philosophy and social criticism

La sottile parete del cuore

Lea Melandri

Non sono una lettrice abituale di romanzi –i libri che leggo, quasi sempre gli stessi, sono di studio e approfondimento dei temi che più mi interessano-, ma ci sono alcune, rare scritture, che chiamo “scritture di esperienza”, che esulano da qualsiasi genere noto, forse perché li assommano tutti fino a confonderli e renderli indistinguibili. Si potrebbe dire che hanno una qualche affinità con l’autobiografia, la diaristica, le scritture del privato, ma anche con la poesia e la saggistica, senza rientrare in nessuna di queste categorie.

Sono libri che rappresentano per me ogni volta una “scoperta”, mi piace riattraversarli in momenti diversi, ricalcarne frammenti fin quasi a “incorporarli”, con la certezza di trovare qualcosa che prima non avevo visto. All’origine c’è la rivoluzione culturale dei movimenti degli anni Settanta: –l’idea che nel “privato”, nel “vissuto” personale, cioè fuori dalla storia, dalla politica e dalla cultura tradizionalmente intesa siano state collocate esperienze essenziali dell’umano, come la nascita, l’infanzia, l’amore, la sessualità, la solitudine, la malattia, la vecchiaia, la morte, ecc. Per riportare allo scoperto questi “oggetti seppelliti” o “storie non registrate” –come le chiama Virginia Woolf- è necessario spingere lo sguardo in quella che ho chiamato più volte “memoria del corpo”, e ripescare da lì quei sedimenti fantastici, emotivi, che tanto peso hanno nella costruzione di noi stessi, ma che spesso non riescono a diventare neppure ricordi.

A differenza dell’autobiografia, che si dilunga generalmente nella raccolta di particolari, nel tentativo di fermarli dentro un ordine di senso, come fossero verità oggettive, nel romanzo di Enrico Regazzoni, Una parete sottile (Neri Pozza 2014), si legge:

Peschiamo frammenti di passato e li consideriamo obiettivi come dei reperti storici, prove documentali di qualcosa. Ma se quei frammenti fossero così indubitabili, non sarebbero ricordi ma aneddoti, e gli aneddoti sono condannati alla dimenticanza. A ben guardare, i ricordi sono una materia viva e cambiano con il tempo. Sono tasselli della costruzione di noi stessi, e mutano negli anni perché muta il linguaggio con cui li formuliamo e anche il significato che siamo in grado di attribuire ad essi.”

Il libro si annuncia fin dalle prime pagine come il ritorno “sotto le finestre del proprio passato”, e le esperienze a cui guarda questo viaggio a ritroso nel tempo sono tra le più restie a farsi stanare, consegnare alla parola e nominare nei loro risvolti più ambigui e contraddittori. Innanzi tutto, quella “stagione crudele” che è l’infanzia, la nostra “età animale”, con i suoi vuoti di memoria, stretta tra innocenza e onnipotenza, il passaggio della vita che tutti si affanno a proteggere, a cercare di comprendere, mentre si tratta in realtà di una “età forte, blindata dalla natura” al fine di garantire la sopravvivenza, felice perché ancora ignora la felicità e le due ragioni. A seguire viene l’adolescenza, con il suo carico di solitudine, di immaginazione, di proiezioni fantastiche sulle figure famigliari destinate a lasciare un segno duraturo sulla propria formazione, un’adolescenza resa ancora più problematica, per quanto riguarda il protagonista del romanzo, dall’assenza del padre.

Enrico Regazzoni e Lea Melandri

Enrico Regazzoni e Lea Melandri

Si tratta dunque di un percorso all’indietro, una ricostruzione degli anni e delle vicende più formative della propria individualità, che riesce a tenere insieme in un amalgama di grande naturalezza complessità e semplicità, intensità emotiva e leggerezza, riflessioni sui grandi temi del tempo, della solitudine, della ricchezza, del dolore, della perdita, dell’amore , degli adattamenti della vita quotidiana, sorprendenti immagini poetiche e un’analisi del profondo che non ha bisogno del linguaggio psicanalitico.

