Miriadi di editori invisibili su un mercato da centottanta libri al giorno
Francesca Borrelli
Intervista apparsa su il manifesto del 7 aprile 2009
Aiutati da Giuliano Vigini, fondatore della Editrice bibliografica, e docente di sociologia dell’editoria contemporanea, ripercorriamo alcune cifre, inimmaginabili a chi non segua il mercato del libro. Tanto per cominciare, a gennaio è stata certificata l’esistenza di 9676 case editrici: «sì, precisa Giuliano Vigini, ma bisogna aggiungere che di queste 3300 non hanno libri in catalogo, ossia hanno esaurito i loro titoli, e per qualche ragione li hanno fatti uscire dalla circolazione. Sono per lo più editori che hanno cominciato per hobby, magari per svolgere una attività complementare ad altre; del resto l’editoria mobilita ancora grandi passioni altrimenti in tempi di crisi non nascerebbero 862 nuovi editori, com’è successo nel 2008, anche grazie al fatto che non ci vogliono cospicui investimenti per aprire una casa editrice (ma spesso chiuderla costa infinitamente più caro, come osserva saggiamente Oliviero Ponte di Pino nella sua miniera di informazioni pubblicata da Tea sotto il titolo I mestieri del libro).
«Quando si parla di piccola editoria – precisa ancora Vigini – ci si riferisce a case che statisticamente fanno uscire da uno a dieci titoli: tutte insieme sono il 61, 8 per cento degli editori, ma arrivano a pubblicare solo una media di 3,9 libri l’anno, il che coincide con l’invisibilità. Per la maggior parte non possono nemmeno ambire ad arrivare ai banconi delle librerie perché li trovano già strabordanti: basti pensare che il solo gruppo Mondadori, fra novità e ristampe pubblica più di 7000 libri in un anno, dunque satura già lo spazio di una libreria. Tanto per dare qualche idea delle proporzioni di questa anomalia, tutt’altro che limitata all’Italia, basterà ricordare che il gruppo Mondadori (che a sua volta fa parte di Mediaset-Fininvest) ha una quota di mercato del 29 per cento, la Rcs fa il 13,6 per cento, il gruppo GeMS di Mauri Spagnol (nato come holding di partecipazioni nel 2005) ha una quota di mercato pari all’8,2 e la Feltrinelli fa il 3,8: il totale di questi pochi marchi editoriali raggiunge già più del 54 per cento del mercato. Tra i vari svantaggi dei piccoli editori c’è quello di resistere in libreria non più di cinquanta-sessanta giorni dopo il lancio, a meno che non abbiano una importanza particolare o non si affidino alla grande distribuzione: del resto, la libreria si trova nelle condizioni di una stazione ferroviaria, che deve fare posto ai libri in arrivo. Recentemente ci si è messa, a far lievitare la produzione, anche la stampa digitale, che una volta assegnato un codice Isbn può inviare le sue copie nel circuito commerciale. In questo regime di sovraproduzione, essendo il rapporto tra spazio e redditività diventato molto stretto, non ci si può permettere di tenere titoli che vendono poco. Con sempre maggiore evidenza, poi, l’occupazione di tutti i canali di vendita del libro è diventata di importanza cruciale, perché serve a sostenerne tutta la parabola, tanto è vero che vediamo sempre gli stessi pochi gruppi editoriali impegnati non solo nella acquisizione di nuovi marchi ma anche di società di distribuzione, o di librerie in rete».
A proposito di sovraproduzione, la crisi sembrerebbe avere indotto a un leggero ridimensionamento dei titoli, e tuttavia i numeri restano vertiginosi, non è vero? «Certamente, infatti nel 2008 siamo arrivati a oltre 65.000 libri in un anno, tra novità e ristampe, il che vuol dire più di 180 libri al giorno. In commercio ci sono oltre 500.000 libri, ma c’è anche da dire che ogni anno 40.000 titoli escono dal circuito. Alla fin fine, comunque, con 300 titoli si fa gran parte del mercato librario, e gli editori che contano non sono più di 150. La concentrazione riguarda anche le aree commerciali, perché la Lombardia e il Lazio arrivano da soli al 46,7 per cento delle vendite in libreria.
Inoltre i cosiddetti lettori forti ammontano solo al 20 per cento ma costituiscono l’80 per cento del mercato della libreria, che peraltro realizza, con meno di 300 negozi, il 60 per cento del fatturato relativo a questo canale di vendita». Da consumato osservatore qual è, Vigini valuta che nel 2008 l’editoria chiuderà, in complesso, i propri bilanci – di solito resi noti in coincidenza con la Fiera del libro di Torino – con una flessione approssimativa del 5 per cento, mentre l’anno passato si era già registrata una diminuzione del 3 per cento. Sono dati che non si limitano alla vendita in libreria, e dunque tengono anche conto del rapido sgonfiarsi del fenomeno relativo ai volumi associati ai giornali in edicola, il cui fatturato complessivo sta calando – stima ancora Giuliano Vigini – di un 15-20 per cento».
C’era aria di polemica, lo scorso sabato, al convegno organizzato dalla Scuola librai italiani con un titolo eloquente: «La svendita dei libri: quale cultura?» In questione è la politica degli sconti praticata dagli editori maggiori presso le grandi catene delle librerie, che ormai da anni sta portando il mercato a una progressiva omologazione dell’offerta. È chiaro che da una parte i piccoli e i medi editori, dall’altra le librerie indipendenti non possono permettersi di competere su questo piano, e vegono dunque messe in gravissime difficoltà. Ma Federico Motta, presidente della Associazione Italiana Editori, tende a sdrammatizzare e a ricordare che gli editori fanno pur sempre parte del mondo dell’imprenditoria. «Bisognerebbe mettere sul tavolo un po’ tutti gli aspetti: intanto, all’estero si trovano sempre scaffali di libri scontati, che non sono la promozione dell’editore, bensì del libraio, capace di gestire il suo stock e di fare in modo che ci sia una certa rotazione nei titoli che promuove. In Italia, invece, c’è il grande problema delle rese: i libri vengono gestiti non solo come prodotti da vendere ma anche da rendere, e per di più in modo selvaggio, perché li si può rendere dal primo giorno fino a cinque anni dopo».