa sia una dedica seria? No, questa è una presa in giro». Troviamo, insomma, proprio il tentativo di rovesciare in pieno questo mistico nel suo contrario. Direi che, muovendo da questa lettura dialetticamente rovesciata di Keller, si può iniziare un’indagine che tenga presente il verso e la metrica di Silesio, per tirarne alcune conseguenze, che io ritengo interessanti. Vi leggo un altro distico, che presenta un ossimoro di Silesio.
Morte sovrana è quella che dà vita,
vita che vien da morte è la più nobile.
Come vedete il distico è diviso in due e da una parte un elemento è il contrario dell’altro e nella seconda parte dei distico si rovescia la prospettiva della prima parte. Direi che dobbiamo intrattenerci su questa struttura un minuto, perché ne vengono fuori cose sicuramente interessanti. C’è un critico, abbastanza vecchio ormai, di Silesio, Benno von Wiese, che ha studiato in maniera particolare lo stile metrico di Silesio, e ha trovato che i due (solitamente sono due, ma a volte sono tre o quattro) versi di Silesio, dell’epigramma silesiano, si collegano, nella loro struttura antitetica, o per inversione, o per opposizione, o per negazione della posizione. Cioè sono la perfetta trasposizione, sul piano della metrica, della dialettica mistica di Silesio e dei suoi contenuti dialettici.
Guardiamo, in particolare, la forma metrica per inversíone, cioè la connessione dei due versi per inversione. Il rapporto dell’anima e di dio, di dio e dell’uomo, delle due funzioni, enunciato in un primo verso, si trova invertito nel secondo. Il soggetto dei primo diviene allora predíccito dei secondo e viceversa. Chi conosce Feuerbach, vede che qui, nella metrica di Silesio, è anticipato quanto, nella sua filosofia, dirà Feuerbach proprio a proposito di dio.
C’è un’altra cosa interessante da osservare. Dicevo in apertura che Silesio è un poeta barocco. Ed ecco che viene fuori il tema della piega, che è poi il titolo che ho dato a questa relazione. Cosa è la piega? La piega, in generale, è una scissione, ma è una scissione che rinvia uno all’altro i due termini fissi, cioè li tiene insieme, in maniera diaiettica. È chiaro che nel barocco si parla di piega soprattutto per quel che riguarda l’architettura o la pittura, ma qui se ne può parlare anche per quanto riguarda la metrica e la poesia, perché l’epigramma di Silesio disloca, in maniera bipartita, su due piani, la verità e l’uomo, l’eterno e il tempo, l’infinito e il finito, il cerchio e il punto, il nulla e il mondo, il cielo e la terra, l’interno e l’esterno. Questa disposizione rimanda alla piega del barocco ed è qualche cosa che addirittura, se consideriamo un mostro sacro dei nostro tempo, rimanda allo Zwiefalt di Heidegger, cui rinvia anche Deleuze, il cui testo La piega. Leibniz e il barocco ho qui tenuto presente.
La cosa che non trovo in questi critici della metrica di Silesio è appunto che non facciano delle osservazioni che non vadano un po’ più in là della tecnica metrica. Cioè che, in questo rollio metrico dai primo verso al secondo verso, che genera questa piega che abbiamo definito barocca, non vedano che questo passaggio dai soggetto al predicato e dal predicato al soggetto è una forma che arriverà fino alla filosofia, prima, di Hegel e, poi, di Feuerbach.
Qui il verso, il distico, ha un andamento per cui il concetto di cui è portatore si dispiega ripiegandosi. È la stessa cosa che succede in filosofia, quando Feuerbach parla della divinità e scopre che quanto si ritiene estremamente lontano dalla divinità, se è predicato di questa divinità, è la divinità stessa. Qui Feuerbach fa intervenire un concetto aristotelico, secondo cui un soggetto è fatto dai suoi predicati essenziali; la somma dei predicati essenziali di un soggetto è il soggetto stesso: per cui, se si scopre che i predicati dell’uomo e quelli di dio sono uguali, allora ne conssegue l’uguaglianza uomo-dio.
