philosophy and social criticism

Outsider: l’arte di degenerazione in degenerazione

Francesco Paolella

Chissà quanti, fra gli artisti geniali e “folli” (e dobbiamo intendere questo “folli” in molti sensi), di cui ci racconta Alfredo Accatino in questo bel volume, sarebbero stati inseriti da Cesare Lombroso nella sterminata collezione di casi a sostegno della sua teoria patologica del genio. E chissà quanti fra loro sarebbero stati descritti da Carlo Dossi nel suo lavoro sui mattoidi. Sono passati decenni e decenni dall’epoca di Lombroso e di Dossi, e oggi ciò che conta non è più tanto indagare le cause della genialità artistica (e non solo artistica), né sostenere che, in fin dei conti, l’estro del genio, il suo momento creativo non corrisponderebbe ad altro che a una specie di attacco epilettico. Oggi ci interessano di più gli effetti che il vero talento e la passione onnivora per l’espressione artistica possono avere su esistenze spesso fragili, quasi sempre povere e precarie e, talvolta, tragiche.

Gli outsiders sono artisti sbagliati, perché sono nati nel posto o nel momento sbagliato, e che non hanno avuto il successo o l’hanno avuto soltanto dopo la morte, “riscoperti” semmai dopo molti anni di oblio, o, meglio, di rimozione. Questi geni sfortunati non sono stati, infatti, semplicemente dimenticati. Perché troppo dissonanti rispetto al mondo in cui sono vissuti ed essendo spesso davvero anticipatori (rivoluzionari senza rivoluzione) di idee affermatesi soltanto in seguito; oppure perché colpiti dalle malattie o dalle guerre o dalle polizie ideologiche, ecco che ci troviamo davanti a nomi che (tranne qualche caso) non ci dicono nulla. Eppure, hanno detto molto, in modi eccentrici e a volte discutibili, durante la loro vita. Sono artisti davvero inclassificabili e le loro esistenze così rocambolesche e dolorose non possono che influire sul nostro sguardo sulle loro opere.

Alfredo Accatino ha voluto con questo libro far riemergere alcuni esempi di questa creatività dispersa, raccontandoci in breve vite difficilmente riassumibili e permettendoci di conoscere almeno un po’ esperienze artistiche difficilmente classificabili. Come dicevo poco fa, c’è stata solo per alcuni di loro (pensiamo a Vivian Maier, ad Adolf Wölfli o al fotografo August Sander, di cui ha scritto anche Walter Benjamin) una riscoperta (e una rivalutazione commerciale) post mortem. Ma ciò non cambia la sostanza.

Questi artisti rimangono comunque dei perdenti. In molti casi la guerra (le due guerre mondiali) hanno rovinato le loro vite, quando pure sono riusciti a tornare a casa. Le persecuzioni razziali hanno invece pesato in diversi casi: così per Felix Nussbaum, il cui Autoritratto con passaporto ebraico (1943) è diventato oggi uno dei simboli stessi dello sterminio. Anche le ideologie – quella nazista, con i suoi progetti di eliminazione di ogni “arte degenerata” e, soprattutto, di ogni vita indegna di essere vissuta con l’Aktion T4, ma anche quella comunista – compaiono diverse volte in questi racconti.

Dall’altra parte, leggiamo invece di malattie, come la tubercolosi (spesso esito di vite sregolate, intossicate, malnutrite), ma soprattutto di malattie psichiche. Tanti outsiders sono stati “ospiti” di manicomi e ne hanno subito gli effetti, primi fra tutti la solitudine e l’abbandono. Questo aspetto non fa che ribadire – al di là di tutti gli studi sull’art brut – il “classico” paradosso per cui da un bene (il talento, la passione) può venire un male (l’incomprensione, l’isolamento), così come da un male (una vita piena di problemi e di solitudine) può venire un bene (la spinta ad esprimersi, a manifestarsi). Alcuni fra questi artisti hanno ricevuto una diagnosi di schizofrenia, ma le forme del disagio possono essere molte, ed essere meno eclatanti. Prendiamo solo il caso – sarebbe inutile qui fare un elenco di tutti gli artisti presi in esame da Accatino – di Dick Ket, il «maestro con le dita a bacchetta», un pittore olandese, malato di cuore fin dalla nascita, gracile, debilitato e che ha vissuto sempre isolato e per molti anni senza neanche uscire di casa. Eppure, i suoi autoritratti gli hanno permesso di farsi conoscere e di raggiungere una certa notorietà.

Un altro elemento che mi pare unisca questi outsiders è la loro vita antiborghese. Forse è anche per questo che oggi essi ci appaiono così straordinari e così “pazzeschi” (e sempre più appariranno così in futuro). In una qualche maniera, clamorosa oppure appena percettibile, questi artisti hanno dovuto necessariamente evadere da un ordine sociale e morale che non avrebbe permesso loro di esprimersi. E ciò valeva soprattutto durante gli anni dei regimi totalitari, neri o rossi che fossero. Ecco così che, ad esempio, Cagnaccio di San Pietro, un pittore «anarchico a sua insaputa», preferì farsi internare in manicomio, fingendosi squilibrato, per non dover scontare in carcere le proprie frasi pronunciate contro il regime.

Noi siamo portati oggi ad insistere in una lettura romantica di quelle esistenze, spesso decontestualizzandole. Ma ha ragione Alfredo Accatino quando dice, un po’ scherzando e un po’ no, che molte avrebbero successo se venissero trasferite in sceneggiature per un film o per una serie televisiva. Sarebbe un modo per “sfruttarle” senza dubbio, ma anche per fare i conti con problemi drammatici che riguardano anche noi, che non abbiamo talento.

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