Nello stile di un libertino. Incontro con François Sentein
Marco Dotti
«Non sono un autore, non ho l’ambigua pretesa di sopravvivere alle mie opere, tanto più che, arrivato a una certa età, non mi illudo certo di salvarmi la vita scrivendo». Eppure, per François Sentein nato a Montpellier nel 1920, stretto collaboratore di Cocteau, compagno di strada di Max Jacob, Léonor Fini e Maurice Sachs, nonché testimone privilegiato di oltre sessanta anni di vita culturale (e politica) francese, scrivere è sempre stata attività primaria. Un’attività comunque lontana dalla luce del giorno, discreta e appartata, fatta di correzioni, revisioni, interventi non sempre minimi su testi altrui e di pochi, pochissimi libri a proprio nome. La scrittura è dunque ancora la sola «arma» che gli permette, alla soglia dei novanta anni, di cogliere quelle sfumature nell’inflessione della lingua, quei dettagli di costume e quei leggeri mutamenti del clima culturale parigino che lo hanno reso uno dei migliori chroniqueur della generazione affacciata, negli anni Quaranta, alla ribalta del mondo delle lettere. Il tutto, ovviamente, dando alla parola la valenza che le spetta, in un contesto che ha conosciuto, fra i principali «cronisti», persone del livello di Roger Martin du Gard, Julian Green o Paul Léautaud.
Ma scrittore, François Sentein, lo è diventato «di fatto». Soprattutto dopo che, fra il 1995 e il 2004, alcune delle sue opere più rilevanti, da tempo fuori catalogo o semplicemente disperse, come d’uso, su riviste note ormai solo ai frequentatori più assidui di bouquinistes (da “La Table ronde” à “Contrepoint”, fino alla celebre “Parisienne”, di cui lo stesso Sentein divenne direttore, dopo l’uscita di scena di Jacques Laurent), sono tornate a circolare grazie alla pubblicazione presso Gallimard, che le ha riproposte nella collana «Le Promeneur» diretta dall’attentissimo Patrick Mauriès. Notazioni e appunti in presa diretta, confluiti in una serie di «minute», di libri «completi eppure mai terminati», come ama dire, ma scritti con quella capacità di stile che indusse Cocteau a prenderlo presso di sé, affinché lo aiutasse nella revisione dei propri lavori più «classici». Dalle Minutes d’un libertin alle Minutes d’une autre année, le note di Sentein tracciano una linea che va dal 1939 al 1945, unendo documento storico, tracce e cronache di vita propria o altrui e, soprattutto, plaisir e stile. Di Sentein, Marc Fumaroli ha scritto che «si tratta di un moralista dell’ironia storica», capace di cogliere in poche righe e in pochi istanti gli umori di un’epoca intera. Trenta anni prima di Roland Barthes – notava ancora Fumaroli – questo «libertino umile e indomito» a cui non sfugge nulla dell’involontaria ironia «dei giorni neri», pratica e «proclama il piacere del testo».