Queste cose Silesio non solo ce le ha dette nei contenuti dei suoi versi (si ricordi «l’altro io di dio sono io») ma anche con la sua tecnica metrica; poi le dirà in maniera dimostrativa e filosofica Feuerbach.
Soffermiamoci però su un punto che merita di essere approfondito.
Com’è possibile, da una parte, che Keller faccia un paragone tra Silesio e Feuerbach; dall’altra parte, che io stesso colleghi Silesio a Feuerbach? Chi ha letto L’essenza del cristianesimo, o altre opere di Feuerbach, sa che i mistici della grande tradizione tedesca vi sono citatissimi. Manca Silesio, ma c’è tutto la tradizione su cui si basa. E non è un caso che Feuerbach abbia presente questi testi della mistica tedesca, perché egli porta al livello filosofico quanto questi hanno detto a livello mistico-poetico. Leggiamo la Tesi di laurea di Feuerbach, scritta in latino, come era uso dell’epoca, e intitolata De ratione, una, universali, infinita. Ci troviamo questa frase: «In cogitando, in memet ipso alter ego est, ipse sum simul ego et alter. Neque certus quidam alter, sed alter omnino, sive in specie». Ovvero «quando io penso, dentro di me, in me stesso, c’è un alter ego, e io sono e l’ego e l’alter, e non certamente un certo altro, ma il totalmente altro, vale a dire la specie». Cioè: quello che solitamente nell’interiorità si definisce il “tu” divino, in realtà è quello che verrà chiamato da Feuerbach Gattungswesen, cioè essenza della specie. Questa scoperta non è semplicemente feuerbachiano: già Hegel aveva impostato il rapporto dialettico singolo/genere. Ma c’è un personaggio, che non sembrerebbe vicino a questi argomenti, che dice pressapoco invece le stesse cose. Si tratta di Novalis, che aveva una spiccata predilezione per Böhme e che può avere attinto questa tradizione da Böhme. Ecco cosa scrive: «Per comprendere se stesso l’io deve rappresentarsí un altro ente uguale a sé e per così dire anatomizzarsi. Questo altro ente a lui uguale non è se non l’io stesso ed esso scorge l’atto di questa alienazione e della rispettiva produzione soltanto in questo preparato di pensiero».
Non basta: Novalis aggiunge che Gott, cioè dio, deriva da Gattung, la specie. Quindi qui è già pronto quello che dirà Feuerbach: dio non è che il “tu” della specie, che sta dentro di noi; con il quale noi abbiamo colloquio. Per concludere con Novalis: «noi siamo, pensiamo, viviamo in dio, poiché questo è il genere personificato» scrive, sempre nei Frammenti. Senza bisogno di Feuerbach o di Hegel, ma attingendo a una tradizione mistica, Novalis arrivava a risultati di questo tipo.
Vediamo come un personaggio, molto più vicino a noi, ha reagito davanti a questa linea di pensiero. Questo personaggio è Ernst Bloch, il quale, come voi sapete, si collega a Marx, anche se c’è qualcuno che ha detto che il marxismo è un vestito che gli va troppo stretto e qualcun altro dice che il suo marxismo è invece un abito rovesciato. Scrive Bloch: «la mistica, nel suo preciso significato, si può riconoscere molto facilmente in Eckhart, fu inaugurata come una vetta della ragione». Non, quindi, l’irrazionale mistico contrapposto alla ragione, ma la ragione mistica, che sbocca nella ragione. E un bel rovesciamento anche questo; rovesciamento, peraltro, basato sui testi, perché se c’è una categoria che Eckhart sottolinea è quella della ragione. «In Eckhart il movimento eretico dei laici del tardo medioevo trovò il linguaggio tedesco ostile alla chiesa e la cosa è d’importanza capitale per il giudizio storico socialista, sicché l’eredità neoplatonica di Eckhart venne legata al superamento della chiesa sacramentale e di ogni autorità. È vero che i mistici che posero dio nell’uomo presupposero sempre un aldila che si sopratrascendeva in se stesso per unirlo all’uomo in un estremo paradosso. Fermo restando tutto ciò, è pur sempre sicuro che il paradosso di questo pensiero elimina completamente l’aldila per porlo nell’uomo».
