La tentazione del pensiero
di Silvano Petrosino
Non è necessario saper definire la “vita” per riconoscere che, prima ancora di ogni teoria e certezza, ci si trova in essa, ci si trova gettati nella vita; al tempo stesso non è necessario saper rispondere all’interrogativo “che cos’è la morte?” per riconoscere che si sarà gettati in essa, che la morte risulterà sempre prematura, inopportuna, dunque, da un certo punto di vista, irrimediabilmente ingiusta. L’uomo si trova a vivere e si trova a morire. Rispetto a questa essenziale passività non c’è ottimismo della volontà che non appaia come un’ingenuità e in ultima istanza come una menzogna.
Eppure non si può neppure fare a meno di riconoscere come l’uomo faccia di tutto per non restare schiacciato da tale passività, per non restare inchiodato ad essa: la passività dell’uomo non definisce il tutto dell’uomo proprio perché egli cerca sempre anche di riprendersi da questo choc, da questa condizione di passività, sforzandosi di diventare in qualche modo il protagonista della scena stessa in cui, senza averlo deciso, si trova gettato.
Il pensiero è una forma del riprendersi e del ritrovarsi dell’uomo, è un luogo del suo risvegliarsi, per alcuni è la vera risposta dell’uomo: l’uomo non solo è passivo e subisce, ma anche agisce e risponde, ed il pensiero è l’eccellenza di questo rispondere, e la risposta umana per eccellenza.
Grazie al pensiero – forse sarebbe più corretto dire: grazie anche il pensiero – l’uomo non si trova più ad esistere, ma si ritrova nell’esistere, trovandosi ad esistere si ritrova ad esistere, e così facendo egli cerca/tenta/spera di ritrovare se stesso. Da questo punto di vista il pensiero si costituisce come l’attività più propria dell’uomo, come il suo più intimo dinamismo: il pensiero cerca di recuperare il tempo passato e di prevedere il tempo futuro, grazie al pensiero l’uomo esce dalla propria condizione finita e si muove liberamente al di qua e al di là dei limiti imposti dal suo essere gettato. L’unità del pensiero è così scandita da un duplice movimento: da una parte esso illumina il limite e d’altra parte, proprio perché lo illumina o mentre lo illumina, esso cerca e/o crede (altri direbbero delira) di liberarsene.
Il pensiero, come tutto ciò che riguarda l’uomo, è risposta, ma questa risposta non è mai una; proprio perché è un rispondere, il pensiero non risponde mai e soprattutto necessariamente in un solo modo. Riprendendo ciò che si affermava più sopra si potrebbe anche dire: l’uomo, grazie al pensiero e attraverso di esso, si riprende dalla finitezza e dalla gettatezza che lo definisce in modi diversi e non necessariamente secondo un solo modo. Ora, non appena l’uomo attraverso il pensiero ritorna sulla vita e sulla morte – e così facendo non solo subisce il nascere ed il morire, non solo è passivo rispetto ad essi, ma anche riflette su di essi – ecco che subito si accorge che l’origine non coincide con l’inizio, così come il morire non coincide con il perire.
E’ questo un punto essenziale della questione: come già si accennava, attraverso il pensiero l’uomo cerca di riprendersi dalla passività del suo essere gettato e tenta di mettere un argine a ciò che gli sfugge, ma poi è proprio questo stesso pensiero che ancora lo rilancia ponendolo di fronte ad uno scarto ch’egli non può mai riassorbire e tanto meno dominare.
Come chiarire il senso di questo rilancio? Per riprendere solo uno dei due temi più sopra introdotti ci si può chiedere: come si giustifica la differenza tra “origine” ed “inizio”? Un esempio può forse essere di aiuto.
Un seme germoglia quando si verificano determinate condizioni ambientali (temperatura ed umidità), e da questo punto di vista è corretto affermare che la luce, l’acqua ed il calore devono essere posti all’inizio del suo germogliare: al di fuori di queste condizioni il seme non inizia a germogliare. Eppure si deve anche affermare che affinché il seme germogli è necessario che il seme sia un seme, vale a dire è necessario che esso, ancora prima dell’inizio del germogliare, abbia già in sé la “germogliabilità”, una “germogliabilità” che pertanto deve aver avuto “inizio” e deve essere stata presente (sorprendenti tempi verbali) prima ancora dell’inizio del germogliare rendendolo possibile.
Tale “germogliabilità” precede l’inizio del germogliare e in questo senso essa è all’origine di quel germogliare che necessariamente ha sempre un inizio, ma che tuttavia non può mai essere totalmente ricondotto all’istante di questo inizio. Si potrebbe anche dire che il tempo dell’origine non si identifica mai con quello dell’inizio: quest’ultimo inizia nell’istante (un inizio inizia sempre in un determinato istante), mentre l’origine ha un tempo, o viene da un tempo, che non è mai quello dell’istante: da dove viene e quando ha avuto origine la “germogliabilità”?
