Lettera di un disoccupato nell’Italia delle riforme
Marco Nicastro
«La brutta notizia è che da tempo non lavoro, la buona è che la notte riesco ancora a dormire».
Così mi scrive un amico in una lettera inviatami di recente per spiegarmi la condizione in cui vive da diversi mesi. Si tratta di una di quelle decine di migliaia di persone, non più giovanissime seppur ancora abbastanza giovani, che pur versando in uno stato di disoccupazione non hanno sufficienti coperture di tipo assistenziale, economico o formativo da parte dello Stato, come invece capita ad altre categorie di lavoratori o semplicemente a persone un po’ più giovani.
Ha 40 anni, per circa dieci ha lavorato come libero professionista in modo intermittente in diverse strutture sanitarie pubbliche e private. Ha cercato sempre, mi dice, con le sue sole forze, di inserirsi nel mondo lavorativo facendo ciò per cui aveva studiato e si sentiva effettivamente portato. È riuscito a prendersi diverse soddisfazioni, ma col tempo ha perso il suo entusiasmo finendo per essere dunque ben distante da quel modello di intraprendenza e di ottimismo imprenditoriale – il vecchio mito del self-made man – che molti rappresentanti delle nostre istituzioni pongono volentieri davanti agli occhi dei giovani come ideale cui ambire, per cavarsela in quest’epoca di grande incertezza e “fluidità” sociale ed economica.
Ha sempre fatto il suo percorso con dovere, mi racconta: impegnato a scuola, laurea in una disciplina umanistica (psicologia) conseguita in tempi brevi e con buoni voti, lavoretti saltuari da studente per aiutare i genitori a mantenere i suoi studi, diversi corsi di perfezionamento post-lauream e una pratica obbligatoria di tirocinio formativo durata per alcuni anni. Nonostante ciò, dopo quindici anni di studio e formazione, ha dovuto accontentarsi di vivere nella precarietà del libero professionista, senza mai riuscire a migliorare in modo significativo la sua situazione economica e professionale nonostante attestati di stima e buoni risultati raggiunti. Anche perché, mi spiega, nella sua disciplina i laureati sono veramente troppi (come accade anche in altri settori del resto) e per creare condizioni lavorative più decorose si sarebbe dovuto provvedere ad istituire il numero chiuso già da almeno un decennio. Ma questa opzione pare essere una di quelle scelte strutturali che, benché molti dal basso le ritengano necessarie, non si ha il coraggio di prendere in un paese come il nostro, e questo sia per ragioni ideologiche avanzate dalla nostra cosiddetta sinistra che vede storicamente nel numero chiuso una limitazione al diritto di tutti a laurearsi («che diritto sarebbe se ti conduce dritto dritto alla disoccupazione?», mi chiede retoricamente il mio amico), sia per favorire indirettamente una certa categoria professionale, quella dei docenti universitari, attraverso l’apertura di decine di facoltà periferiche in città medio-piccole, per garantire a molti ricercatori la possibilità di ottenere una cattedra da docente. Queste considerazioni, a ben pensarci, non mi sembrano del tutto campate per aria se si analizza senza pregiudizi la realtà universitaria italiana dopo le varie riforme fatte negli ultimi decenni e la sua evoluzione in termini di selettività (dei docenti al suo interno e degli studenti) e di qualità dell’insegnamento.[i] «Cosa attendersi dal mondo del lavoro quando uno Stato non tutela la prospettiva lavorativa dei suoi giovani illudendoli col mito della formazione a tutti i costi (per essere competitivi) e sfornando decine di migliaia di laureati ogni anno indipendentemente dalle effettive richieste del mercato, inflazionando così al contempo quello stesso titolo di studio che ritiene per altri versi tanto importante?».