Il libro di Regazzoni ha innegabilmente un tratto che richiama gli “svelamenti”, le “scoperte” improvvise che accompagnano un percorso analitico: avvicinamento a “zone oscure” di sé, esperienze rimaste dolorosamente sepolte per anni, che con fatica si fanno strada per trovare visibilità e parola. Gli elementi essenziali della narrazione sono già definiti fin dalle prime righe: una città di provincia “coi suoi segreti”, un bilocale, dove il protagonista dice di aver trascorso gli anni che vanno dalle elementari al liceo, insieme alla madre -“eravamo noi due”- una “parete sottile”, contro cui va a schiacciarsi “l’orecchi destro”, nell’ascolto sempre più coinvolgente delle voci, dei suoni e dei rumori che provengono dal grande appartamento confinante. Lì abita una famiglia signorile, all’inizio allegra chiassosa e poi segnata dal lutto di una dolorosa perdita: la morte del marito della “bionda signora”, madre di quattro figli, che quotidianamente affida alla musica di un pianoforte il suo talento, ma soprattutto il mutare, nel corso del tempo e delle vicende famigliari, di umori, sentimenti, stati d’animo.

E’ attraverso di essa -la vertigine, il coinvolgimento che produce su chi “fatalmente” si è venuto a trovare nella posizione di ascoltatore- che viene a stabilirsi una “prodigiosa intimità”, un’appartenenza sostenuta dalla fervida immaginazione del bambino e poi dall’adolescente, con i vicini, le loro storie, le loro relazioni più intime.

Alimentata da quei suoni che fanno quotidiana irruzione nel silenzio della sua stanza, la fantasia del protagonista viene via via ricostruendo, da un lato la storia della donna che ha visto finire improvvisamente un “amore da favola”, la sua disperazione e l’approdo a un nuovo equilibrio, e dall’altro gli anni della sua crescita in quel “recinto affollato di emozioni, fantasie, sogni” che lo porta con sempre maggiore consapevolezza in prossimità della “zona nascosta e impensabile” di se stesso: “un antro sotterraneo” che attrae e spaventa.

La mia stanza era ormai una cavità mitologica, dove amichevoli fantasmi nascevano e si ritrovavano. Iniziato per caso, poi da me trasformato in una specie di nevrosi, il contatto acustico da quel luogo era diventato l’asse portante del mio rapporto con l’esterno. Tutti i miei sensi erano ben desti, è vero, ma l’udito godeva di un ruolo privilegiato, perché mi introduceva a esclusive visioni. Quei muri che mi schermavano la vista erano anche lo schermo sul quale proiettavo le immagini che i suoni raccolti mi suggerivano. Stavo bene. Mi rendevo conto della stranezza del mio isolamento e allo stesso tempo assaporavo la sensazione di onnipotenza che volteggia sugli adolescenti quando si accorgono che nella loro testa c’è spazio per un’intera galassia e che questa galassia dispone di una vita propria.”. (p.63)

 

Ogni ascolto, avvertivo confusamente, è prima di tutto ascolto di sé. Chi si mette in ascolto si mette in attesa, e nessuna attesa è neutra: non si riesce ad aspettare senza fare i conti con ciò che noi aspettiamo, che vuol dire senza passare in rassegna l’elenco di ipotesi, desideri e paure che ci collegano a quello che accadrà, a quello che sentiremo. Aspettando di sentire, insomma, sentiamo soltanto noi stessi e presto non ne possiamo più, non siamo più vigili, ci invaghiamo del vuoto e tutto diventa un sogno senza forme.

La “parete sottile”, come si vedrà nelle pagine finali del libro, è lo schermo che permette di continuare a tenere viva e dialogare con una zona oscura di sé, segnata dal dolore, confinata nella memoria del corpo, per cui può emergere, trovare forma e parola, consapevolezza, solo attraverso una sorta di “sdoppiamento”:

“…decifrare la vita della mia vicina, fin quasi a trasformare la mia nel suo doppio.”

Ma se questo è il filo conduttore della leggera trama che tiene insieme il romanzo, non mancano passaggi di grande finezza psicologica e poetica: l’innamoramento per Rosa –la sensualità innocente di lei, l’inadeguatezza dell’adolescente timoroso di perdere “la favola del suo ascolto” all’incontro col mondo reale-, l’ingresso nell’appartamento signorile della famiglia vicina, la scoperta di che cosa è la “vera ricchezza”, il ritorno al coinvolgimento immaginativo, sostenuto questa volta dalle fotografie della pianista prima e dopo il matrimonio, e poi l’inizio, che arriva ancora dalla musica, della sua uscita dagli anni di un dolore inconsolabile. E infine le due “perdite”- la fine della relazione con Rosa, la morte per un incidente dell’amico Francesco- che anticipano la svolta finale, e che tratteggiano sapientemente tutte le ambiguità, le contraddizioni di un “recinto affollato di emozioni,fantasie, sogni”: la stanza solitaria, dove ci si ammala e si cresce, presi in una vertigine di smarrimenti e nuove consapevolezze.