L’esempio del seme diventa ancora più chiaro in relazione alla nascita di un essere umano. Quando nasce un essere umano? Quando, uscendo dal ventre della madre, viene alla luce. Senza dubbio. Eppure si potrebbe anche dire: un essere umano inizia a nascere prima ancora di quell’inizio che lo porta alla luce, vale a dire quando uno spermatozoo entra nell’oscurità feconda di un ovulo; in tal senso non sembra essere assurdo affermare che in un certo senso egli viene alla luce prima ancora di venire alla luce.
Ma si potrebbe anche dire – e pure in questo caso una tale considerazione non sembra essere del tutto assurda – che quell’essere umano ha iniziato ad avere inizio prima ancora dell’unione dello spermatozoo con l’ovulo, poiché prima ancora di quell’incontro all’interno del seno materno c’è stato l’incontro nell’esterno dell’atto del concepimento (l’incontro del concepimento ha avuto inizio prima dell’inizio dell’incontro dello spermatozoo e dell’ovulo), e prima ancora di questo inizio nell’incontro dell’atto sessuale c’è stato l’inizio dell’incontro nella decisione per quell’atto, e ancora prima l’inizio dell’incontro nella decisione per l’incontro stesso che permette di portare o potrà portare alla decisione per quell’atto e così via. Questo nesso tra l’inizio e l’origine non viene reciso neppure dall’obiezione secondo la quale non necessariamente la nascita di un nuovo essere umano è preceduta da una decisione poiché spesso il concepimento avviene per caso, per errore, contro ogni volontà; in effetti anche in questo caso come negare che il momento dell’inizio, comunque esso vengo determinato, si trova preceduto da una forza il cui dinamismo deve essere agente all’interno dello spermatozoo e dell’ovulo ancor prima del loro “accidentale” interagire?
Il pensiero che cerca di pensare l’origine, così come quello che cerca di determinare l’inizio, non possono evitare le difficoltà che gli sono proprie. Rispetto al tema dell’origine il pensiero non può negare, in ultima istanza, il proprio non sapere e di conseguenza, senza alcun sentimento di sconfitta, esso si ostina a ricorre al termine “mistero”, considerando la vita stessa come il dono per eccellenza.
Analogamente, rispetto al compito di circoscrivere l’inizio, il pensiero non può non riconoscere la fluidità di una determinazione che è sempre relativa alle circostanze e alle rappresentazioni che dipendono dai diversi punti di vista: il biologo, l’ingegnere genetico, il medico, l’ostetrica, la madre ed il padre non possono che avere consapevolezze diverse nei confronti dell’inizio dell’avventura costituita dalla vita del nuovo nato. Ora, di fronte a queste difficoltà è possibile avere atteggiamenti diversi. E’ possibile negare la pertinenza stessa della distinzione qui in oggetto: non c’è altro che l’origine, non c’è altro che l’inizio. La vita è solo mistero, la vita è solo materia: fatalismo metafisicistico, fatalismo biologistico. In secondo luogo è possibile riconoscere il senso della distinzione, senza tuttavia prestarle alcuna vera attenzione: ci si occupa dell’origine come se l’inizio non avesse alcuna importanza, ci si occupa dell’inizio senza tenere in alcun modo conto del resto irriducibile rappresentato dall’origine. Superficialità di coloro che si accontentano di ripetere, senza mai sforzarsi di pensarla, la massima heideggeriana secondo la quale “la scienza non pensa”; superficialità di coloro che si accontentano di qualificare, per squalificarla, ogni riflessione che si interroghi sull’origine come puramente (qui da assumere nel significato di “inutilmente”) filosofica o religiosa.
Ma per finire resta pur sempre aperta anche un’ultima possibilità, quella di interrogarsi sull’origine o sull’inizio senza per questo censurare ciò che, solo immediatamente, non costituisce l’oggetto più diretto della propria indagine: riflettere sull’origine tenendo conto delle urgenze dell’inizio, riflettere sull’inizio tenendo conto del rinvio all’origine. Non è forse proprio in questa non censura, o per lo meno nella tensione verso questa non censura, se qualcosa di simile può esistere, che risiede il dinamismo più profondo del pensiero umano e la possibilità stessa di quel “riprendersi” dell’uomo a cui si è fatto cenno all’inizio?
A tale riguardo un’ultima osservazione. Il pensiero mira ad un sapere che tuttavia rischia sempre di trasformarsi in tentazione. Più sopra di diceva: l’uomo cerca sempre di riprendersi dalla passività in cui si trova gettato sforzandosi di diventare in qualche modo protagonista all’interno della scena in cui si trova.
Ma, per l’appunto, di quale “protagonismo” si tratta? Si può essere tentati di guardare talmente indietro da volere cogliere, al fine di poterlo così determinare, l’inizio stesso della propria origine; gesto estremo e folle che solo la trasfigurazione poetica permette di sopportare: “Io, Antonin Artaud, sono mio figlio / mio padre, mia madre / ed io (…) Io non accetto di non aver fatto il mio corpo io stesso”. Ma si può anche decidere di guardare avanti, solo avanti, senza più alcuna indecente curiosità per l’istante della vita e della morte, diventando così protagonisti nella storia attraverso la costruzione della giustizia e la ricerca del bene. Non guardare indietro, ne va della tua vita.
tysm literary review
vol. 16, issue 21
january 2015
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