philosophy and social criticism

L’invenzione del presente

Pierre Bergounioux

La letteratura trae il suo valore essenziale da ciò che non le appartiene, in particolare dall’esistenza e dal reale. Il fatto è che l’esistenza e la realtà superano di gran lunga l’idea che possiamo farcene quando vi siamo immersi, travolti dalla vita di tutti i giorni. La letteratura è un lusso, alla sua origine ma anche nei suoi effetti. Passa attraverso il disimpegno e la neutralità affettiva che, malgrado tutto, presuppongono una forma di piacere. In questo senso, la «letteratura» è un territorio del pensiero, se con questa espressione si intende – secondo la definizione data, nel XIX secolo, dal fisiologo Bain – astensione, gesto trattenuto, parola ricacciata in fondo alla gola.

Ombre ai margini della vita

Le decisioni che prendiamo nella vita e nell’azione sono spesso dettate dall’urgenza e suscitano, di rimando, una obiettività pratica e dinamica che non esaurisce tutta la nostra esperienza del «reale». Accanto all’universo ristretto della necessità, sappiamo che ne esistono altri, paralleli, sorti da differenti posizioni di pensiero. Omero, che ha posto le basi delle grandi narrazioni, rappresenta l’archetipo di questo modo «altro» di rivolgersi alla realtà. Scrive tre secoli dopo l’avvenimento che è oggetto del suo lavoro letterario, è lontano dalla scena e dal teatro della azione di cui parla. Si dice che fosse cieco e qualche critico suppone addirittura che non sia mai esistito. Ma l’infermità, che gli impediva di camminare agevolmente e gli negava persino il mondo felice delle apparenze, è stata la fonte stessa del suo canto.

Non fosse stato cieco, si sarebbe forse dedicato a un qualsiasi lavoro manuale, condividendo la visione che la gente ha delle cose quando non si pone troppi problemi o inquietudini sulla loro presenza. Estraneo alla luce e sottratto alle incombenze del giorno, Omero ha potuto spingere il pensiero nel passato, conferendo al «dire» – la cecità gli precludeva la dimensione del «fare» – una perfezione che sarebbe considerata ridicola da qualsiasi uomo di «azione».

Da una parte, dunque, troviamo l’azione, dall’altra la contemplazione, tra questi due poli bisogna scegliere. Omero non aveva possibilità di scelta. La sua cecità lo ha assegnato all’ordine della riflessione. Ha rievocato le battaglie da lontano, come attraverso uno schermo nero che gli copriva la vista. Solo a un prezzo esorbitante – gli occhi cavati dal volto – il racconto, per sua natura sempre incerto e libero, raddoppia la marcia «nera» degli avvenimenti, illuminandoli.

Non c’è nulla di paradossale nel fatto per cui la grande letteratura consiste, nella maggior parte dei casi, in qualcosa di inadatto all’azione, relegato ai margini della vita. Fu dopo aver perso un braccio a Lepanto, dove cercava glorie militari, che Cervantes barattò la spada con la piuma e iniziò a raccontare le avventure del suo ingenioso «hidalgo». Che dire inoltre di Flaubert? Lo scrittore trovò rifugiò nella nevrosi, riuscendo a sottrarsi a un destino da avvocato e offrendo alla borghesia illuminata del suo tempo l’immagine di un disastro in cui, finalmente, avrebbe potuto riconoscersi. Con una conseguenza non da poco per l’autore di Madame Bovary: il fatto di dover comparire dinanzi a un tribunale per rispondere dell’accusa di attentato al buon costume e alla religione.

Lo splendore di certi libri è, in larga misura, conseguenza delle reticenze e delle ferite che hanno segnato i loro autori, oltre che della situazione marginale e di continua opposizione che occupavano nei relativi universi culturali. Ci sono caratteristiche, socialmente molto marcate, che conferiscono una attitudine alla contestazione simbolica, alla rappresentazione esplicita, formalmente elaborata, del reale e dei piani potenziali della letteratura. La letteratura, la vera letteratura, è sconcertante perché porta alla superficie del foglio, nero su bianco, le profondità dell’esistenza che sfuggono alla coscienza ordinaria, la contraddicono e la smentiscono. Viviamo, crediamo, condividiamo un certo numero di assiomi che fondano la volontà pratica e delimitano la sfera del pensabile. Le strutture materiali del mondo sono costruite accanto a rappresentazioni collettive. Nata dal primo e più grande fra tutti i privilegi, quello di essere esentata dal lavoro produttivo, la letteratura rivela, come contropartita, il significato che si nasconde dietro il senso comune, l’inesauribile ricchezza di un mondo sul quale la fatica quotidiana, l’abitudine, la preoccupazione, l’oblio hanno apposto i propri sigilli.

Un tempo, la letteratura interessava e riguardava solo una piccola parte della popolazione. Anche in un paese come la Francia dove, dal Medioevo, la letteratura accompagna senza interruzione la storia, la sua diffusione è stata ostacolata dall’analfabetismo e dalla mancanza di una lingua comune. All’inizio nel secolo scorso, un’opera stampata in ottavo costava quattro franchi, ossia il corrispondente della settimana lavorativa di un bracciante. Ancora oggi, la diffusione della letteratura «pura» – una letteratura che dobbiamo considerare estranea a ogni considerazione e preoccupazione di mercato – è limitata a poche migliaia di lettori, spesso laureati e comunque sufficientemente agiati, che non hanno nessun problema a destinare un po’ di euro all’acquisto. Paradossalmente, però, c’è da rilevare che la scolarizzazione secondaria e superiore di una parte ormai rilevante della popolazione non comporta l’aumento dei lettori. Le tirature di Samuel Beckett, che si aggiravano attorno ai due o trecento esemplari negli anni ’50 (quando uscirono Molloy o Godot) non hanno alcuna relazione con la vastità o l’universalità del loro contenuto.