In effetti, ad un occhio attento, negli ultimi anni lo studio e la formazione in Italia sono diventati sempre più una “questione di soldi”, un vergognoso commercio di titoli che ha sancito l’entrata della logica capitalistica, cioè della produttività a tutti i costi, anche nel mondo dell’istruzione: proliferano nell’indifferenza generale scuole private che fanno recuperare in breve tempo gli anni scolastici, università telematiche da frequentare comodamente da casa, master e corsi di perfezionamento costosi e spesso inutili, esito perverso di una progressiva riduzione dei finanziamenti all’università che ha reso necessario reperire fondi in altri modi.[ii] Parliamo cioè di scelte politiche che hanno reso nel tempo sempre più importante il contributo economico degli studenti per la sopravvivenza degli atenei: università più facile significa più iscritti, preparazione più scadente significa necessità di seguire dei corsi di perfezionamento ulteriori, il tutto significa maggiori entrate. Si è dovuta trovare quindi una forma alternativa di finanziamento all’università, a scapito però dell’effettiva utilità dei corsi e della formazione proposta. È lecito pensare quindi, come è incline a fare il mio amico, che sia la destra che la sinistra abbiano contribuito negli ultimi decenni, seppur in modo diverso – con i tagli ai finanziamenti nel primo caso, con la paralisi ideologica nel secondo – a favorire il declino della qualità dell’istruzione universitaria e post-universitaria.
Se quindi è difficile riporre la propria fiducia su quanto molte facoltà possono effettivamente offrire in termini di istruzione e formazione personale, si potrebbe tuttavia sperare che, una volta entrati nel mondo del lavoro, attraverso l’impegno, la dedizione o specifiche capacità personali, un giovane possa compensare il gap iniziale di tempo sprecato. Ma per un laureato come lui, il cui ambito di lavoro sarebbe principalmente quello sanitario (ma il discorso potrebbe essere valido anche per altri ambiti), i contratti libero-professionali, per non parlare poi dei concorsi pubblici, sono quasi una chimera. Innanzitutto, mi dice, «in Italia, nel pubblico impiego, vige ormai da almeno un decennio un abuso dei contratti a termine, un costante sfruttamento delle cosiddette partite IVA che vengono impiegate come se fossero dipendenti, cioè con gli stessi oneri e responsabilità, ma con forme contrattuali molto meno tutelanti e retribuite. Come se non bastasse poi, il mantenimento di quegli stessi contratti dipende anche dal volere dei vari politici locali che decidono periodicamente a quali enti destinare certi finanziamenti, a volte indipendentemente dall’utilità effettiva del servizio per il territorio. Un’altra variabile è rappresentata poi dai singoli dirigenti delle strutture sanitarie, che hanno ormai, date quelle tipologie di contratti, un maggiore arbitrio nel decidere se confermare o meno i liberi professionisti (come avviene in un’azienda privata quando uno è in prova, solo che in questi casi la prova dura anni) e il cui spostamento o sostituzione nel tempo può comportare un cambiamento decisivo nelle prospettive lavorative del nostro lavoratore, una volta che arriveranno nuovi dirigenti. Infine, se un libero professionista volesse aspirare a stabilizzare la sua posizione tentando uno dei pochi concorsi pubblici indetti nel suo settore l’impresa sarebbe ancora più ardua, dato che i concorsi pubblici si sono trasformati da tempo in pure formalità usate per stabilizzare legalmente (costituzionalmente) quei pochi precari che possono vantare una maggiore anzianità di servizio o esperienza nell’ente che assume, oppure che, nel peggiore dei casi, rientrano per qualche motivo tra i ‘preferiti’ di un dirigente o di un politico. Nessuna speranza quindi di vincere un concorso se non si hanno le giuste referenze all’interno di una certa istituzione, indipendentemente dal merito e dai titoli».[iii]