«Proprio così», ci dichiara Sentein, «ma sempre senza ambizioni. Io non sento lo stile come un abito messo sul corpo del pensiero, ma come un’epidermide che dipende direttamente e interamente dal corpo del pensiero. Ogni atleta lo sa. Ogni atleta del cuore». Da parte sua, Sentein ricorda ancora che il verbo minuter, a cui si dice particolarmente legato, significa «segnare il tempo, tagliarlo e dividerlo, non solo calcolarlo». «Io sono un uomo di minuti, di secondi, di decimo di secondo. Faccio istantanee». Ma quando gli si ricorda che, dietro queste istantanee, non c’è alcuna estemporaneità o eclettismo, allora la storia cambia. Sentein fu tra gli amici più cari di Jean Genet, nonché il suo vero mentore, prima che il testimone passasse a Jean Cocteau e Sartre. Ma è a lui, «le petit Franz» – come lo chiamava Genet e ancora lo chiamano gli amici – che il futuro autore del Miracolo della rosa indirizzava le proprie lettere. Sentein rispondeva e si prodigava per procurargli carta, penna e cibo che Genet chiedeva in continuazione. Eppure, nei trenta anni che seguono la stesura e precedono la pubblicazione delle Lettres au petit Franz (Le Promeneur, 2000) di Jean Genet e la riedizione delle Minutes, quasi nessuno, a parte i pochi lettori di sempre, nota Mauriès, «si è ricordato di questo ‘giovane ottantenne’», lucido e sottile più di intere generazioni di scrittori viziati dai media e storditi dalle classifiche di vendita. Ma, rimarca Sentein, anche questa è una definizione «che non mi interessa, perché, vede, il mio è sempre stato un lavoro silenzioso, a suo modo oscuro, se proprio vogliamo, ma né più, né meno di quello che, a partire dagli anni Quaranta, impegnò gran parte dei giovani della mia generazione».
Lei ha preso attivamente parte alla “grande stagione” delle riviste francesi. Ha scritto molto, partecipato a dibattiti, anche se da “tribune” minori poi è come se fosse uscito di scena, allontanandosi dalla porta di servizio, forse per preservare quell’operosità senza opera a cui mostra di tenere molto. Si è trattato dunque di una scelta?
Direi proprio di sì. Nulla di strategico, però. Vede, io non ho mai bussato a una porta o dato un colpo di telefono a qualcuno per vedere il mio nome figurare in un indice o in calce a un articolo. Ho altri tempi, vivo gioiosamente il mondo, da buon libertino, ma non seguo il ritmo apparente del mondo. Oggi si fa un gran discutere partendo dai libri di Michel Onfray, ma è una tradizione che viene da lontano.
Durante l’Occupazione, il termine «libertino», che sembra rappresentarla così bene, riscuoteva un certo gradimento. Non a caso, anche Roger Vaillard pubblicò un profilo del «vero libertino».
Certamente, comunque sia in apertura delle Nouvelles minutes d’un libertin cito due passi, uno di Renan, l’altro di Roger Nimier, che definiscono non tanto la «mia» prospettiva storica, quanto la «possibilità» – in cui questa prospettiva si inscrive – di uno sguardo libertino, o neo libertino, sulla storia. «Siamo i libertini del nostro secolo», sosteneva Nimier. Anche una tempra di tutt’altra natura, come quella di Ernest Renan sempre diffidente e, al contempo, scrupoloso nelle sue analisi, alla fine dovette alzare bandiera bianca e dichiarare che, forse, aveva sbagliato tutto nella vita. «Non posso togliermi dalla testa», confessava, «che forse è il libertino ad avere ragione e a praticare una vera filosofia delle vita». Ecco, se proprio vogliamo andare al cuore della questione, io credo si debba – lo credo io, non è una verità oggettiva, intendiamoci – guardare alle cose con questo occhio, con questa filosofia. È, anche questa, una forma di scesi. Max Jacob era a suo modo un libertino, si era fatto frate, viveva in un convento. Lo erano Genet, Jouhandeau. Credo avesse ragione Vauvernagues quando scriveva che la «maggior perfezione dell’anima è di essere capace di piacere». Fin da giovane ho creduto, e in parte l’ho fatto, che occorresse scrivere più che la storia del «piacere», la storia della sua caduta in disgrazia. Sfogli il Larousse, e vi troverà delle sorprese. Alla voce «libertin», si legge: «è un uomo senza ambizioni, occupato a coltivare il proprio animo e a conoscersi». Un viaggiatore che viaggia sempre attorno a se stesso e alla propria stanza, ma alla fine si ritrova sempre, e chissà come, nel mondo.
A questo proposito, Marc Fumaroli ha sottolineato come i suoi lavori siano in gran parte realizzati con stralci di piccoli trattati di costume costretti a convivere con le sferzate di un moralista classico capitato, chissà come e perché, a vivere in un altro tempo. Si riconosce almeno in questa definizione, o preferisce quella di moralista?
