philosophy and social criticism

La logica del luogo di Nishida Kitaro

"Nishida Kitaro"

di Marco Dotti

Nishida Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, a cura di Tiziano Tosolini, L’Epos, Palermo 2005.

Nel 1929, dando alle stampe un volume sull’arte giapponese, Tsuzumi Tsuneyoshi ne indicava la peculiarità estetica nel suo «essere senza cornice». «Una forma senza forma, una altezza senza altezza, una profondità senza profondità», quella dell’arte nipponica, capace di svelare con tratti leggeri, ma decisi tutta l’intensità di «un dolore senza mestizia e una gioia senza i colori dell’allegria». Esattamente quindi anni dopo, nel suo breve saggio dedicato alla Mente giapponese, pubblicato su «Fortune», Karl Löwith riprese le note di Tsuzumi per indicare la matrice culturale del modo di pensare dei giapponesi. Matrice completamente immersa nella dimensione del paradosso, non ancorata, se così si può dire, al pensiero concettuale, ma a una pratica del vuoto come lo Zen.

Esattamente il contrario di ciò che avviene nella speculazione europea che, se stiamo a quanto osserva Nishida Kitaro – considerato da Löwith «il più raffinato e sottile tra i filosofi giapponesi contemporanei» -, da Parmenide in poi parla impropriamente del nulla ma, in realtà, si occupa sempre e soltanto «dell’essere». È in ragione di quello «sfondo» o «luogo» culturale che è la nothingness, suggeriva Löwith, che il Giappone moderno ci appare come «un fatto incontestabile e, al tempo stesso, una impossibilità». Proprio di questa «impossibilità» profonda cercò di rendere conto Nishida nel suo La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, un complesso lavoro scritto nel 1945, poco prima della morte, e considerato il testamento morale del principale esponente della scuola di Kyoto.

Nato nel 1870 nella prefettura di Ishikawa, nel nord del Paese, influenzato dalla letture di Eckhart, Spinoza e William James, nonché dalla pratica dello zen, intrapresa su consiglio dell’amico Suzuki Daisetsu, solo nel 1926 Nishida iniziò a elaborare la sua «logica del luogo» come nucleo portante di una visione filosofica affascinante e sottile. Dopo aver abbandonato l’insegnamento universitario in seguito a alcune disgrazie famigliari, Nishida, che allora si occupava prevalentemente di questioni estetiche e morali, sviluppò alcune intuizioni già presenti nello Studio sul bene del 1911 e diede alle stampe Luogo e Dall’agire al vedere che rimangono tra i suoi lavori più noti.

Poliglotta, profondo conoscitore della filosofia occidentale, Nishida aveva ambizioni che andavano al di là dei confini ristretti dell’Impero, sperando di suscitare un dibattito su scala internazionale proprio grazie alla comparazione e alla continua oscillazione del suo stile tra universi e riferimenti culturali distanti e all’apparenza inconciliabili.

Il «luogo» (basho), nell’ottica di Nishida, rappresenta una sorta di universale concreto che rende possibili e manifeste «tutte le operazioni della coscienza». Molto vicino alla chora platonica, esso si identifica, in ultima istanza, con una sorta di «nulla assoluto», ossia di spazio senza forma che avvolge e contiene in sé ogni particolare e al cui interno è resa possibile ogni attività conoscitiva. «L’uomo conosce la vera profondità del suo sé solo negandosi completamente», scrive Nishida, in tal senso «ci si sbarazza anche del libero arbitrio, non esiste più alcun sé che possa peccare; persino l’idea del bene altro non è che l’ombra di qualcosa senza forma».

Il nulla di cui parla Nishida è pensabile, quindi, solo come «sfondo creativo», come luogo in cui si manifesta quella «identità assolutamente contraddittoria» che unisce e avvince «l’uno e i molti». È da questa nozione cardine che Nishida sviluppa – secondo uno stile circolare, tornando molte volte sullo stesso punto per metterne a nudo aspetti diversi da differenti punti di fuga – le idee di conoscenza pre-concettuale, di esperienza pura, di pratica intesa come azione-intuizione. Secondo l’autore, «non esiste alcun infinito separato dal finito, non esiste alcuna assoluta separazione con il relativo; non esiste alcun Dio trascendente posto fuori dall’universo». Al contrario, l’infinito che rigetta il finito è anche esso un qualcosa di finito, e «l’assoluto che abbandona il relativo è a sua volta un relativo» tanto che «il vero infinito è all’interno del finito, il vero assoluto è relativo» e tutto «deve trovarsi all’interno di questa mutevole realtà».

In tal senso, una ipotetica «teologia del luogo» propria della visione religiosa sviluppata nello studio di Nishida non sarebbe da qualificare «né teista né deista, né un fatto della mente né un fatto della natura», poiché «essa è storica», interamente persa nella dimensione di una logica non predicativa né soggettiva, ma puramente, radicalmente, immersa nella contraddizione.

Citando le parole del maestro zen Banzan Hojaku («è come brandire una spada nell’aria; il problema non è se la spada raggiunga o meno l’oggetto, nell’aria non c’è neppure una traccia del cerchio vuoto tracciato»), Nishida si serve così della nozione buddista di soku-hi, che indica la coesistenza, e la coimplicazione, di due identità differenti, ma non opposte. L’identità di cui si parla è, dunque, una specie di «identità aperta», costitutivamente contraddittoria, un luogo, appunto, in cui – come osserva il curatore Tiziano Tosolini, che sceglie di tradurre soku-hi con «affermazione eppure negazione» – «la superficie è già profondità, la vicinanza è già lontananza, l’esterno è già l’interno». Le parole di Banzan sono portate a esempio da Nishida proprio per illustrare questa idea di «identità contraddittoria del sé e del mondo, dell’individuo e del tutto». Dal punto di vista della logica oggettiva il ragionamento può apparire viziato da un sentimento panteistico, ma, ribadisce ancora Nishida, le parole dei maestri zen «non devono essere interpretate in questo modo, poiché esse sempre affermano negando una identità contraddittoria».

Questa «identità assolutamente contraddittoria» che, in ultima analisi, consiste «nel luogo, ossia il mondo del presente assoluto e lo spazio storico», viene paragonata «a una sfera infinita che non ha circonferenza e il cui centro è ovunque; non avendo un fondamento proprio, questa sfera dal carattere di identità contraddittoria riflette se stessa in se stessa».

È proprio da questo punto di vista che Nishida – citando anche le parole di Dimitri Karamazov secondo cui «la bellezza è nascosta in Sodoma» – invita infine ad accogliere la sfida offerta dl senso profondo, e non di convenienza, della frase zen della dottrina del vuoto mentale: «Fa sorgere la mente che non dimora da nessuna parte». Opera breve, ma davvero complessa e affascinante, questa Logica del luogo venne portata a termine nella primavera del 1945, mentre gli americani dimostravano la propria superiorità aerea, bombardando le città giapponesi. Anche «Hegel compose la sua Fenomenologia dello spirito mentre fuori riecheggiavano i colpi di cannone delle armate napoleoniche», confessava Nishida a un amico. Portato a compimento il lavoro, Nishida si spense il sette giungo del 1945. Due mesi più tardi, il Giappone sarebbe capitolato, nel clamore muto di Hiroshima.

tysm literary review

vol. 16, issue 21

january 2015

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