Per chi come il mio amico proviene dall’ambito della libera professione reinserirsi in qualche modo nel mondo del lavoro è molto difficile, sia per l’età, come accennato, che lo esclude da una serie di attività formative e assistenziali (ad esempio il progetto Garanzia giovani), sia per l’impossibilità di ottenere sussidi di disoccupazione nel periodo non lavorativo, non avendo potuto mai godere di un contratto da dipendente (dato lo sfruttamento delle partite IVA di cui sopra), sia infine per il funzionamento dei nostri Centri per l’impiego che, a differenza di quanto avviene in altri Stati europei, sono ben lontani dal fornire un’adeguata assistenza a chi cerca un lavoro o proporre attività formative effettivamente spendibili, spesso perché di lavoro in Italia ce n’è poco rispetto all’enorme domanda. Ci sarà qualche ragione quindi per dubitare dell’efficacia dei vari percorsi formativi e di studio che lo stato italiano mette a disposizione dei propri cittadini, se la media della disoccupazione giovanile continua a rimanere intorno al 35% (al sud va oltre il 50%), e l’emigrazione dal nostro paese è nell’ordine di oltre duecentomila persone ogni anno?[iv]
Stando così le cose, al mio amico potrebbe forse rimanere la magra consolazione della speranza che i politici facciano qualcosa di significativo dinnanzi a dati così impietosi. Ma su quel versante è ancora più sfiduciato, mi confessa, anzi veramente arrabbiato. Ha votato per diversi anni a sinistra, poi per qualche anno non ha più votato, infine ha deciso di puntare sul M5S. Si infastidisce parecchio quando sente giornalisti e illustri rappresentanti delle istituzioni parlare di “anti-politica” per riferirsi al movimento di Grillo, l’unico realtà politica che non solo promette ma concretamente fa (quando ci riesce) alcune cose che i nostri partiti hanno invece da sempre cercato di bypassare furbescamente: rifiuto di qualsiasi forma di finanziamento pubblico, vincolo dei due mandati per i suoi parlamentari e altre regole di condotta stringenti, riduzione significativa del loro stipendio ecc. Piccole cose, alcuni dicono; eppure significative da un punto di vista morale, specie in un paese come il nostro malato da sempre di trasformismo e di politica fatta solo per difendere gli interessi di pochi. Lui, del resto, non si è mai sentito un anti-politico ma al contrario uno che ha un’alta concezione della politica e della gestione della cosa pubblica che a questa è demandata. Ci tiene a ricordarmi che i parlamentari italiani, a livello nazionale e regionale, «sono i più pagati d’Europa e godono di privilegi economici e di posizione inspiegabili e assolutamente irrazionali, che un tempo, fatte le giuste proporzioni, erano tipici delle oligarchie privilegiate del clero e della nobiltà. Non hanno vincoli lavorativi e di produttività come molti lavoratori, non devono rendere conto a nessuno del loro agire, nemmeno a chi li ha votati (ma qui c’entra la Costituzione), sempre pronti a sottomettersi al leader politico di turno se ne potrà favorire la rielezione». A chi volesse farsi un’idea di tutto questo, e del carico economico crescente che la finanza pubblica ha dovuto sopportare nel corso dei decenni a causa dei suddetti privilegi, il mio amico consiglia vivamente di leggere e rileggere l’eccezionale libro-inchiesta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta (Rizzoli, 2008). Un testo che, secondo lui, dovrebbe finire sui banchi di scuola per dare ai nostri ragazzi un’idea realistica e precisa, perché basata su dati e fatti storici e non su semplici opinioni di parte, di cosa abbia silenziosamente garantito a sé stessa la classe politica italiana a partire dalla nascita della Repubblica.