Come le ho accennato, io osservo i fatti, non pratico il campo delle definizioni. Spesso coincidono con fatti di cronaca, talvolta poco nobili, esattamente quelli che i giornalisti chiamano «faits-divers», li osservo e poi scrivo. Non registro semplicemente, è ovvio. Ma le mie sono note in presa diretta. Direi che la definizione che più mi aggrada è quella di giornalista, e di libertino. Ma qui non è questione di definire il sottoscritto, cosa che, d’altronde, avrebbe ben poca rilevanza e interesserebbe poco anche a me. Si tratta, se ho ben capito, di collocare il mio lavoro comunque atipico, se non proprio indefinibile, di delimitarne il contesto, parimenti sfuggente, e capire che traccia lascia, sempre che ne lasci una, nel mondo. Perché le mie sono gocce d’inchiostro che marcano evidenze. Forse qualcuno le può scambiare per macchie, semplici note tratte da un taccuino, ma se si guarda bene, dentro, nel fondo del nero, si scorgono gli uomini con tutte le loro storie. La mia fortuna è stata quella di passare attraverso molte cose, vedere molte facce, osservare la Francia in un momento in cui tutti preferivano coprirsi il volto, pur di non guardarsi negli occhi. In fondo, anche i più piccoli ricordi hanno il loro peso specifico, la loro «gravità». Il francese, per dire che un ricordo si incide nella memoria, usa il verbo «graver». Con Descartes potremmo a nostra volta sostenere che un ricordo che i lettori non hanno, per forza di cose, vissuto, appare loro vero nella misura in cui ne sentono o ne intuiscono la coerenza interna o la possibilità logica, e vengono infine rapiti da quella splendida cosa che definiamo «clarté», misto di trasparenza e candore. Ecco allora che un ricordo «degno» di essere ricordato è quello che, proprio grazie al suo peso, alla sua coerenza e alla sua lucidità, pur appartenendo a un tempo ormai passato, sembra sempre di là da venire.
Nelle sue «minute» uno di questi ricordi assume un peso del tutto particolare. Mi riferisco all’incontro con un celebre scrittore che all’epoca si faceva chiamare Corneille…
Sì, si faceva chiamare così, pensi un po’. Era un lettore di Racine, ma Corneille lo conosceva a fondo, veramente. Solo dopo conobbi la sua vera identità. Il suo nome era Jean Genet. Quel soprannome glielo avevano affibbiato Laudenbach e Turlais, che me lo presentarono, un mattino di ottobre del 1942, sulla terrazza del ristorante Capulade. Parlava di cinema e si inserì in una conversazione già avviata dicendo che sì, lui aveva una buona idea per una sceneggiatura. La buona idea era, chiaramente, la «sua» prigione, il carcere di Mettray. In verità, Mettray non era un carcere, ma una colonia agricola. Genet vi era stato recluso attorno ai sedici anni, per poi finire, dopo mille altre peripezie, nella prigione di Fresnes. Genet sostenne allora di avere già scritto una pièce su questo soggetto e che ce l’avrebbe mostrata, appena gli sarebbe stato possibile portarla nella dattilografia di rue Claude-Bernard. C’era da credergli? Era abituato a mentire, si capiva subito, ma i suoi occhi azzurri, il suo sguardo intenso, la sua intelligenza ricordavano quelle di Verlaine. Gli assomigliava, solo che il suo sguardo era molto più duro. Dopo avermela promessa molte volte, finalmente, verso il mese di dicembre del 1942, Jean Genet mi convocò nella modesta stanza di un albergo e mi consegnò una breve pièce teatrale, titolata Pour la belle, che solo più tardi apparve, col titolo di Haute surveillance. Mi pregò allora di portarla a Jean Marais, che gli ricordava il protagonista della pièce, Yeux-Verts. Genet mi