La trasfigurazione del destino. Cioran, Eliade, Ionesco
di Marco Dotti
Una fotografia li ritrae insieme, in piazza Fürstenberg, intenti a scambiarsi parole e sguardi di complicità. È il 1977 e, limitandoci a osservare questo scatto oramai celebre messo a fuoco da Louis Mounier, nulla fa dubitare che si tratti di un incontro tra cari, vecchi amici. Compagni di viaggio che, dimenticate per un attimo le asperità e le vicissitudini a dire poco amare dell’esilio, si sono ritrovati in una delle più silenziose e appartate piazze di Parigi, al riparo da incontri e sguardi indiscreti, dietro la chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Mircea Eliade porta gli occhiali e tiene in bocca la sua immancabile pipa. Ritratto sulla destra della fotografia, ha già settanta anni, ma non si direbbe che da più di mezzo secolo regge sulle proprie spalle il peso, per lui tutt’altro che comodo, di una contestata e insolita celebrità. Nel resto d’Europa, il successo è arrivato relativamente tardi, ma negli ambienti studenteschi di Bucarest il nome di questo giovane brillante dalla memoria prodigiosa era già circondato da un alone di leggenda, almeno dal ’27. I suoi articoli venivano letti e studiati, le sue note di poltica e «morale» discusse, la sua autorevolezza cresceva soprattutto tra i circoli di coloro che – sempre più numerosi – frequentavano le pittoresche lezioni di Nae Ionescu, professore di logica e futuro fiancheggiatore ideologico delle camicie verdi della Guardia di Ferro. Storico delle religioni, Eliade scriverà in francese i suoi libri prettamente accademici e continuerà a servirsi della lingua di Voltaire anche quando nel ’57 otterrà un incarico all’università di Chicago. Alla lingua madre, il romeno, affida invece le innumerevoli pagine autobiografiche che tiene regolarmente, a partire dagli anni dell’adolescenza, e i lavori che più gli stanno a cuore, ma per i quali forse a torto è meno conosciuto e stimato, ovvero racconti e romanzi.
Emile Cioran e Eugène Ionesco, gli altri due compagni rispettivamente sul lato sinistro e al centro del ritratto, sembrano collocarsi meglio di lui nel cuore della scena. Si scambiano qualche battuta, si guardano e, fatto alquanto singolare per due caratteri sempre attraversati da ombre, sensi di colpa e scossi da repentini tumulti interiori, guardandosi… sorridono. Come è stato possibile? C’è stata forse una riconciliazione fra i due, dopo che l’autore della Cantatrice calva, nell’immediato dopoguerra, si era detto alquanto scettico sulla possibilità di perdonare a Cioran alcuni suoi «errori» di gioventù? Di che «errori» parlava Ionesco nelle sue lettere al critico Tudor Vianu, pubblicate solo nel 1994 e che in gran parte illuminano alcune delle zone d’ombra in cui ancora si trovano molti aspetti della loro vita nel periodo dell’entre-deux-guerres e del loro definitivo trasferimento a Parigi?
Decisi a rincontrarsi per un’iniziativa promossa dall’editore Pierre Belfond, Ionesco, Eliade e Cioran – nati a due anni di distanza l’uno dagli altri, tra il 1907 e il 1911, figli, artefici e in parte vittime di quella «giovane generazione» che, sul finire degli anni Venti, cambiò radicalmente i connotati della letteratura e della cultura romene – si erano dati appuntamento in un luogo chiave delle loro esistenze. Proprio in Place Fürstenberg, infatti, nel 1945 i tre si erano rivisti per la prima volta dopo molti anni. È Mircea Eliade ad annotarlo, tra le pagine del suo diario, ricordando anche come in quel giorno del ’77, il fotografo che li accompagnava avesse deciso di fissare quel atmosfera davvero inconsueta, moltiplicando all’infinito gli scatti e riprendendoli in pose diverse, ma sempre «mentre discutevamo, nel guardarci reciprocamente, mentre Eugène rideva, parlava con enfasi, con le braccia al cielo e Cioran lo lasciava fare, con l’aria rassegnata, gentile e malinconica». Dopo le pose e le chiacchiere, Ionesco si congedò per recarsi a una riunione dell’Académie Française, mentre Eliade e Cioran si diressero al caffè La Martiniquaise. «Mi chiedo perché quel giorno» – scrive ancora Eliade stavolta con esibito, fin troppo umorale rammarico – «non ci venne in mente di richiamare alla memoria la Parigi favolosa dell’immediato dopoguerra, quando eravamo poveri, sconosciuti e comunque decisi, benché senza grandi illusioni, e ciascuno per motivi differenti, a rimanere ciò che eravamo stati in Romania: scrittori».
