philosophy and social criticism

Liberismo in caduta libera

Christian Marazzi

L’economia finanziaria è oggi pervasiva, si spalma cioè lungo tutto il ciclo economico, lo accompagna per così dire dall’inizio alla fine. Oggi si è nella finanza, per dirla con un’immagine, anche quando si va a fare shopping al supermercato, dal momento in cui si paga con la carta di credito. L’industria automobilistica, per fare solo un esempio, funziona interamente su meccanismi creditizi (acquisti rateali, leasing), tant’è vero che i problemi di una General Motors riguardano tanto la produzione di automobili quanto, se non soprattutto, la debolezza della Gmac, la sua filiale specializzata nel credito al consumo indispensabile per vendere i suoi prodotti ai consumatori. Siamo cioè in un periodo storico nel quale la finanza è consustanziale a tutta la produzione stessa di beni e servizi.

Oltre ai profitti industriali non reinvestiti in capitale strumentale e in salari, le fonti che alimentano la finanziarizzazione odierna si sono moltiplicate: vi sono i profitti che derivano dal rimpatrio di dividendi e royalties a seguito di investimenti diretti all’estero, i flussi di interessi provenienti dal debito del Terzo Mondo, ai quali si aggiungono i flussi di interessi sui prestiti bancari internazionali ai paesi emergenti, le plusvalenze derivanti dalle materie prime, le somme accumulate da individui e da famiglie facoltose investiti sui mercati borsistici, i fondi pensione e di investimento. La moltiplicazione e estensione delle fonti e degli agenti del «capitale portatore d’interesse» è senza dubbio uno dei tratti distintivi, inediti e problematici, del nuovo capitalismo finanziario, specie se si riflette sulla possibilità di modificare questo sistema, di «de-finanziarizzarlo», ristabilendo in tal modo un rapporto «più equilibrato» tra economia reale e economia finanziaria.

Accumulazione monetaria

Come le precedenti, questa finanziarizzazione parte anch’essa da un blocco dell’accumulazione intesa come non reinvestimento dei profitti nei processi direttamente produttivi (capitale costante, ossia beni strumentali, e capitale variabile, ossia salari). Infatti, essa inizia con la crisi di crescita del capitalismo fordista a partire dagli anni Settanta. Vi erano, in quegli anni, tutte le premesse per una riedizione della classica finanziarizzazione basata sulla dicotomia tra economia reale (industriale) e economia monetaria, con il conseguente dirottamento di quote di profitto sui mercati finanziari per assicurare una crescita dei profitti senza accumulazione.

Dall’inizio degli anni ’80, «La fonte principale delle bolle finanziarie è la crescita tendenziale del profitto non accumulato che risulta essa stessa da un duplice movimento: da una parte, l’arretramento generalizzato dei salari e, dall’altra parte, la stagnazione – vedi l’arretramento – del tasso di accumulazione malgrado il ristabilimento del tasso di profitto» (Michel Husson, Les enjeux de la crise, «La Brèche»). Per tasso d’accumulazione si intende il tasso di crescita del volume del capitale netto, mentre per tasso di profitto si intende il rapporto tra profitti e capitale: la divergenza tra i due tassi a partire dal 1980, rappresenta un indicatore certo, benché non il solo, della finanziarizzazione. Ma, come detto, ai profitti industriali non reinvestiti si sono via via aggiunte altre fonti di «accumulazione» di capitale finanziario, un fatto da tener presente per capire le trasformazioni del modello di sviluppo-crisi postfordista. In particolare, la finanziarizzazione ha comportato un processo di disintermediazione bancaria per quanto riguarda il finanziamento della crescita economica (prevalenza del modello anglo-sassone su quello renano), ma ha altresì conosciuto un processo di moltiplicazione degli intermediari finanziari come risultato della deregolamentazione e liberalizzazione dell’economia.