«Quanti dei politici italiani», mi dice, «hanno avuto la preoccupazione di trovarsi un lavoro ammesso che smettessero di fare politica, o hanno dovuto preoccuparsi per la loro futura pensione? Che dovrei fare io, che temo seriamente di non poterne avere una degna di questo nome? Per non parlare poi di come molti hanno gestito la cosa pubblica, facilitando o chiudendo gli occhi su sprechi di denaro, evasione fiscale, ruberie, tangenti e in generale corruzione, finendo così nel tempo non solo per far crescere a dismisura il più grande fardello per il futuro delle nuove generazioni – l’enorme debito pubblico del nostro paese – ma anche per essere riconosciuti come una delle classi politiche più corrotte a livello europeo, ben lontana dagli standard socialmente richiesti in altre democrazie occidentali». Tutto ciò non poteva che comportare, secondo lui, una clamorosa e continua disaffezione alla politica da parte dei cittadini (in un paese di unificazione relativamente recente come il nostro) e accrescere la distanza tra questi e la classe dirigente, tanto è il disgusto dinnanzi allo sfacelo morale.[v] Niente di cui meravigliarsi quindi se, a causa dell’impoverimento del sistema scolastico e formativo cui prima si è accennato (processo che indebolisce il senso civico di un popolo) e del comportamento amorale dei nostri politici, una parte consistente della popolazione non va più a votare.
«Se c’è quindi un’anti-politica di cui preoccuparsi» secondo il mio amico, «è proprio la nostra politica attuale, che spesso ha fatto tutto fuorché buona politica e che ha finito per tacciare di anti-politica chi invece voleva determinare un cambiamento radicale in questo stato di cose, paventando irresponsabilmente lo spettro del qualunquismo, dell’estremismo o del populismo. D’altronde i mezzucci retorici per ingannare l’opinione pubblica sono sempre stati un punto di forza dei nostri politici, specie quando mancano degli argomenti validi per sostenere certe scelte e idee, aiutati in questo gioco da una parte importante dei mezzi di informazione legati a doppio filo al potere politico o governativo. Non è un caso se, in una recente classifica che include 180 paesi del mondo, redatta dall’agenzia Reportes sans frontieres, l’Italia è al 77° posto per la libertà di stampa».
Così il mio amico si è convinto che, dinnanzi a questa situazione deprimente per un giovane ormai non più giovanissimo come lui, «l’unico movimento in grado di proporre idee alternative e soluzioni utili al miglioramento dello status quo, che non siano però le fantomatiche riforme strutturali tanto declamate ma del cui beneficio ancora nessuno si accorge, a parte ovviamente chi le propugna, è il M5S». [vi] L’unica formazione politica, a suo avviso, ad essersi dotata in tempi ragionevoli di modi per affrontare dall’interno le inevitabili problematiche di legalità che potevano sorgere nell’attività dei suoi membri, a dispetto di ciò che ha fatto da sempre la nostra classe politica, la quale si è volentieri nascosta dietro la protezione ideologica del “garantismo” per non affrontare le malefatte di molti dei suoi rappresentanti. «E se ci deve essere un rinnovamento vero della politica – un rinnovamento e non una rottamazione, perché le persone e le idee non sono cose, ferraglia da gettare via, mi dice – è il movimento di Grillo l’unica alternativa attualmente credibile, un’organizzazione che ha sempre fatto della legalità, al di là di qualche presa di posizione ingenuamente purista, uno dei suoi cavalli di battaglia, il punto di partenza necessario per risolvere molte cose in questa Italia politicamente mediocre. Un movimento che, proprio perché i suoi rappresentanti non mirano solo ad acquisire consenso allo scopo di essere rieletti (essendoci il limite di mandato oltre che regole stringenti di condotta) si può permettere ad esempio di proporre misure che vanno in direzione opposta rispetto al lassismo nella gestione dei conti pubblici che ha sempre caratterizzato la nostra politica (partendo da una lotta dura all’evasione, alla corruzione e agli sprechi di soldi pubblici), col paradosso che, almeno sotto questo aspetto, è proprio il M5S ad essere il partito più europeista, ossia più attento alla necessità di maggiore rigore, equità ed equilibrio nella gestione delle finanze dello Stato».[vii]
Mi fa quindi molto piacere che il mio amico, nonostante tutte le sue difficoltà e la sua visione delle cose, continui a dormire e a nutrire un barlume di speranza nella possibilità di apportare qualche significativo cambiamento, attraverso la politica, nel nostro paese. Forse in fondo non è falso quanto si dice da più parti, ossia che il movimento di Grillo sia riuscito a dar voce e a far confluire in sé la rabbia e la speranza di quei milioni di giovani e meno giovani che ormai non credono più nella classe politica italiana e sognano qualcosa di diverso, ma che soprattutto non vogliono rassegnarsi alla marginalità sociale o all’emigrazione.
