Lo spirito della povertà
Denis de Rougemont
Non sarebbe un problema sociale così grave se non fosse anzitutto un problema morale irrisolto. Per la maggior parte dei moderni, la minaccia di povertà non significa principalmente «pane e fatica», come per i contadini, bensì significa «umiliazione». «Diventare povero», «essere rovinati», vuol dire, a seconda dei casi, perdere venti milioni su quaranta di patrimonio, o su ventuno, o centomila franchi sii duecentomila, o perdere un posto da ottantamila per ritrovarne un altro da ventiquattromila, o perdere tutto quello che si possedeva. In ognuno di questi casi, il problema creato dalla povertà ha un carattere eminentemente morale: ciò che più si teme, sentimentalmente, è in primo luogo la perdita del proprio rango e della considerazione che ne deriva, è l’idea di non potersi più «mettere in mostra», sedurre, viaggiare, correre in macchina, andare a teatro, possedere un appartamento, ecc., tutte cose che si amano poiché si è convinti che devono essere amate, o perché non si hanno gusti diversi da quelli che ci ispira la pubblicità. In fin dei conti, ne siamo terrorizzati solo perché non seguiamo quello spirito di povertà che apprezziamo quando viene lodato nelle chiese o nei libri. Si ritiene che la povertà sia un vizio, ed è proprio in virtù di questa convinzione che si continua a ripetere il proverbio che sostiene il contrario.
Ma forse la vera soluzione, la soluzione pratica alla psicosi della crisi che affligge la borghesia, risiede unicamente in questo «spirito di povertà». E aggiungo subito che la soluzione pratica alla miseria reale, quella che patisce da tempo, o da sempre, una parte del popolo, si possa trovare invece nella Rivoluzione materiale. Tuttavia una simile rivoluzione non potrà essere duratura e veramente innovatrice, se non sarà accompagnata da una rivoluzione morale nella borghesia: dato che non è possibile annientare fisicamente tutta la borghesia (non siamo in Russia). E finché vi saranno dei borghesi, vi saranno anche delle persone che temono di essere degradate, cioè di divenire poveri. A meno che essi non comprendano un po’ meglio in cosa consista lo spirito di povertà. Ma ch arriva a comprenderlo, oggi? Neanche quei pochi che si vantano di averlo, lo possiedono realmente. E quando lo si ha veramente, è probabile che lo si ignori. (Non parliamo poi degli ipocriti o degli ingenui per i quali lodare lo «spirito di povertà» dispenserebbe dal sopprimere i fattori materiali della miseria, del capitalismo, dei centri urbani, ecc.).
Senza dubbio lo spirito di povertà è un dono posseduto da chi crede a qualcosa di diverso dalla propria vita, di diverso dal proprio successo, dai propri agi, dal proprio rango, ecc., qualcosa di diverso anche dal proprio valore spirituale. Costoro sono molto pochi. O, per meglio dire, se ne conoscono molto pochi: qualche grande leader, qualche fanatico di una causa, qualche santo. Ma forse anche un gran numero di oscuri credenti. Coloro grazie ai quali l’umanità vale qualcosa, senza saperlo.
[Tratto da Diario di un intellettuale disoccupato, a cura di Carlo Laurenti, trad. di Manuela Maddamma, Fazi, Roma 1997]
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