philosophy and social criticism

Nessuna lingua è santa

di Ilde Mattioni

Daniel Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, traduzione di Andrea Cavazzini, Quodlibet, Macerata 2007.

Nessuna lingua, nemmeno quella un tempo – e da alcuni – reputata «sacra», sembra in grado di sottrarsi al proprio declino. Attenendosi implicitamente a questo assunto, nel novembre di quindici anni fa l’Unesco istituì un programma permanente denominato «lingue in pericolo» per il monitoraggio e lo studio del patrimonio linguistico mondiale.

Ad animare gli esperti dell’organizzazione era un timore apparentemente circostanziato: che cosa succederà quando, nel giro di poche centinaia di anni, l’intero pianeta – ammesso ne esisterà ancora uno – si ritroverà alla prese con lo spettro di un irreversibile «monoglottismo»?

Che cosa ne sarà delle differenze e chi si servirà più per comunicare, pensare, elaborare la propria visione del mondo non solo di qualche oscura variante del romancio grigionese o di un idioma del gruppo uto-azteco, ma anche di lingue oggi apparentemente forti e per nulla minoritarie? Che cosa accadrà a queste ultime quando la comunità dei loro parlanti si sarà infine concretamente, indistintamente e completamente globalizzata?

Il progetto dell’Unesco, culminato nell’Atlas of the World’s Languages in Danger of Disappearing, oltre a quelli di tipo analitico e descrittivo, fra i propri obiettivi poneva e ancora pone l’impegno attivo per «la salvaguardia» delle lingue in via di estinzione e la «tutela» della pluralità linguistica. Gli esperti chiamati a più riprese in causa dall’Unesco hanno calcolato che delle circa seimila lingue ancora parlate sul pianeta, una buona parte cesserà di esserlo entro la fine del secolo in corso, al ritmo di una scomparsa alla settimana.

Stime e calcoli, ovviamente, sono tutti da verificare ma hanno un proprio effetto e una presa anche teorica che va al di là della risonanza mediatica che, a ritmi regolari, i mezzi di informazione sono ben disposti a riservare loro. Dai primi anni Novanta a oggi, sono fioriti nell’editoria angloamericana seriosi manuali e serissimi academic books dedicati al complesso problema della morte delle lingue. In uno di questi, significativamente intitolato Language Death (Cambridge University Press, 2000), David Crystal esordisce con un invito a fare presto, recuperando il tempo perduto, prima che la catastrofe arrivi.

Le ipotesi di Crystal sono in gran parte una semplificazione, in gran parte banalizzante, di quelle più rigorose espresse circa dieci anni prima in un omonimo lavoro da Nancy C. Dorian. Nel corso dei suoi studi sul gàidhlig (il gaelico scozzese), la Dorian arrivò infatti a formulare la tesi che, su larga scala, si stava realizzanzo un fenomeno mai visto prima, fenomeno qualificabile nei termini di un vero e proprio «suicidio linguistico» di massa a cui, in un modo o nell’altro, andava posto rimedio.

In realtà, l’espressione «suicidio linguistico» andava ad affiancarsi e, in qualche misura, a sovrapporsi a quella già rodata di «linguicidio» o «genocidio linguistico», e allo specialista, secondo la ricetta di Crystal, andrebbero oramai richieste salvifiche doti da terapeuta. «Allo stesso identico modo in cui i medici intervengono per preservare la salute fisiologica del paziente – prescrive Crystal – i linguisti dovrebbero intervenire per preservare la salute linguistica di chi parla lingue in pericolo».

Nel 1995, sensibile a questi richiami, anche il governo degli Stati Uniti aveva pensato di intervenire sul campo, creando un apposito Fondo per le lingue in pericolo il cui «manifesto» accentuava gli scenari apocalittici già prefigurati dai consulenti delle Nazioni Unite.

«Molte lingue sono morte nel corso della storia, ma mai – si legge nel proclama di costituzione del Fondo – mai prima d’ora abbiamo affrontato un’estinzione di massa come quella che ora minaccia il mondo. In quanto professionisti della lingua, ci troviamo di fronte a una dura realtà: gran parte di ciò che studiamo non sarà accessibile alle generazioni future. L’eredità culturale di molti popoli si sgretola sotto i nostri occhi. Siamo disposti ad assumerci la responsabilità per non essere intervenuti?».

Eppure, a dispetto delle preoccupazioni dei linguisti – si pensi solo a Jean Claude Hagège e al suo Morte e rinascita delle lingue (traduzione di Luisa Cortese, Feltrinelli, 2002) – e degli allarmi lanciati dalle organizzazioni che si sono autodeputate alla tutela della «diversità culturale», ogni lingua sembra rispondere a una temporalità propria, molto diversa da quella imposta dai ritmi biologici di vita e di morte, e ogni lingua sembra in qualche misura sopravvivere al proprio, inevitabile, oblio.

L’osservazione tutt’altro che scontata, visto il contesto, che le lingue non muoiano o che, quanto meno, non lo facciano nella maniera che i «custodi» della diversità sono disposti ad ammettere è una delle idee-forza dell’affascinante lavoro di Daniel Heller-Roazen, giovane e brillante comparatista dell’università di Princeton.

Nel campo delle lingue, suggerisce Heller-Roazen, sono rari gli eventi notevoli, difficile quindi pensare alla loro «morte» servendosi acriticamente di paradigmi mutuati dalle scienze naturali. Se, da un lato, la riflessione sull’uso politico-ideologico di metafore biologiche, zoologiche, botaniche in linguistica è ancora tutto da affrontare, dall’altro l’inconfutabile scomparsa di decine o centinaia di lingue sembra attrarre l’attenzione più sui microfenomeni empirici dell’estinzione, che sulla natura stessa di quell’estinzione e di quel mutamento linguistico e sulle sue conseguenze (filosofiche o antropologiche che siano).

Al pari di quella dell’origine del linguaggio, la questione della sua scomparsa appare – teoreticamente – oscura, e in qualche modo dovrebbe costringere l’osservatore a confrontarsi con una serie di miti (di fondazione) e contro-miti (dell’estinzione) capaci di suscitare domande in qualche modo decisive.

La tesi di Heller Roazen è sintetizzabile nell’idea che nel suo costante processo di mutamento e metamorfosi, ogni lingua mantenga in sé l’eco e l’ineludibile testiminianza di tutte le altre, allo stesso modo in cui un’esclamazione, un’afasia, un’ecolalia, una dentale impronunciabile serbano memoria di quella babele infantile che Roman Jakobson definiva «apice del balbettio (die Blüte des Lallens).

Nei primi anni di vita, quando gradualmente apprende i fonemi di quella che presto diventerà la sua lingua madre passando da uno stadio prelinguistico a uno stadio propriamente linguistico, osservava Jakobson, il bambino perde «interamente la propria capacità di produrre suoni».

Che cosa può affascinare a tal punto l’infante, si chiede allora Heller-Roazen, da indurlo ad abbandonare capacità fonatorie potenzialmente infinite per abbracciare i suoni articolati e definiti di un’unica lingua?

È probabile che la rinuncia a un arsenale fonetico illimitato è il prezzo che il bambino deve pagare per ottenere il visto che gli garantisce piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua. Ma forse – questa è l’altra tesi forte e al tempo stesso la questione attorno a cui ruota il libro – qualcosa di quel balbettio rimane anche nei linguaggi dell’adulto, sotto la forma dell’eco di un’altra lingua e di qualcosa di altro dal linguaggio. Eco che avvolge ogni lingua nella babele incessante e nella temporalità sfalsata del proprio mutamento.

tysm literary review

vol. 16, issue 21

january 2015

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