philosophy and social criticism

Le armi della Chiesa

di Francesco Paolella

In nazioni come la Francia e l’Italia, cadute nel vortice della “Grande” guerra di un secolo fa e dove la chiesa cattolica aveva spadroneggiato per secoli, riducendosi infine a essere una minoranza “perseguitata” (sedicente tale) dai governi, la fede, i riti, i simboli religiosi tornarono di moda. Al di là delle (legittime) superstizioni (i talismani, i santi protettori, gli sconfinamenti nel magico, gli ex voto) per un bisogno di protezione da parte di milioni di soldati e delle loro famiglie, forze importanti e influenti del cattolicesimo europeo – e specie quelle più ambiziose e più desiderose di rivincita – videro nella guerra il compimento di un vero e proprio miracolo: nell’Europa atea e massonica, finalmente ecco di nuovo le chiese piene! Le file ai confessionali! Un ritorno alla devozione che si sarebbe rivelato poi essere un fuoco di paglia, e un’illusione per tanti uomini di fede.

Anche il mondo cattolico voleva essere protagonista di quegli sconvolgimenti epocali, di battaglie e lotte che avrebbero deciso il futuro della civiltà europea. E non si trattò di semplice patriottismo. La guerra, con la mobilitazione e la propaganda di massa che si misero in moto, fu vista anche da parte cattolica – e, appunto, particolarmente da quelli che con più accanimento vagheggiavano un ritorno al medioevo, una vera restaurazione religiosa, sognando insomma una nuova egemonia cattolica – come una grande occasione per vincere una guerra culturale e ideologica dentro i singoli paesi. Non c’erano soltanto le armate nemiche da cui difendersi: occorreva combattere il nemico interno dell’ateismo, della modernità, della laicità.

Ciò valeva anzitutto per un paese come la Francia, in cui la repubblica era riuscita a emanciparsi, a liberarsi da un potere a cui appunto alcuni pensavano ancora con nostalgia.

Dunque, la guerra poteva essere letta anche come castigo divino: ma non soltanto come un castigo. Il martirio di più di una generazione poteva infatti essere interpretato come un sacrificio necessario per espiare le colpe di un popolo e della sua classe dirigente. Da questa idea derivavano metafore ardite sul sacrifico dei soldati, paragonato addirittura alla passione di Cristo. Dagli altari la guerra veniva allora tradotta come strumento di penitenza e di (possibile) salvezza davanti alla crisi della cultura continentale.

Col passare del tempo, sempre più voci (anche autorevoli) delle gerarchie cattoliche, si levarono per chiedere nelle preghiere la vittoria per il proprio paese, più ancora che la pace e la giustizia fra le nazioni. Vincere sui campi di battaglia, ma perché? In quale vittoria occorreva sperare? La vittoria, per essere veramente tale, sarebbe dovuta essere una vittoria cristiana; sconfiggere la barbarie tedesca non era che la premessa di una restaurazione più profonda: ristabilire i diritti della chiesa, adeguare la società e le sue leggi al “regno sociale di Cristo”.

Si tratta di progetti che oggi possono sembrare a uno sguardo superficiale addirittura grotteschi, ma che invece avevano (e hanno) alla base idee ben radicate. La catastrofe bellica poteva diventare la leva per ricristianizzare società intere.

All’interno di questi disegni – davanti ai quali il Vaticano di Benedetto XV sembrava sempre più in difficoltà per restare fedele alla propria neutralità e al proprio ruolo di pacificatore – non mancarono veri e proprio sconfinamenti nel nazionalismo più acceso. In ogni chiesa nazionale, probabilmente, si sarà ceduto alla tentazione di parlare del proprio come del “popolo eletto”. In altri termini: più ancora degli eserciti e delle armi, sarebbe stato necessario siglare un “patto” con Dio per assicurarsi la vittoria: e così fecero Austria, Germania, Francia e Italia e poi gli altri paesi dell’Intesa. Fu tutto un fiorire di “voti”, di consacrazione più o meno ufficiali e più o meno pubbliche: che si trattasse di una specie di “alleanza” fra regni (uno terreno e uno celeste), oppure che si trattasse di un contratto fra un popolo e il “suo” Dio (fra Dio e il “suo popolo prediletto”), fin dai primi mesi di guerra ci fu la rincorsa ai favori soprannaturali.

A dominare furono le consacrazioni al Sacro Cuore di Gesù, e a partire proprio dalla Francia.

In Italia, fu padre Agostino Gemelli, originale figura di medico, frate e soldato, a mettere in piedi un rito di massa che coinvolse, ai primi di gennaio del 1917, circa due milioni di militari. Le idee di Gemelli, le sue posizioni sul ruolo egemonico della chiesa nel mondo moderno, e sulla disciplina necessaria per governare l’esercito e la società tutta, a tratti erano davvero “estreme”, ma non per questo isolate. Gli stessi cappellani militari stavano del resto già mettendo in pratica una “corresponsabilità” nel gestire il consenso e l’obbedienza del soldati nell’esercito di Cadorna. Gemelli si spinse molto in là nel suo progetto di legittimazione cristiana della guerra, nell’individuare e diffondere parole e simboli che permettessero di sperare in una causa cristiana per uccidere e farsi uccidere.

Ovviamente – e anche per il fastidio prima, e poi per l’aperta opposizione del potere politico e di quello militare italiani – i “sogni di gloria” di Gemelli e di altri uomini di chiesa dovettero ridimensionarsi sempre di più: le spille e le coccarde col Sacro Cuore che, a milioni, furono distribuite fra i soldati, vennero piuttosto riutilizzate da questi ultimi come portafortuna, come talismani per salvare la pelle e non tanto come simboli di fede e di volontà di sacrificio.

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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