La perdita era un’idea, prima che un fatto, e ne caso di Rosa quell’idea mi aveva già spaventato e fatto soffrire. Il fatto di averla perduta, invece, innescava solo una grande nostalgia dei nostri abbracci, ma una nostalgia che non faceva male. Nulla di me se ne andava con lei, ero tutto intero.”

E in quella radura mi recai subito dopo il suo funerale, tornai in un luogo che era appartenuto a entrambi per provare a pensare a lui e immaginare la mia vita senza di lui. Ma quando fui seduto sull’erba ancora fredda di quest’ultimo giorno di aprile, il pensiero di Francesco durò ben poco. (…)Infelice e svogliato, non riuscivo a sciogliere il nodo che mi serrava la gola, facevo altro, e più mi trastullavo con quel tripudio di uccelli più la pressione nel petto diventava insostenibile.”

La vita quotidiana ha capacità di adattamento anche vergognose, non pensabili ma praticabili. Ci si acquatta in spazi sempre più ristretti, si trova una cannuccia per respirare, si lasciano andare prima i progetti, poi le scelte, poi le abitudini, i bisogni e infine senza troppi drammi ci si libera anche della sillaba “io”, che sulla carta avremmo detto irrinunciabile. La nostra individuali sa ridursi a dimensioni microscopiche e finché il cuore batte c’è sempre un gradino da scendere verso la sopravvivenza, Così feci, e insieme all’acqua scivolai verso il basso alla ricerca di una falda che mi trattenesse.”

Viene poi la svolta finale, lo svelamento, il significato profondo di quella “parete sottile”che ha mantenuto la distanza tra due vite segnate dallo stesso lutto, dalla stessa fatalità del male –la morte di un marito, l’assenza di un padre-, ma che proprio per questo ha permesso il loro avvicinamento, sia pure immaginario ed emotivo, la conservazione di un’esperienza che non poteva essere cancellata.

Proprio quando la storia della pianista e dell’adolescente sembrano volgere al “lieto fine” –quello che piace di solito ai narratori- è di nuovo un sogno a produrre “uno spostamento di senso” rivelativo dell’intera vicenda dell’ascolto, del coinvolgimento, della contiguità emotiva che li aveva quasi identificati. A venire allo scoperto è “il senso dell’ascolto”: il protagonista sogna di entrare nella casa dei vicini e di vedere seduto al pianoforte non la signora bionda e nemmeno il marito defunto, ma il proprio padre, il “padre smarrito e ritrovato” di cui la madre, per proteggere lui e se stessa non aveva mai parlato. Su quel vuoto, venuto a coprire forse l’esperienza più dolorosa dell’infanzia, erano cresciute il suo attaccamento alla solitudine e alle sue abitudini visionarie.

La “parete sottile” si rivela essere perciò quella del cuore, la difesa che impedisce alle esperienze più dolorose dell’infanzia di sopraffarci, ma che al medesimo tempo ci permette di conservarle in vita, sia pure attraverso i sogni e le fantasie, e di riemergere per essere accolte e nominate.

…finalmente piangevo il mio papà smarrito e ritrovato, l’adulto che ti ama, il genitore distante e paziente, il guardiano del tuo sonno, la figura che fa da schermo alla morte e soprattutto l’uomo che con la sua assenza mi aveva reso impossibile sostenere qualsiasi mancanza e affrontare la più piccola perdita. Di lui non si era mai parlato con mia madre, che aveva reagito alla sua morte con la responsabilità e con l’azione e aveva trovato nel lavoro la forza di rimuovere il macigno di quel disastro (…). Così avevo cercato rifugio nell’immaginazione e nelle mie abitudini visionarie, che erano l’approdo forzato di un incessante monologo. E quando la donna si era seduta al pianoforte per cantare il dolore ed elaborare il lutto della sua perdita, io avevo messo in ascolto la nostalgia mai detta di mio padre e senza averne coscienza avevo dischiuso il vaso della mia perdita.

 

 

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, july 2016
issn: 2037-0857
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