La rabbia dell’espressione
M. D.
Più di mezzo secolo fa, Gleizer, editore in Buenos Aires, pubblicava l’opera prima di un poeta destinato a segnare profondamente la letteratura e la coscienza civile della società argentina. Con Violín y otras cuestiones, questo il titolo della plaquette, Juan Gelman si sarebbe subito distinto per l’inedita attenzione portata ai «fatti» di un linguaggio sorto ai margini della lingua ufficiale.
Osservatore attento delle inflessioni e delle deformazioni linguistiche di “porteños” e “bonaerenses”, appassionato praticante di giornalismo e politica, dissidente poetico nonché lettore delle opere di un maestro silenzioso come Raúl Gonzáles Tuñon, Gelman amava cercare l’ispirazione nella lingua colloquiale, nel tango o, fatto ancora più trasgressivo specie nel contesto post-peronista, nel lunfardo, il gergo tipico della malavita. I temi, in quella prima raccolta, mostravano una spiccata attitudine alla critica sociale, tendenza che il succedersi di tragedie pubbliche e private nella vita del poeta e un’inesausta ricerca di forme nuove renderanno più marcata, nei cinquanta anni a venire. Nell’Oración de un desocupado, che ancora appare come un blasfemo, per quanto formalmente garbato, atto d’accusa verso il padreterno, Gelman chiede rispetto, dignità e giustizia per chi vive una vita umile, nella polvere, ai margini della strada. «Ecco le mie mani rifiutate, non c’è lavoro, non ce n’è, guarda ciò che sono, questa scarpa rotta, questa angoscia, questo stomaco vuoto, questa città senza pane per i miei denti». A una preghiera senza risposta, conclude Gelman, seguirà la rabbia, più che la rassegnazione. «Padre, scendi, toccami l’anima, guardami il cuore. Cerco rassegnazione e non trovo e vado a farmi prendere dalla rabbia e ad affilarla per colpire e a urlare col sangue al collo, un animale furioso con una pietra al collo». Questa tensione etica non verrà meno neppure negli anni amari della dittatura, che per Gerlman coincideranno con la via del carcere e dell’esilio. Ne sono prova tanto i versi delle dieci composizioni poetiche tradotte da Martha Canfield per il numero 34 della rivista Testo a fronte (Marcos y Marcos, Milano, I semestre 2006), quanto le diciassette liriche che compongono I doveri dell’esilio (Interlinea, Novara 2006), antologia curata e tradotta da Laura Branchini, che prende il titolo da alcuni versi redatti a Roma, nella primavera del 1980, dopo l’espulsione da Buenos Aires. «Non dimenticare l’esilio», scrive Gelman, «combattere la lingua che combatte l’esilio, non dimenticare le ragioni dell’esilio, la dittatura militare, gli errori che commettemmo per te, contro di te, terra do cui siamo ed eri ai nostri piedi».
È indubbio che Gelman si presenti come un autore ostico, sia per la sua lingua ricca di neologismi e raffinati scarti sintattici, sia per una poetica non facilmente accostabile alla poesia politica e di impegno civile tout court. Non di meno, né l’editoria, né l’accademia italiana, si sono mostrate sempre attente nei suoi confronti,
In Francia, sembrerebbe toccargli ben altra sorte, almeno considerando la pubblicazione, nell’ottobre scorso, in un’importante collana delle edizioni di Gallimard, dell’antologia L’opération d’amour (trad. fr. Jacques Ancet, con una nota di Julio Cortázar). Come osserva acutamente Philippe Friolet, in uno studio contemporaneamente apparso per i tipi de l’Harmattan (La poétique de Juan Gelman), quella di Gelman è una scrittura dai tre volti. A quello emozionale, ben evidente nella prima raccolta Violín y otras cuestiones, si sovrapporranno, con gli anni, un aspetto commemorativo e uno ossessivo. La particolarità dello stile poetico di Gelman, avverte Friolet, è dato proprio dalla raffinata trasfigurazione formale di questi tre aspetti personali.
Nato settantasei anni fa in un quartiere di Villa Crespo, a venticinque anni Gelman diede vita a “El Pan Duro”, gruppo di poesia «a più voci libere» ma, per sua stessa ammissione, «unito da alcuni principi etici ed estetici». «Volevamo», precisa Gelman, «essere rivoluzionari nella forma e nel profondo, con la pretesa di trovarci già nella vera avanguardia, ossia nell’universo popolare». Vista a ritroso e collocata nello straordinario percorso poetico di Juan Gelman, tanto l’esperienza di “El Pan duro”, quanto la pubblicazione di Violín y otras cuestiones si presentano come un evento in un certo qual modo fondatore di gran parte della poesia argentina degli anni Sessanta e non solo. Eppure, rimane a tutt’oggi difficile comprendere il suo impatto e la sua influenza nel contesto letterario concentrandosi unicamente sulle possibilità aperte nel solo campo della ricerca poetica. Il piano della poesia, in Gelman, si sovrappone continuamente a una serie di contropiani etici, civili, politici che trovano riscontro in quella che, solitamente, ama definire «l’ossessione creatrice». Da Violín y otras cuestiones al recente Oficio ardiente, ricorrendo a citazioni e riscritture intese come tecniche di appropriazione non passiva, né invasiva della lingua dell’altro, nella sua intensa ««ricerca come volontà di forma» Gelman sembra avere affinato quel punto di equilibrio paradossale che, probabilmente, costituiva il suo obiettivo primario. Un punto in cui, sono parole sue, la poesia «oscilla» e, in tal modo, «disorganizza il caos con folle precisione». È attorno a questo punto che gravitano tanto l’oscura ossessione creativa di cui si dichiara debitore nei confronti di Pavese – non a caso studiato e tradotto dal poeta argentino – quanto la chiara visione delle cose che Francis Ponge, altra sua chiave di riferimento, definiva nei termini di un’inafferrabile, ma necessaria «rabbia dell’espressione». Ultimo “lancio di dadi” di una poesia che alla forma chiede solo ciò che essa può dare: la libertà dalla forma.
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