Parte proprio dalle circostanze implicate da quella che a un primo sguardo può sembrare una comunissima fotografia e dalle annotazioni, in apparenza neutre, di Eliade oltre che dalla vera e propria ossessione autobiografica rinvenibile anche negli scritti di Cioran e Ionesco, il libro che Alexandra Laignel-Lavastine ha dedicato alla figura e ai destini incrociati dei tre intellettuali romeni. La scrittura autobiografica, messa costantemente all’opera da Eliade e Ionesco, ma anche da Cioran in maniera quanto mai evidente nei Quaderni, ha a che fare più con un esercizio di sincerità o con un costante tentativo di dissimulazione delle tracce del proprio non sempre conveniente passato? Quanta parte vi è di calcolo in tutto questo, si chiede Alexandra Laignel-Lavastine, quanto di cinismo e quanto di rimorsi e senso di colpa? Domande all’apparenza scontate, ma di non facile e comunque non scontata risposta, se è vero che in tutti e tre i casi alla «past dependency» messa in campo dalla loro scrittura è corrisposta, fino a tempi recenti, una pressoché totale rimozione del passato precedente al 1945 quando gli anni non solo di Bucarest, ma persino della magnifica Parigi di cui favoleggia Eliade, erano tutt’altro che felici per i tre.
Pubblicato in Francia nel 2002, e subito all’origine di grandi e un po’ pretestuose polemiche, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco (traduzione di Laura Verrani) viene proposto al pubblico italiano dall’editore Utet. Va subito detto che si tratta di un libro che non difetta di rigore, anche se non si può non tenere in debito conto dei lavori nel frattempo usciti sull’argomento – a cominciare dalla magistrale e documentatissima biografia Mircea Eliade le prisonier de l’histoire di Florin Turcanu, edita nel 2003 da Le Découverte e che si spera di vedere tradotta in italiano, un giorno o l’altro – e rilevare una certa tendenza alla semplificazioni nei giudizi di carattere etico, riscontrabili in alcune parti del lavoro della Laignel-Lavastine. Semplificazioni in qualche modo rese necessarie dall’ansia di tenere comunque saldo il nesso comune fra tre vite, tre «opere» e tre personalità radicalmente differenti tra loro, al di là del comune contesto in cui tali vite e tali opere sono maturate. Un contesto fatto di persecuzioni, adesioni più o meno entusiastiche (Eliade e, in maniera ben più compromettente, Cioran) al movimento legionario del fascista Codreanu, o premature disillusioni (Ionesco). Eppure, a dispetto delle parole di Eliade sul loro essere «soltanto scrittori», e a dispetto di tutte le differenze, una cosa certa sembra accomunarli: il dirsi senza passato, il credere o peggio il volere far credere che le loro vite sono cominciate quasi dal nulla, proprio negli anni dell’esilio, nel momento stesso in cui i legami con la loro giovinezza romena si erano, per dire così, spezzati. Diverse, ovviamente, furono le motivazioni di questa rimozione.
