L’uomo che andava al cinema
Giulia Zoppi
Walker Percy, L’uomo che andava al cinema, trad. di Eileen Romano, Marcos y Marcos, 2010.
Anche se il titolo di questo classico della letteratura, dimenticato dall’editoria italiana e ripubblicato di recente da Marcos y Marcos, farebbe pensare alle memorie di un cinefilo incallito alle prese con la sua dolcissima ossessione, il romanzo di Percy parla d’altro, o meglio, ingloba il cinema e il rituale ad esso connesso, nella routine di una vita marginale, opaca e cinicamente uguale a sé stessa, nel profondo sud degli Usa, nel ventre caldo e appiccicoso di New Orleans.
Siamo nell’America dei primi Sessanta, quando il sogno americano, cinematografico e culturale, ha rotto i finti argini che lo proteggono dal resto del mondo, per mostrare la sua faccia peggiore e l’inizio del suo decadimento.
L’America profonda, terra desolata di solitudini e di motel costruiti nel deserto vicino a qualche pompa di benzina, in cui fanno sosta di tanto in tanto automobili color confetto, è dove vive il nostro eroe Binx Bolling, agente di cambio, innamorato della cugina Kate e del cinema di periferia, solitario e meditabondo filosofo dilettante, amaro e malinconico come il suo autore, la cui vita fu segnata da una serie di sfortune e di eventi tali da forgiare il suo carattere e le sue inclinazioni letterarie, nonostante la sua formazioni universitaria fosse di stampo scientifico, vista la laurea in medicina.
Il romanzo, considerato il suo migliore, risente delle influenze trasmesse dalla cultura europea di cui Percy durante la tubercolosi che lo colpì nella giovinezza, seppe nutrirsi a piene mani (Kirkegaard, Sartre, Camus, Tolstoj, Dostoevskij), convertendo i topoi del Vecchio Continente, nel vuoto simbolico dell’America dei consumi: famiglie perfette, barbecue della domenica, il Mardi Gras nella città del Mississipi, segretarie tutte curve e un lavoro routinario, quanto scontato.
Vincitore del National Book Award nel 1962, L’uomo che andava al cinema (The Moviegoer) narra la storia poco appassionata e appassionante di un trentenne che fa i conti con un quotidiano semplice, privo di eventi e pieno di immagini (mentali e cinematografiche) che tengono conto delle persone, conosciute o appena sfiorate, che lo attraversano, con un senso del disgusto e del distacco ironico e superficiale, di chi si lascia trasportare dal mondo: da chi ha uno sguardo e un senso dell’orizzonte mai capace di andare oltre alla linea infinita tracciata nel cielo, quella che taglia lo sguardo che divide la terra rossa del deserto, dal cielo sgombro di nuvole.
Peter Handke, scrittore austriaco dal gusto eccentrico e dal vissuto forgiato dal dramma dell’abbandono materno (la vita di Percy fu segnata da dolorosi lutti) traducendo questo romanzo in Austria, appena dopo la sua uscita, lo annovera immediatamente tra le opere che non passano inosservate proprio perché inoculate da quel virus che ammala il mondo e affligge gli uomini.
E se ogni tanto, la vita piana di Bolling viene squarciata dal dubbio o dal dolore di un immaginario senza orizzonti, la redenzione appare sotto forma di una donna, la cugina Kate, amata fino in fondo, benché afflitta da una depressione inesorabile quanto crudele.
Ma il cinema, il medium meraviglioso a cui il titolo rende omaggio esplicitamente c’è, e sembra nato apposta per ricordarci che nel buio, per magia rituale, sia che si tratti dell’uomo medio, dell’uomo solo, dell’uomo malato e dell’uomo sconfitto, arriva il momento della pace e della rivincita.
Come è scritto sul cinema del quartiere di Binx, a Gentilly: Dove la felicità costa così poco; e la vita vampirizza altra vita.
[da il manifesto, 6 giugno 2010]
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