Il consumo del rentier

La transizione dal modo di produzione fordista al «capitalismo manageriale azionario» che sta alla base del capitalismo finanziario odierno si spiega infatti alla luce del calo dei profitti industriali (di circa il 50 per cento) tra gli anni Sessanta e Settanta dovuto all’esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche del fordismo, in particolare la saturazione dei mercati per beni di consumo di massa, la rigidità dei processi produttivi, del capitale costante e del salario operaio politicamente «rigido verso il basso». All’apice del suo sviluppo, ad una determinata composizione organica del capitale (cioè del rapporto tra capitale costante e capitale variabile), il capitalismo fordista non è stato più in grado di «succhiare» plusvalore dal lavoro vivo operaio. «Pertanto, fin dai secondi anni ’70 la principale forza propulsiva dell’economia mondiale è stato l’incessante tentativo delle imprese capitalistiche – sollecitato dai loro proprietari e investitori – di riportare con differenti mezzi il tasso di profitto ai maggiori livelli di vent’anni prima» (Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi). Sappiamo come è andata: riduzione del costo del lavoro, attacco ai sindacati, automatizzazione e robotizzazione di interi processi lavorativi, delocalizzazione in paesi a bassi salari, precarizzazione del lavoro e diversificazione dei modelli di consumo. E, appunto, finanziarizzazione, ossia aumento dei profitti non come eccedenza dei ricavi sui costi (cioè non secondo la logica manifatturiera-fordista), ma come eccedenza del valore in Borsa.

Non c’è dubbio che, nella configurazione postfordista del capitalismo finanziario in cui la parte dei salari si riduce e si precarizza e gli investimenti in capitale stagnano, il problema della realizzazione dei profitti (ossia della vendita del plusvalore prodotto) rimanda al ruolo del consumo a mezzo di redditi non salariali. Sotto questo profilo distributivo, la riproduzione del capitale (con la polarizzazione della ricchezza estremamente elevata che lo caratterizza) si effettua in parte grazie all’aumento del consumo dei rentier e in parte grazie al consumo indebitato dei salariati. La finanziarizzazione ha redistribuito, per quanto in modo fortemente disuguale e precario (si pensi alle rendite pensionistiche derivanti dalla pensione integrativa secondo il primato delle contribuzioni), rendite finanziarie anche ai lavoratori salariati nella duplice forma di rendite mobiliari e immobiliari (negli Usa rispettivamente del 20 per cento e 80 per cento). C’è quindi una sorta di divenire rendita del salario, oltre che del profitto.

L’indebitamento delle economie domestiche, al quale corrisponde una riduzione più o meno pronunciata dei risparmi a seconda che ci si situi negli Usa o in Europa, è ciò che ha permesso al capitalismo finanziario di riprodursi su scala allargata e globale. Si può affermare che, parallelamente alla riduzione della funzione redistributiva dello Stato sociale, in questo periodo si è assistito ad una sorta di privatizzazione del deficit spending di keynesiana memoria, ossia la creazione di una domanda aggiuntiva a mezzo di debito privato (con relativo spostamento del rischio verso le economie domestiche private).

L’esplosione dell’indebitamento privato è stata facilitata, soprattutto dopo il crollo del Nasdaq del 2000-2002, da una politica monetaria molto espansiva e dalla deregulation bancaria, una politica che ha favorito la cartolarizzazione dei titoli poggianti sui debiti: Collaterized Debt Obligation e Collaterized Loans Obligations, ai quali si aggiungono i Credit Default Swaps, i titoli assicurativi derivati che vengono scambiati (di fatto barattati) tra gli operatori per proteggersi contro i rischi d’investimento. L’insieme di tutti questi derivati del credito ammonta oramai a qualcosa come 62 mila miliardi di dollari.