Cioè la mistica opererebbe una inversione nel mondo.
«Che questo – prosegue Bloch – tornasse sgradito a tutti i tiranni, lo hanno dimostrato praticamente i battisti rivoluzionari, questi discepoli di Eckhart e di Taule» che, con un’analisi approfondita, potrebbero essere collegati anche a Böhme. Ma a Bloch non è sfuggito neanche il testo di Keller che qui abbiamo ricordato. A questo proposito dice: «Il conte de Il verde Enrico paragona il mistico Angelo Silesio e l’ateo Ludwig Feuerbach. Tertium comparationis è il voler ricondurre la divina altezza tanto remota al soggetto umano». E conclude: «che si siano alienati dei tesori umani neil’illusione dell’esistenza di un cielo non esclude che la prima intuizione dell’umana autoalienazione sia prodotta in ogni caso con un reale contributo della Bibbia. Cosi – conclude in maniera abbastanza scandalosa per i chierichetti di tutte le razze – la mistica è propria di tutto Marx, che coglie fiori vivi».
In via di conclusione vorrei fare qualche osservazione. Intanto la frase sui «tesori umani alienati in cielo» è una frase dei giovane Hegel, il quale, nel testo in cui usa questa espressione, si pone anche il problema dei recupero di questi tesori alienati in cielo, poiché una delle figure massime dell’alienazione è la traslazione dall’uomo a dio. Come si fa a riportare dal divino all’uomo questi tesori alienati? Si può procedere, ad esempio, secondo l’andamento mistico che qui abbiamo descritto. Ma la cosa interessante da notare è che, nella mistica, è dio stesso che si va autonegando nell’uomo. Non c’è bisogno di fare una supposizione come quella di Keller, circa un larvato ateismo di Silesio. È la mistica stessa che, a un certo punto dei suo sviluppo, compie questo rovesciamento: cioè, baroccamente, si dispiega ripiegandosi. Questo ripiegamento è ciò che fa giungere l’uomo a se stesso.
Qui cominciano, però, le complicazioni.
Dobbiamo accettare in maniera totalmente positiva la lettura che Bloch fa di questo percorso della mistica, oppure, se partiamo da un punto di vista marxiano, dobbiamo fare qualche osservazione negativa sull’entusiasmo di Bloch?
Mi sembra che in Bloch, che è, da un certo punto di vista, un amico dei discontinuo, ci sia qui invece un amore per il continuo! Mentre, da una parte, in Marx è molto chiaro il salto dall’alienazione alla disalienazione, dalla preistoria, nella quale noi tuttora viviamo, alla storia; mi pare che in Bloch il dio che diventa il volto disvelato dell’uomo, come lui sempre lo chiama, un volto che sarà nella storia, si trascini dietro, con sé, una massa troppo ampia di continuum. Ci sarebbe forse da osservare qualcosa di più su questa impostazione. E da obiettare che un luogo di alienazione (come quello di dio) non può impunemente essere occupato da una entità non più alienata come l’uomo onnilaterale, ma va eliminato! D’altra parte, sappiamo che in Marx quello della religione, e quindi anche della mistica, è considerato un paradigma assolutamente essenziale (se criticamente considerato) perché l’uomo possa a autocomprendersi. La maniera di alienarsi, da parte dell’uomo, nella religione, è per Marx un paradigma molto visibile. Ci sono paradigmi meno visibili, ma molto simiii a questo, che non possono essere visti e compresi, se non si tiene conto dei paradigma della religione, e quindi della mistica. Sapete che Marx dice che il capitale è un ente religioso. Per capire la religiosità sui generis del capitale, bisogna aver capito anche il funzionamento della alienazione religiosa. Allora. ecco che ciò che ci può far capire questo funzionamento dell’alienazione religiosa, addirittura nei suo punto critico, direi sull’estrema soglia, è proprio quel tipo di mistica sulla quale mi sono intrattenuto sinora, perché lì la mistica è sul punto del suo rovesciamento, se non l’ha già oltrepassato. Da questo punto di vista, Marx potrebbe concordare con l’elogio della mistica da parte di Bloch, fermo restando che poi Bloch ha intrattenuto dei rapporti con ambiti religiosi, anche cattolici, che Marx non avrebbe probabilmente approvato.