Se per Ionesco essa attiene a vicende personali e familiari – una supposta e comunque sofferta ascendenza ebraica da parte di madre, il contrasto a più riprese descritto nelle sue opere col padre e la società burocratizzata dei «rinoceronti» di Stato -, per Cioran e Eliade si può, a buon diritto, parlare di una scelta dettata da convenienza e opportunismi, anche se le rispettive strategie di riscrittura del proprio passato su questo punto divergono, e sono strategie non facili da sorprendere, tanto e tale è il meticoloso controllo su ogni loro riga scritta operata dai due autori. Se Eliade, di cui sono note le simpatie per la Guardia di Ferro, cercherà per tutta la vita e in gran parte riuscendovi di diventare l’artefice di un vero e proprio «mito» personale, praticando una forma selettiva di amnesia e riscrittura di sé, Cioran da parte sua lavorerà per ottenere una non troppo inconsueta inversione dei propri giudizi, rispetto a quelli troppo indulgenti formulati nel ’33 nei riguardi di Hitler e al suo libro forse più compromettente sul piano politico, Schîmbarea la fata a României, letteralmente La trasfigurazione del destino della Romania.
Si tratta, in quest’ultimo caso, di un lavoro sistematico e di un certo peso nella tradizione dei libelli dedicati alla cosiddetta «rivoluzione conservatrice» , edito nel ’36 e ripubblicato in un’edizione spurgata nel 1990, nel quale Cioran espone il proprio «credo» nazionalistico, simpatizzando di volta in volta per Lenin, la modernizzazione antirurale, l’Operaio di Ernst Jünger, l’organicismo di Othmar Spann e il comunitarismo del Reich, sviscerando la propria avversione per le componenti «ungheresi» della società romena e, soprattutto, per un non meglio precisato «elemento ebraico». Elemento, quest’ultimo, che problematicamente tornerà ma in termini per l’appunto rovesciati (non più condanna o attacco, ma esasperata e non meno sospetta o stereotipata «esaltazione») anche nel testo Un popolo di solitari, incluso venti anni più tardi nel libro redatto in francese e titolato La tentazione di esistere. Se in Schîmbarea, Cioran sogna«una Romania che abbia la popolazione della Cina e il destino della Francia», capace di «influire, per una volta, sul corso della Storia», al punto da auspicarsi una sorta di «fanatismo trasfiguratore» del basso destino di mediocrità che, fino al allora, avrebbe contrassegnato la sua terra, nel Popolo di solitari la «trasfigurazione» opera ormai solo sul piano individuale, abbandonando ogni idea di nazione, comunità o «redenzione» storica. Ciò nonostante, il discorso riprende le argomentazioni già espresse e gli stereotipi già messi in circolazione nel quarto capitolo del volumento del ’36, servendosi – questa è la tesi dell’autrice – di Schîmbarea come di un sottotesto o di un metatesto senza la lettura del quale sarebbe impossibile comprendere l’ossessione per il «carattere ebraico» che, nel ’56, segna ancora Cioran.
L’ebreo inteso come «carattere» dell’essere «senza patria», nel 1936 sembrava incarnare unicamente la parte negativa del mondo (lo sradicamento, l’antinazionalismo, la contraddizione di un destino e via discorrendo), e negli stessi termini riappare anche nella Tentazione di esistere, dove identificherà l’essere «assolutamente altro», tanto da far concludere all’autore che «ogni ebreo è ebreo, prima di essere uomo». Per la Laignel-Lavastine, in definitiva, l’opera «francese» di Cioran non farà che «riscrivere, rimaneggiare, rivistitare, secondo l’espressione dello stesso autore, ‘disfare’, l’opera del periodo romeno», ed è proprio da lì che occorre ripartire, per una ricognizione non agiografica del suo tragitto biografico e una analisi non empatica della sua opera.
Il lavoro Alexandra Laignel-Lavastine contesta efficacemente il quadretto idilliaco restituitoci dai ricordi di Eliade e, altrettanto apparentemente, supportati dalla fotografia di Louis Mounier, rivelando quanto i rapporti fra i «fratelli nemici» Ionesco, Cioran e Eliade fossero tutt’altro che idilliaci e come, dietro la maschera di quei rapporti, transitassero tutti gli orrori, i sensi di colpa, i compromessi di un’epoca.
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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013
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