philosophy and social criticism

La retorica dei calci di rigore

Bruno Accarino

Todo gran ingenio es ambidextro: non si sta parlando di Maradona, che peraltro con il destro combinava poco e sovracompensava con il sinistro (quando lo clonano?), ma di una definizione programmatica che Baltasar Gracián dava dell’uomo di ingegno e della sua capacità di argomentare ambivalentemente. Con «duplice destrezza», non con ambiguità: tenendo cioè un ventaglio di opzioni che copra sia il regolare che l’irregolare, sia l’ingegnosa comparazione che la concettosa disparità, sia l’acutezza di proporzione che la mancanza di proporzione e il contrasto. Il gesuita Gracián (1601-1658), del quale Vittorio Dini ci ha  dato un’accurata edizione italiana de Il politico (Bibliopolis, 2003), è un passaggio obbligato di ogni ricostruzione della retorica, ma è anche una figura legata, per antonomasia, al binomio militia/malitia, lotta e astuzia (giusto uno dei suoi più famosi aforismi). Quanta militia e quanta malitia circolano e continueranno a circolare nei discorsi sulla guerra in Iraq? Quando si dice che gli americani hanno investitito nella guerra fiumi di retorica, si dice qualcosa di impegnativo, che squalifica la retorica e ne sciupa la complessità. Noi siamo impressionati dal numero spropositato e dalla ubiquitaria presenza delle bandiere a stelle e strisce, o dalle processioni televisive di madri di marines ingaggiati ed impegnati lontani da casa, ma dubito che un esperto di teoria della comunicazione battezzerebbe tutto questo come trionfo della retorica. Dov’è la stonatura?Lasciamo stare la storiella degli europei che si appisolano sul pacifista Kant e degli americani che digrignano i denti ricorrendo a Hobbes. Questo è umorismo involontario, ancorché (nella circostanza) macabro: Hobbes è immerso fino al collo nell’esperienza barocca, e agli americani si potrebbe concedere perfino che sia esportabile la democrazia, ma di certo (dal vecchio continente) non il barocco.

Il punto è un altro: in questa guerra, e forse accade lo stesso in ogni guerra, è saltata la fase forense. La situazione forense è in effetti il luogo originario della retorica, sia nel senso che il tribunale è probabilmente il luogo della sua nascita storica, sia nel senso che esso è il luogo nel quale prende corpo tanto il ricorso pratico alla retorica quanto la situazione-modello delle sue condizioni generali. L’italiano convincere ha una forte valenza agonistica, ma il tedesco überzeugen (convincere) rinvia alla forza dei testimoni o delle testimonianze; e tutta l’area linguistica del persuadere incamera la suavitas o la dolcezza. Non si contano, naturalmente, le flessioni metaforiche, dal kantiano tribunale della ragione a tutti quei momenti in cui le pretese di legalità vengono sottoposte ad un vaglio di legittimità e fatte dipendere dalla loro giustificabilità argomentativa. Come una grande vicenda retorica, con i suoi canoni controversiali, si organizzò spesso la teodicea, che assolveva dio dall’accusa di aver permesso la presenza del male nel mondo: ma intanto recepiva, metabolizzava e confutava le accuse. Al confronto con le declinazioni metaforiche, quelle iconografiche sono talvolta meno sfumate: alla Scuola di Atene di Raffaello e al Simposio di Platone di Anselm Feuerbach fanno riscontro immagini di manipolazione integrale e di catene d’oro con cui la retorica soggioga e tiene in condizione di minorità uomini indifesi di fronte alle sue lusinghe.

Conosciamo l’insofferenza che una parte dell’anima americana riserva alle catene formalistiche: sull’autostrada si frena se sta passando un serpente, ma non se sta passando un avvocato. La situazione forense è in effetti altamente formalizzata ed è anche agganciata a modelli di ruolo stabili che considerano intrascendibili certi confini. La retorica, è questo il paradosso che essa deve gestire, deve la sua esistenza a conflitti di cui deve funzionalmente evitare uno sbocco violento. Ma non allude affatto ad una condizione di armonia arcadica, semmai ad un’incessante interferenza e collisione di soggetti. La retorica sa bene di essere sulla soglia di una minaccia permanente al fondamento di esistenza sociale della vita umana, come indica il periclitari dell’Institutio oratoria di Quintiliano.