consegnò anche una copia del Condannato a morte. Lo aveva fatto stampare da alcuni falsari. Finalmente dopo tante parole, mi dissi, ecco un vero poema. La dedica mi colpì molto: «A Maurice Pilorge, assassino di vent’anni». Pilorge era una sorta di Landru minore, una di quelle figure dall’ambiguo destino verso cui Genet si sentiva naturalmente attratto. Fu mandato a morte nel marzo del 1939, accusato di avere brutalmente ucciso il proprio amante. Qualcuno ha parlato di una sorta di «Nadja» omosessuale. La sua figura, comunque, transita in controluce in tutta l’opera di Jean Genet, da Notre-Dame-des-Fleurs a Miracolo della rosa. Eppure Jean Genet non ha mai conosciuto Pilorge, perché ha appreso la sua storia dalla letteratura che frequentava più assiduamente, ossia dalle riviste nere e dalla cronaca del tempo. L’ha conosciuta, divorata, fatta propria, ne ha tratto insomma poesia. Fatto che illumina, se vogliamo, sul processo creativo di questo scrittore, per nulla sprovveduto e per nulla analfabeta (come gli piaceva far credere).
Alla storia e ai retroscena del Condannato a morte lei ha dedicato un libro come L’assassin et son bourreau (Éditions de La Différence, 1999) che sarebbe riduttivo definire nei termini di una ricostruzione giornalistica. Oltre al grande lavoro di ricerca, è la scrittura a colpire, nell’intreccio delle vite parallele del giovane omicida e del suo «boia» letterario. È una sorta di contrappunto in tono minore, che rifà il verso proprio ai romanzi di Genet, e getta nuova luce sulla vita – letteraria e non – di Pilorge. Ce ne dice qualcosa?
Ho cercato di ricostruire o decostruire, se preferisce, con un tono e uno stile diverso, quello che è diventato uno dei luoghi comuni poetici nell’opera di Genet. È un’indagine su uno scrittore, un assassino, sul suo boia e sui destini che si incrociano. Quando ho conosciuto Genet, lui usciva e entrava in prigione di continuo. Venne condannato dalla stessa camera giurisdizionale e dallo stesso tribunale che avevano condannato Pilorge. In più, il boia che doveva attendere all’esecuzione di Pilorge, Anatole François Deibler, abitava accanto alla casa che, in gioventù, era stata di Genet. Il 2 febbraio 1939, mentre si recava sul luogo dell’esecuzione, Deibler morì per un attacco cardiaco, cadendo per le scale del metrò. Una fotografia che lo riprendeva mentre scendeva quelle scale, poi riportata in copertina di «Detective», allora diretta da Marius Larique, fece scalpore. Il «Signore di Parigi», come veniva chiamato dalla gente della Capitale, che ne aveva fatto una sorta di macabra celebrità, era morto proprio prima di dar corso alla sua trecentesima esecuzione. Il giorno seguente, avrebbe dovuto togliere la vita a Maurice Pilorge, che comunque non fu risparmiato, e venne ucciso il mese dopo. Per Genet fu un trauma, vissuto e rivisitato nella scrittura (dato che non aveva mai incontrato né conosciuto Pilorge). E, al tempo stesso, fu la ferita, la traccia, la cifra nera con cui la sua opera da lì in avanti «fagociterà» Pilorge, inscrivendolo nell’universo di un altro immaginario. «Penso a Pilorge», scriveva allora Genet, e «il suo volto, ritagliato da Detective, annerisce il muro, con la sua irradiazione fredda. Lo sporca con un getto che non può esprimersi se non nel confronto di due termini che si annullano: luce e tenebre». È in questo chiaroscuro che vivono, e sopravvivono, i ricordi. Come note a margine, come «minute» di un tempo andato, eppure sempre di là da scrivere, e da venire.
[da il manifesto, 26 luglio 2006]
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