Note
[i] Per chi volesse approfondire alcuni problemi dell’università italiana, sarebbe bene leggere alcuni lavori molto significativi e coraggiosi sull’argomento, tra cui L’università dei tre tradimenti di Raffaele Simone (Laterza, 1994) e L’università truccata di Roberto Perotti (Einaudi, 2008).
[ii] Ma si potrebbe anche menzionare la miriade di corsi di formazione online per gli insegnanti di ogni ordine e grado, di cui però questi ultimi faticano spesso a comprendere l’utilità pratica, proliferati sull’onda del bonus da 500€ annuale concesso dall’ultimo governo per la formazione. Che poi questo bonus sia molte volte usato dagli insegnanti, dandone lo Stato italiano assurdamente la possibilità, per acquistare tecnologia “utile” per la formazione personale (pc, tablet ecc.) è la conferma di quanto sostenuto sopra, cioè dell’equiparazione, ormai diffusa e accettata a tutti i livelli, della formazione culturale a un bene di consumo.
[iii] Non è in fondo difficile “truccare” un concorso pubblico, specie in certi ambiti. Basta che alcuni dei candidati conoscano in anticipo i quesiti oggetto della prova o quantomeno i temi specifici su cui questi verteranno. Se le commissioni che elaborano i quesiti poi non sono composte da membri esterni all’istituzione che assume, ma da persone che conoscono direttamente o indirettamente alcuni dei candidati, il tutto diventa ancora più facile.
[iv] Per l’esattezza circa 250.000 persone ogni anno, tra cui molti laureati, secondo quanto riporta un articolo di Andrea Carli su “Il Sole 24 Ore” del 6 luglio 2017. Un esodo che dal 2010 è triplicato, stando almeno ai dati recentemente diffusi dal CENSIS (dicembre 2017).
[v] Secondo i dati diffusi dal CENSIS sopra citati, nonostante la lieve ripresa economica dell’ultimo anno, oltre il 75% dei cittadini italiani intervistati non ha fiducia nei partiti e nelle istituzioni politiche nazionali e locali, e teme fortemente l’impoverimento e l’esclusione sociale.
[vi] In tutti questi anni di malgoverno, l’unica riforma strutturale degna di questo nome, pur con i suoi evidenti errori, è stata quella delle pensioni fatta del governo Monti, che ha messo in sicurezza i conti pubblici dello Stato guardando nel lungo periodo (facendo risparmiare circa 80 miliardi di euro tra il 2012 e il 2021), oltre che stabilendo un criterio di maggiore equità tra i pensionati e le giovani generazioni di lavoratori che dovranno sostenere quelle pensioni. Certo, anche il Jobs Act è una riforma significativa, solo che va nella direzione, tipica del liberismo capitalista, di rimpolpare tramite gli sgravi contributivi temporanei i conti degli imprenditori riducendo al contempo diritti e stabilità lavorativa dei nuovi assunti.
[vii] A ben pensarci, non è proprio vero che il rigore è nemico della crescita, nonostante gli slogan di molti tromboni della politica lo facciano sembrare tale all’opinione pubblica. Se si recuperasse anche solo una parte dell’evasione fiscale (senza ovviamente ricorrere ai condoni che hanno l’effetto contrario sul lungo periodo), se si riducessero gli sprechi attraverso una seria spending review (non come quella proclamata ma mai fatta finora), se si riuscisse a contrastare più duramente la corruzione e l’attività delle mafie attraverso più efficaci dispositivi di indagine e leggi più severe, se ci si impegnasse maggiormente a ridurre il debito pubblico, ci sarebbero a disposizione decine di miliardi di euro da investire nella crescita.
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philosophy and social criticism
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