Direi che si può concludere in questa maniera: c’è chi crede, c’è chi crede di credere, c’è chi non crede, c’è chi non crede di credere, c’è chi né crede né non crede: tertium datur! Io penso che a tutti costoro il percorso mistico che è visibile da Eckhart a Silesio, possa comunque essere utiie perché riguarda l’umano. Ma l’umano non è ancora né presso di sé, né presso di noi: l’umano non c’è ancora. E quindi il dio che si va autonegando nell’umano non l’abbiamo ancora. Questo dio deve essere ancora una conquista; soprattutto il dio di cui parlano Eckhart e Siiesio, sotto forma di divinità, di nulla. Questo dio dice ai maneggiatori di dio, ai preti di dentro e di fuori, cose terribilmente gravi, destituendoli dalla dignità di persone che colloquiano con lui. Questo dio nulla reagisce criticamente al dio che è. E forse, in una situazione di oscuramento dell’autocoscienza proletaria, questo dio nulla ha qualcosa da dire anche ai proletari; quantomeno nel far percepire loro (e sia pure deformata!) la struttura dell’autocoscienza e, allo stesso tempo, neil’indicare come occorra comportarsi per entrare nella storia, avendo eliminato tutti gli dei che stanno nel mondo, ivi compreso il dio-capitail, che è un oggetto religioso, come dice Marx.
Se l’immaginario mistico è giunto a questo punto estremo, di far percepire con le immagini, i concetti, la poesia, l’autonegazione di dio, giungendo, nei suo sviluppo, alla critica di intere zone dello sviluppo della società alienata (proprietà privata e capitale), che il suo dio dica qualcosa anche a chi né crede né non crede, non è più scandaloso. Come finale del finale, vorrei ricordare una frase di Böhme che Marx trascrive nei lavori preparatori della sua Tesi di laurea: «Colui cui il tempo è eternità, e l’eternità è tempo, costui è libero da ogni contesa».
Anche il proietario e il capitale hanno a che fare col tempo! Il tempo alienato della preistoria non è quello della storia: c’è un salto fra i due e una differenza forse paragonabile a quella fra tempo ed eternità.
Il tempo di lavoro, il tempo di valorizzazione dei capitale sono sicuramente un tempo alienato, che non ha nulla a che vedere col tempo del futuro uomo onnilaterale che, se verrà, vivrà un tempo totalmente altro, in cui anche il dio che si autonega dei mistici non avrà più luogo, anche se, nel percorso nel deserto, che dalla preistoria forse sboccherà nella storia, ha avuto un ruolo ben più importante del dio dei tenutari delle religioni! La sua autonegazione mistica deve giungere anche alla negazione del luogo in cui si è manifestata, che dunque l’uomo futuro né dovrà né potrà occupare, se sarà veramente portatore di un’autoposizione, che dunque prescinde da dio ma anche marxianamente dalla sua negazione!
Note
[*] «Il presente scritto è la trascrizione di un intervento estemporaneo, ed ha tutti i difetti di un contributo orale, tra i quali – oltre all’incompiutezza – nessuna (o quasi) precisa indicazione bibliografica […]» (L. P.)
[**] Relazione presentata al convegno “Il fantasma delle luccio. Immaginari, immaginazione, politica”(tenutosi a Milano il 27 e il 28 mazo 1992) e pubblicata su La balena bianca, n. 6 (gennaio 1993).