A partire dalla crisi della new economy del 2000-02, il mercato immobiliare statunitense conosce un’accelerazione spettacolare, soprattutto se si ricorda che già nel 2001 i prezzi dell’immobiliare erano già alquanto elevati, tanto elevati che gli analisti consideravano come già data la bolla del settore nel 2002. Grazie alla cartolarizzazione dei mutui subprime, invece, è stato possibile spingere l’inflazione del settore immobiliare fino allo scoppio della bolla nel 2007.

La povertà quotata in borsa

L’espansione dei mutui subprime dimostra che per crescere e fare profitti la finanza ha bisogno di coinvolgere, oltre al ceto medio, anche i poveri. Per funzionare, questo capitalismo deve investire sulla nuda vita di persone che non possono fornire alcuna garanzia, che non offrono nulla se non se stessi. E’ un capitalismo che fa della nuda vita una fonte diretta di profitto. Lo fa sulla base di un calcolo delle probabilità secondo cui il mancato ripagamento di un prestito è considerato «gestibile», cioè trascurabile, se considerato su scala di un’intera popolazione. La logica finanziaria che sottende il calcolo delle probabilità è infatti particolarmente cinica: i titoli emessi a partire dal pool di crediti ipotecari raggruppati dalle banche d’affari sono costruiti secondo il principio della subordinazione, cioè di una gerarchia di rischi interna ai titoli emessi. Il primo lotto, quello inferiore, avrà un rischio elevato. Quello intermedio presenterà un rischio ridotto, e quello più elevato (super senior e senior), costituito dai titoli migliori, sarà considerato particolarmente sicuro. Il lotto superiore è così protetto da quelli inferiori, nel senso che sarà la parte dei titoli cartolarizzati più a rischio la prima a saltare in caso di perdite per gli investitori. L’accesso al bene casa è costruito sulla base di modelli matematici di rischio in cui la vita delle persone non conta assolutamente niente, in cui i poveri sono «giocati» contro i meno poveri, in cui il diritto sociale all’abitazione è artificialmente subordinato al diritto privato di realizzare un profitto. Con buona pace degli economisti accademici che in tutti questi anni hanno messo le loro competenze scientifiche e la loro dignità a disposizione dell’industria finanziaria (su come la crisi finanziari odierna riveli anche la crisi della scienza economica accademica, si veda: David Colander et al., The Financial Crisis and the Systemic Failure of Academic Economics).

Il limite della proprietà sociale

La soglia di questo processo inclusivo è data dalla contraddizione tra diritti di proprietà sociale di un bene (come la casa) e diritti di proprietà privata, tra espansione dei bisogni sociali e logica privata della finanza di mercato. Su questa soglia si gioca il futuro del conflitto sociale, come pure la capacità o meno del capitale di uscire dalla sua stessa crisi. Si tratta di una soglia temporale, se solo si pensa, ad esempio, all’architettura dei contratti ipotecari tipici dei mutui subprime. La formula del 2 + 28, dove nei primi due anni gli interessi ipotecari sono fissi e bassi, appunto per cooptare sempre più «proprietari», e gli altri 28 anni sono a tassi variabili, quindi soggetti all’andamento generale della congiuntura e della politica monetaria, rappresenta un esempio di contraddizione tra diritti di proprietà sociale e diritti di proprietà privata. Dopo due anni di relativo predominio del valore d’uso (diritto d’accesso all’abitazione), si passa a ventotto anni di predominio del valore di scambio, con effetti di espulsione/esclusione estremamente violenti. In tal modo, la logica finanziaria produce un (bene) comune, che poi divide e privatizza con l’espulsione degli «abitanti del comune» a mezzo di creazione artificiale di scarsità di tutti i generi, scarsità di mezzi finanziari, di liquidità, di diritti, di desiderio, di potere. Un processo che ricorda l’epoca delle recinzioni seicentesche (enclosures), in cui i contadini, che vivevano sulla e della terra come bene comune, furono espulsi a causa dei processi di privatizzazione e di divisione della terra comune, processi che diedero origine al proletariato moderno e alla sua nuda vita.

[da il manifesto, 31 maggio 2009]