La società dei simulacri
M. D.
Pubblicato nel 1980, La società dei simulacri è forse uno dei libri più noti di Mario Perniola. A distanza di trenta anni dall’oramai esauritissima prima edizione per i tipi della bolognese Cappelli, il volume viene riproposto come monografico della rivista Ágalma, giunta al suo ventunesimo fascicolo (Mimesis 2011). Perché aspettare tanto, per un libro che, ricorda l’autore, ha sollecitato più di una richiesta di riedizione? Solo ora, precisa Perniola, molti dei fenomeni sociali descritti sono diventati autoevidenti. Si è infatti verificata una comune presa di coscienza di quanto nel libro non si tarda a definire una «distruzione sistematica dell’eredità civile, culturale, morale ed estetica dell’Occidente e dei criteri di legittimazione elaborati attraverso più di due millenni». Una distruzione che «giova alla diffusione dell’ignoranza e della paura, sulle quali prosperano le mafie e il conformismo consumistico», oltre che una visione degenerata della democrazia. Non solo, ma nel preciso momento in cui «l’amministrazione della giustizia e le istituzioni sanitarie, scolastiche ed accademiche collassano, si è manifestato finalmente il dubbio che il furore contro le aristocrazie scientifiche, intellettuali e burocratiche ha portato al trionfo delle oclocrazie, cioè al governo dei peggiori. Spacciare l’oclocrazia per democrazia è un errore fatale che gli antichi Greci non avrebbero mai commesso».
Viviamo, avrebbe scritto Zbgniew Brzezinski, in un’epoca di convinzioni effimere e di credenze e reazioni incostanti che aumentano l’ingovernabilità politica di fenomeni che sorgono su un terreno che, dai primi anni Cinquanta, ha visto un profondo capovolgimento di rapporti tra reale e immaginario. Fenomeni che hanno posto le premesse per la fine della capacità di presa della politica sulle realtà sociale. In difficoltà sul suo terreno, incapace di risolvere una crisi di cui non individua minimamente la portata culturale, la politica si è trovata a cercare di uscire dall’impasse attraverso la creazione di miti tecnicizzati capaci di ricomporre le dinamiche del consenso, fino a quando, nel post-Sessantotto, questi miti non hanno più svolto la loro «naturale» funzione di catalizzatori e condensatori di consenso. Nessun mito è più possibile, nell’era in cui la copia ha dissolto l’originale e il simulacro si è imposto e proposto come originale a sé.
Di contro ai simulacri di un potere oramai senza immagini e senza miti, Perniola contrappone, sulla scia di Caillois e Bataille, il potere dei simulacri. E qui risiede uno dei malintesi che, pur giovando al libro in termini di «visibilità», nei primi anni Ottanta evitarono una corretta e politicamente più feconda lettura dello stesso. Spesso inteso come sinonimo di «inganno», di «artificio», di «falso», Perniola ricorda che il simulacro di cui qui si parla è precisamente al di là del vero e del falso, essendo «più prossimo al gioco, all’arte e alla cultura, che alla metafisica, all’etica e alle ideologie politiche». Non è un caso che il primo a introdurre il concetto di simulacro in questa accezione sia Roger Caillois, che nel suo volume del 1958, Les jeux et les hommes distingueva fra quattro tipi fondamentali di giochi: l’agon o competizione, l’alea o fortuna, mimicry o simulacro e ilinx o vertigine.
In quest’ottica, il simulacro non è una messa in scena manipolatoria e mistificante, ma un «mimetismo che implica la scoperta della precarietà dell’esistenza e la sospensione della soggettività individuale: esso è una terapia per sopravvivere, trasformando il sentimento di smarrimento e di demoralizzazione in una volontà di sfida e in un’ebbrezza prossima alla trance». La posta in gioco fondamentale per questa ebbrezza Perniola la individua sul terreno della cultura e della funzione intellettuale nell’istante stesso in cui appare logorata ogni loro capacità di produrre simboli.
Se un tempo, «cultura» era precisamente questa produzione di simboli, ora essa è «Sinnlosigkett, nel duplice senso di mancanza di significato e di inutilità». Ma l’inutilità – questo è il punto, e qui sta la posta decisiva – , l’insensatezza e l’essere senza scopo non sono attributi della sola cultura, bensì di tutto il reale. Per questo stesso motivo, opponendosi alla società dello spettacolo, la società dei simulacri analizzata da Perniola considera che «l’inutilità della cultura non è una debolezza – come pensano quanti la vorrebbero fondata e garantita dallo stato o dal partito – ma una forza che rende insensata e inutile» una politica già di per sé divoratrice di senso e, alla fine, divoratrice anche di sé medesima.
[da: il manifesto, 20 luglio 2011]
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