Come si dice per assonanza con la guerra limitata o guerre en forme (ormai un reperto archeologico, viste le proporzioni numeriche tra i combattenti morti in battaglia e i non-combattenti o civili ammazzati «per errore»), la retorica è finalizzata alla delimitazione, alla recinzione o all’imbrigliamento del conflitto, alla trasformazione dei nemici in avversari e alla sostituzione (non all’integrazione, come in Omero) della guerra delle armi con la guerra delle parole. In tutto questo processo non può però essere all’opera solo una macchinazione manipolativa: deve affiorare un orizzonte di terzietà. Ora, la figura del terzo la si può interpretare in un senso dimesso e banale, come l’arbitro che fischia i rigori, o in un senso impegnativo. Il terzo è imparziale e disinteressato perché non è coinvolto nella genesi del conflitto, ma non è disinteressato nei confronti del carattere rigorosamente giuridico che deve assumere la sua soluzione: la drammaturgia del processo forense non si distingue perché recepisce la rischiosità e la cagionevolezza della convivenza sociale dei soggetti, ma perché ne postula un esito pacifico. In tutti i casi, la terzietà introduce non solo ad un paradigma della colpa, ma anche ad una cultura della vergogna, perché costruisce per via immaginativa (la retorica ha molto a che fare con la fantasia e con l’immaginazione) un’istanza impersonale che ti segnala quando stai oltrepassando i limiti della pudicizia. La spudoratezza dell’amministrazione americana non la si è misurata all’altezza dell’inizio delle ostilità, ma nell’allucinante vicenda degli ispettori, davvero degna della penna di un Melville, per il quale il capitano Achab non sente ragioni (discorsi) e trascina gli uomini della ciurma in un’avventura che non è la loro.

Tutto si può imputare alla retorica, ma non di appiattirsi sulla magia di una diabolica e però asettica competenza manipolativa. Già Aristotele osservava che il potere retorico è dotato di un’infrastruttura pratica e non poietica, è cioè inassimilabile ad una tecnologia sociale che disponga a piacimento dei destinatari del discorso: la forza di persuasione è una possibile proprietà del discorso che può essere messa in conto e confermata solo da colui per il quale il discorso abbia forza di persuasione. È quel che si dice quando si afferma che il lessema convincere è utilizzabile solo in termini riflessivi, non in termini transitivi, perché descrive un processo determinabile solo come atto autoreferenziale o come autoconvincimento. Il segreto del successo della persuasione retorica non è perciò nella sopraffazione tirannica dell’interlocutore, ma nell’aderire a quella che è solo una potenzialità: il suo poter-essere-persuaso. La retorica è rigorosamente anti-monologica, perché è dialogica o, con Aristotele, perché è un’impresa comune, un koinon ergon.

Dei cinque stadi di produzione del discorso che costituivano il principio sistematico di suddivisione della retorica (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio) potrebbe qui interessarci l’ultimo, che sembra poter corrispondere al termine di origine greca ipocrisia. L’attore e l’ipocrita sono assai vicini: Hannah Arendt osservava che, se recuperiamo la matrice teatrale dell’ipocrisia, con l’ipocrita abbiamo l’attore stesso, non la maschera, che in latino è invece la persona. Smascherando la persona e privandola di personalità giuridica, si lascerebbe comunque in piedi l’essere umano naturale, mentre smascherando l’ipocrita non si lascia nulla dietro la maschera, perché l’ipocrita è l’attore stesso in quanto non porta maschera. Ma in una corte di giustizia – ecco di nuovo scavalcato il passaggio forense – non entra l’io naturale, bensì solo una persona portatrice di diritti e di doveri. Quando il processo rivoluzionario francese si fece abbagliare, con le leggi sui sospetti, dall’accanimento contro l’ipocrisia, spazzò via anche la personalità giuridica e smarrì ogni remora garantista. L’ipocrita è vittima della sua stessa menzogna e non solo vuole apparire virtuoso davanti agli altri, ma convincere se stesso. Messa in questi termini, la costellazione sembra pertinente non solo per la guerra o per la strafottenza riservata agli organismi e ai principi del diritto internazionale, ma anche per la piega che le cose stanno prendendo in fatto di (mancata) tutela dei diritti civili all’interno degli Stati uniti. In altri termini: se stabilissimo che Bush è un bugiardo, dovremmo essere preoccupati, ma se accertassimo che è un ipocrita dovremmo essere angosciati. Il bugiardo dotato di grande potere non prefigura necessariamente scenari totalitari, ma l’ipocrita ce li ha nel sangue.