Un diverso rumore del mondo

Esiste la temibile concorrenza dei nuovi media, ovviamente. Resta però il fatto che l’ambito in cui la letteratura si muove sembra tenere ai margini la maggior parte delle persone che sanno leggere e scrivere. Dovremmo quindi capire come la letteratura scende a patti col mondo contemporaneo. L’«invarianza» è il carattere paradossale che le deriva dal fatto di nascere in un luogo separato, in un tempo sospeso e calmo. Ritraendosi dalla comunità di azione e di parola, lo scrittore intuisce cio che la fretta, l’agitazione, i conflitti, la concentrazione di energie e di visioni lasciavano nell’ombra e riporta tutto nel registro dell’espressione. In questa ottica, il suo scopo è lo stesso di quello dei tempi omerici. È cambiato il rumore del mondo, che non è più quello, monotono, del vento, dell’asse dei vecchi carri cigolanti, delle bestie, arrivato fino al termine della Belle Époque, e forse anche fino a Alain-Fournier. Per molto tempo, la letteratura si è librata sullo sfondo di anni di lentezza, uno sfondo rappresentato da campi, boschi, e più tardi si è adeguata al frastuono assordante delle città industriali. Niente impediva allo scrittore di considerarsi come il depositario di un verbo molto parsimoniosamente distribuito, il confidente di un cono d’ombra che ricorre al suo intermediario per provare a raggiungere il popolo laborioso, più o meno analfabeta, sordo e muto. Da qualche parte, Julien Graq dice che questo era ancora il suo modo di sentire: almeno negli anni ’30, quando stava scrivendo Au château d’Argol. Tutto è cambiato nello spazio di quaranta anni. Non sono tanto gli stravolgimenti della civilizzazione materiale e morale ad avere ammorbato la letteratura, quanto l’apparizione di figure professionali il cui unico scopo è quello di produrre il significato esplicito del mondo, come altri producono merce a ciclo continuo, servizi personalizzati, plusvalore. Al silenzio dei campi, allo stupore suscitato dalla società contadina, sono succedute le comunicazioni di massa, l’offerta concorrenziale di immagini e visioni che si presentano come unica spiegazione dell’avventura che viviamo. Che siano state ampiamente recepite, questo lo si può verificare con il rapido cambiamento dei modi di agire, sentire e pensare. (…)

La letteratura si radica in questa mancanza essenziale. È presente in potenza ogni volta che qualcuno si ritira e delibera, pensa, dietro la porta di una camera o di un ufficio, al rumore che sta dall’altra parte. Questo ritiro assorto è vecchio quanto la letteratura. Costituisce la sua condizione necessaria, ma non necessariamente sufficiente. Il fatto nuovo, semmai, sta nell’essere diventata accessibile a un numero abbastanza elevato di persone. Nelle società relativamente semplici, maneggiare la penna era affare riservato a pochi. La storia letteraria tende a ignorare questo fatto (…)

Fino a un periodo recente, la letteratura presentava un certo numero di tratti omogenei, costanti, che era facile dedurre direttamente dalle strutture sociali esistenti. Era il prodotto di un gruppo dominante – composto da introversi aristocratici incapaci di maneggiare la spada, o da borghesi. Gli uni furono un tempo al soldo degli altri. Acquisirono, con l’ascesa della loro classe sociale, una autonomia di azione e di ispirazione la cui conseguenza fu che una parte soltanto della vita e del mondo si rispecchiava nella letteratura. Ovviamente, si trattava della classe più ricca e agiata, oltre che raffinata. Non che gli scrittori dell’epoca non abbiano dato spazio, fra le loro pagine, alle classi lavoratrici. Li hanno però rappresentati dall’esterno, senza mai condividere la loro condizione.
Il fatto più rilevante della seconda metà del XX secolo è la generalizzazione dell’accesso all’insegnamento superiore. (…) Interi gruppi di persone la cui esperienza non ha mai varcato la soglia della pura espressione vi hanno fatto ingresso. Si contano ormai a decine, centinaia, migliaia gli scrittori virtuali, il che spiega, almeno in parte, la cronica inflazione di romanzi buttati sul mercato.

Tutto scorre veloce

Il mondo è entrato in una fase di cambiamento radicale e accelerato che sta investendo sia le grandi questioni, sia i dettagli che formano la grana e il colore delle cose di ogni giorno. È nei libri che ne ritroviamo l’eco. Mai, tuttavia, siamo stati più inclini a dubitare – e mai abbiamo avuto più convincenti ragioni per farlo – di quanto succede e, di riflesso, di ciò che si trova registrato sulla carta stampata. Tutto procede veloce. Ciò che sembrava duraturo scompare, fatti inimmaginabili fino a qualche anno fa definiscono meglio la fisionomia della strana epoca in cui siamo entrati. Mai il reale, il presente, furono più sconcertanti di quanto lo siano oggi. Non sappiamo in quale opera si disegni il loro profilo. Possiamo soltanto supporre che queste opere si scriveranno conformente alla legge che prescrive alla letteratura l’ombra e l’assenza, e il tempo che seguirà, un tempo che noi non vedremo, forse in queste opere si riconoscerà.