Non si deve morire nudi: la danza macabra e la rappresentazione della morte nel Medioevo
Francesco Paolella
Anche per chi non è uno specialista, questa “visita guidata” a Clusone (nelle prealpi bergamasche), davanti agli affreschi del Trionfo della morte e della Danza macabra, è un percorso coinvolgente e anzi memorabile. Chiara Frugoni (assieme a Simone Facchinetti) ci permette di cogliere ogni particolare di queste opere del 1485, realizzate da Giacomo Busca, e ci mostra allo stesso tempo in che modo e perché i temi della morte e del macabro erano allora così prepotentemente presenti. La confraternita dei Disciplini commissionò questi affreschi per il proprio oratorio e impose all’artista una precisa visione della vita e della mortalità, anche discostandosi dalle altre Danze macabre diffuse in tutta Europa.
Dalla fine del XIII secolo la Chiesa accolse e promosse una specie di “cultura del macabro”, per spingere la gente, in nome di un vero «terrorismo edificante», a pensare alla morte e – ovviamente – ad averne paura. La mentalità collettiva, dopo la “nascita del purgatorio”, tendeva infatti a lasciare sempre più sullo sfondo i destini ultimi (individuali e collettivi) e finì per concentrarsi sulla morte in sé, non vista più tanto come passaggio verso la nuova e definitiva vita, quanto piuttosto come termine dell’esistenza terrena, pura distruzione del corpo e dei suoi piaceri.
“La paura non fu più convogliata sull’aldilà ma sull’aldiqua, sullo sgomento derivante dalla constatazione che ogni bene è transitorio, ogni valore è un inganno. Solo a questo punto la Chiesa poté esporre come corollario la necessità di tenere in conto l’anima e la quasi sicura dannazione” (p. 9).
Le Danze macabre dovevano essere in primo luogo un promemoria angosciante sulla propria morte, comunque incombente. Morire è il destino di tutti e, in quel momento estremo, non servono a nulla ricchezze e potere: la morte non si cura di ciò che si è stati capaci di creare e accumulare in vita. La morte è spietata e non tratta. Si muore nudi e soli. La morte non si ferma davanti a niente: e il solo vederla è uno spettacolo sempre osceno e disgustoso. I cadaveri esprimono da sempre l’orrore stesso.
È chiaro qui l’intento edificante. Ma nel caso di Clusone la disperazione dei morti, di ogni morto, non rappresenta l’ultima parola, per così dire: la morte domina ovviamente come regina assoluta, ma la confraternita dei Disciplini voleva anche offrire una visione meno cupa e, per quanto possibile, più rassicurante. In sostanza, sarebbe bastato, per affrontare la morte, essere rigorosi nel seguire le regole di vita imposte al “buon cristiano” e, in particolare, tenere una condotta adeguata nella gestione dei propri beni. La Frugoni, riandando qui a un importante saggio redatto dal padre Arsenio nel 1957, ci mostra quanto fosse importante per i committenti (una confraternita di laici, impegnati nel loro lavoro e nei loro affari) proporre un uso “modesto” della propria ricchezza. Questo ideale di (relativa) sobrietà faceva poi trascurare ogni possibile intento satirico contro i nobili e i potenti e diceva piuttosto di uomini appartenenti alla “classe media”, per così dire.
La morte non andava temuta oltremisura, a patto di seguire la strada tracciata. La morte poteva essere quasi “accettata” da uomini soddisfatti della propria esistenza, vissuta lontano dagli eccessi: nella Danza macabra di Clusone mancano, oltre alle presenze femminili, anche i più poveri, i mendicanti, gli storpi ecc. E’ fin troppo evidente qualche era il modello proposto:
“ Paghi di una vita quieta e misurata sono coloro che si iscrivono alla confraternita dei Disciplini, nella quale non c’è posto […], a meno che non si appartenga alla confraternita, per chi è povero o malati; per questo nell’affresco è assente la commiserazione per i miserabili, o quanto meno l’attenzione alla loro sfortuna” (p. 106).
La fortuna di questi affreschi conobbe lunghi periodi bui. Furono riscoperti alla metà dell’Ottocento, in piena epoca risorgimentale, ed ebbero anche una lettura democratica, secondo la quale il Trionfo e la Danza furono visti soprattutto come una critica alla superbia dei ceti dominanti.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 32, issue no. 37, january 2017
issn: 2037-0857
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