Hannah Arendt si avvide dello scarto di radicalità veicolato dall’ipocrisia anche perché, proprio lei che faceva gran conto del costituzionalismo americano, difendeva a spada tratta l’autonomia e la non-ulteriorità della doxa (nel senso che dall’opinione non occorre risalire all’ultimità della verità). Tutto ciò non toglie che la retorica bazzichi per sua natura nei paraggi dell’imbroglio, della contraffazione, della simulazione e della dissimulazione (che sono però due grandi figure della ragion di stato, non della guerra), e che il Gorgia e il Protagora di Platone siano parte integrante di un giacimento a cui i filosofi continuano ad attingere. Ma qualcuno, tra cui Hans Blumenberg, ha detto: i guai sono cominciati quando i sofisti hanno perso. Quando il linguaggio delle cose, con la sua definitività, ha sopraffatto il gioco delle parole, si è voluto sposare un’antropologia corrusca e tronfia, mentre la retorica è un vero e proprio certificato di povertà dell’uomo: un ragionevole accomodamento con la provvisorietà della ragione. La retorica prende atto che l’evidenza del bene non è disponibile (e nemmeno quella del male, caro Bush) e che, dove non ci sono le evidenze, intervengono le istituzioni. Tutto ciò che sembra appartenere alla ridondanza di fantasie procedurali e di dispositivi di ritualizzazione che menano il can per l’aia smussando e imbellettando, porta invece lo stigma non della forza, ma della debolezza. La retorica sostituisce le azioni, come forse è accaduto perfino nel caso della sostituzione ritualizzata del sacrificio umano con una vittima animale, e comunque decelera, rallenta, frena: il suo brodo di coltura è la dilazione, il differimento, la consapevolezza che gli esseri umani non sono attrezzati per una linea di congiunzione tra due punti che sia la più breve, ma solo per le vie indirette e tortuose. Un temporeggiare truffaldino? No: la risposta antropologicamente adeguata al deficit originario di simmetria e di sintonia tra l’uomo e il mondo.

Con la retorica si sperimenta anzitutto l’impotenza, al punto che la si legge anche come compensazione dell’impotenza, e forse rispetto all’antichità noi possiamo mettere immediatamente in conto quel che è un dispositivo ineliminabile anche dello scenario forense: la scarsità della risorsa tempo. Esiste naturalmente un’antiretorica del realismo, ma «se la realtà si potesse vedere o manipolare “realisticamente”, lo si sarebbe fatto da tempo» (Blumenberg). E pullulano i congiurati della retorica, i persuasori infidi, i propagandisti subliminari, i malati, come avrebbe detto Rousseau, di discussions épineuses, di diatribe sgradevoli e spinose: e chi più appropriatamente dei sofisti (o degli iracheni, o dei siriani, o dei coreani) in questo ruolo? Per i prossimi anni l’impero, se tale è, ha già messo da parte per noi l’occorrente per un bombardamento, speriamo solo metaforico, ai danni di tutto ciò che somigli ad un artificio, ha già progettato un trionfo bacchico della schiettezza, ha già pregustato un reingresso trionfale della veracità delle cose stesse contro le pastoie della finzione. Non è questione solo di american boys orgogliosamente difesi e osannati: l’offensiva verrà dalla metaretorica dell’antiretorica.

L’Europa, si dice, è un continente insanguinato, non può dare lezioni a nessuno. Che cosa hanno combinato di buono i suoi simulacri, i suoi cerimoniali, le sue nostalgie cavalleresche, le sue forme appariscenti e pompose, e presuntamente innocue, di rappresentazione del potere? A che cosa ha messo capo la sua pedanteria casuidica, il suo normativismo diffidente nei confronti di ogni forma di duttilità pragmatica? La globalizzazione non dimostra forse che la logica vincente non è quella dei recinti e dei capelli spaccati in quattro, ma quella della frontiera e degli spazi aperti? Infatti: sarebbe stato ridicolo affidare alla retorica funzioni di peace-keeping, se ne sarebbe registrato solo il fallimento. La retorica viene oggi ripensata perché ha disseminato suggestioni e paradigmi di identità culturale, non certo perché possa essere riabilitata in blocco o addirittura lanciata nell’agone con funzioni operative.

Eppure non sarà difficile, per chi si è sdraiato almeno sulla situazione di fatto creata dai vincitori e incassa la legittimazione retrospettiva fornita dai carri armati che controllano le strade di Baghdad, schierarsi contro i manierismi e gli intellettualismi, ripescare nell’antiamericanismo europeo i segni di uno stile di leziosità proprio di chi non capisce il nuovo mondo: il fascino della fatticità è irresistibile. Ma rimane da intendere quali altre fratture, oltre a quelle dei pronunciamenti ufficiali dei governi europei sulla guerra, si siano silenziosamente o anche fragorosamente consumate, in questi mesi, tra cultura europea e sensibilità americana: quelle che per esempio attengono, essendo la retorica anche un esercizio di disciplinamento e magari di avviamento all’arte dell’eloquenza, ad una crisi mondiale dei sistemi educativi che non vede alcuna proposta di soluzione da parte europea e che in America non sembra essere neppure verbalizzata; oppure quelle che sanciscono l’emarginazione della diplomazia. Se questa marginalità fosse solo un indizio dell’insostenibilità di identità nazionali rigide, aprirebbe ad una crisi feconda. Ma se trascinasse con sé tutto ciò che la diplomazia ha ereditato e a sua volta sedimentato a partire dalla tradizione di corte, e che significa linguaggio del corpo, strategia delle alleanze, meccanismo degli equilibri, contenimento della violenza, differimento della decisione, avvicinamento della politica alla politesse, aprirebbe le porte al nulla. O a qualcosa di peggio del nulla.

[da il manifesto, 6 maggio 2003]